Avvenire, 13.1.2008
MARINA CORRADI
DA MILANO - Dall’ecografia la dolorosa diagnosi: sarà cerebroleso. La paura, i dubbi. E la scelta Ma risultò poi perfettamente sano Quelle che sei mesi prima hanno cambiato idea vengono giù dal Reparto maternità in vestaglia, il bambino fra le braccia. Sono contente. Al figlio di tre giorni addormentato dicono: «Sorridi a questa signora, è grazie a lei se sei nato ».
Paola Bonzi non vede i bambini né le madri, nell’oscurità in cui è caduta da 40 anni. Ma le donne, le riconosce dalla voce. Questa è la filippina che voleva abortire per poter mandare i soldi agli altri figli, a Manila.
Questa è la laureata in matematica che non voleva un bambino, e tuttavia, forse senza capire perché, ha continuato per un mese a cercare Paola, e a parlare, parlare di tutte le buone ragioni di quel no.
Poi, sul letto della sala operatoria, l’ha chiamata ancora, e ha deciso che suo figlio sarebbe nato.
In molte, e non solo delle extracomunitarie, raccontano nelle stanze del Cav di uno stipendio che non basta, di uno sfratto imminente. Ma se anche garantisci aiuti economici, e aiuto per trovare una casa, continuano a dire di no.
Qualcuna sbotta: «Ma non lo capisce che questo figlio non lo voglio proprio?». Tuttavia, qualcuna dopo essersi sfogate con quella donna che non le giudica, torna. Oppure le si rivede sei o sette mesi dopo, con il bambino.
Le giovanissime spesso vogliono, nonostante tutto, quel figlio arrivato troppo presto; è più facile che sia la loro madre a opporsi a una gravidanza a sedici anni. Poi, c’è l’angoscia di quelle che arrivano con la diagnosi di una malformazione. Come la ragazza che venne col marito, era un figlio molto desiderato, ma il responso dell’ecografia era terribile: sarebbe nato con una gravissima malformazione al cervello, se fosse sopravvissuto, era il verdetto, «avrebbe vissuto come un vegetale».
Paola Bonzi ricorda quel lungo colloquio doloroso, la donna che parlava, lei che ascoltava zitta, infine quella che domanda, disperata: «Ma, se fosse figlio suo, lei, signora, cosa farebbe?». E la Bonzi di risposta: «Non lo so. Ma si ricordi che se avrà bisogno di aiuto io ci sarò sempre». I due se ne vanno, non se ne sa più niente, pare ovvio pensare che abbiano scelto l’aborto. «Un mattino sono arrivata come sempre in ritardo, affannata – ricorda Paola – c’è una signora che ti aspetta, mi dicono, io rispondo che proprio non ho tempo, non ce la faccio. Guarda che è in vestaglia, insiste la mia collaboratrice. Allora vuol dire che è una ricoverata. La faccio entrare. 'Signora – mi dice – io sono quella…'. La riconosco subito dalla voce. È la donna che aspettava un bambino cerebroleso. Come sta? Domando con il cuore in gola. 'Sono venuta a portarle mio figlio. Sta benissimo. La malattia segnalata dall’ecografia non c’era'». La Bonzi ascolta con un tuffo al cuore. A volte gli esami sbagliano. Ma quella donna che stava per abortire ha deciso di tenere il figlio senza sapere affatto che era sano, anzi, credendolo molto malato.
«Cosa è stato? – domanda allora – che cosa l’ha fatta decidere?». «Io so solo – risponde la donna – che quando sono uscita da qui, dentro di me mi sono detta: qualunque cosa abbia, è figlio mio. E ho deciso che l’avrei tenuto.
Da allora non ho nemmeno più pensato alla malattia. Ho avuto una gravidanza serena. Solo quando è nato, ho saputo che era perfetto». «È figlio mio». Nei vecchi corridoi della Mangiagalli, una porta aperta, e novemila storie sconosciute di amicizia e femminile coraggio.
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