lunedì 14 gennaio 2008

STORIE DI SPERANZA

Io non 'dico' proprio niente. È questo l’er­rore di fondo, pensare che si debba pre­dicare, quando occorre prima di tutto a­scoltare. Se io dicessi alle donne cosa 'de­vono' fare, abortirebbero il giorno dopo. Invece, occorre lasciarle parlare, anche per ore, del loro 'no': di tutte le ragioni per cui di quel figlio non ne vogliono sapere. Con assoluta libertà. Perché – parlando di quante non hanno problemi economici o concreti – ci sono due obiezioni fonda­mentali alla maternità. La prima è una 'i­nadeguatezza' che la donna avverte di fronte all’idea di un figlio, la sensazione di 'non essere capace'. La seconda è una sorta di ambivalenza: un desiderare il bambino e nello stesso tempo negarlo, ma a un livello nemmeno cosciente.
«Per la vita ascolto e aiuto: così ho salvato 9mila bimbi»
Il Cav della Mangiagalli: potremmo evitare metà degli aborti
Paola Bonzi dal 1984 anima la struttura milanese da lei fondata: solo nel 2006, 833 nati, «sottratti» alla Igv
DA MILANO
MARINA CORRADI
Avvenire, 13.1.2008




Nel soggiorno della sua casa mila­nese la stanza è quasi buia, ma Paola non se ne accorge: è cieca da quando aspettava il suo secondo figlio. Il Centro di aiuto alla vita della Mangia­galli lo ha voluto e fondato lei. Paola Bon­zi, 64 anni, ex insegnante, consulente fa­miliare, dal 1984 dirige il Cav all’interno della più grande maternità di Milano.

«È stata quella malattia piombatami addos­so durante la gravidanza che mi ha spin­to a occuparmi di maternità. Mio padre u­na mattina mi prese da parte: 'Ricordati, a questo bambino io vo­glio già bene'. Io non ho mai pensato di abortire, ma mi sentivo così fragi­le: come lo avrei cresciu­to quel figlio?».

Per questo ha scelto di 'lavorare gomito a gomi­to' con le donne. In que­sti 24 anni sono 9000 i bambini messi al mondo da madri aiutate da Pao­la Bonzi, fra mille diffi­coltà: fino a poco tempo fa il Cav era una sorta di ospite dimenticato nell’ospeda­le.

Poi il recentemente scomparso prima­rio Giorgio Pardi, che pure era abortista, si accorse che il 53% degli aborti riguar­dava extracomunitarie. E si adoperò per­ché le donne che arrivano per una Ivg ve­nissero a conoscenza del centro.

Nel 2006 i nati grazie al Cav sono stati ben 833, un aumento dell’83%. Perciò, mentre si di­scute di moratoria, abbiamo voluto chie­dere a Paola Bonzi che cosa concreta­mente aiuta una donna a tenersi un bam­bino; visto che tante volte lei ci è riuscita.

Molte delle donne che abortiscono sono straniere e povere, e spesso basta un so­stegno umano e economico perché cam­bino idea. Ma parliamo invece di quel­­l’altra metà, che abortisce perché un fi­glio non lo vuole. Lei a queste donne che cosa dice?

Io non 'dico' proprio niente. È questo l’er­rore di fondo, pensare che si debba pre­dicare, quando occorre prima di tutto a­scoltare. Se io dicessi alle donne cosa 'de­vono' fare, abortirebbero il giorno dopo. Invece, occorre lasciarle parlare, anche per ore, del loro 'no': di tutte le ragioni per cui di quel figlio non ne vogliono sapere. Con assoluta libertà. Perché – parlando di quante non hanno problemi economici o concreti – ci sono due obiezioni fonda­mentali alla maternità. La prima è una 'i­nadeguatezza' che la donna avverte di fronte all’idea di un figlio, la sensazione di 'non essere capace'. La seconda è una sorta di ambivalenza: un desiderare il bambino e nello stesso tempo negarlo, ma a un livello nemmeno cosciente.

Ho conosciuto donne che hanno abortito fi­gli lungamente desiderati. Esempio straordinario di questa ambivalenza è la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci: che con suo figlio nel ventre parlava, e già lo amava, e però diceva: vedi, io ho tante cose da fare, non posso solo stare qui e pensare a te. E alla fine la Fallaci, cui i medici avevano ordinato il riposo, accetta un’inchiesta impegnativa all’estero, e finisce con il perdere il bambino.

Ricordo una signora in visone che venne da me, incinta di due gemelli. Per averli si era sottoposta a una stimolazio­ne ovarica. Mi disse: «Voglio abortire». A che mese è, chiesi. «Alla 22esima setti­mana », rispose. Sa che potrebbero na­scere vivi, domandai? «Non importa, non li voglio».

Il marito accanto disse con dolcezza che lui, invece, li voleva tantissimo. La signora prese a parlare. Quei figli li aveva cercati perché sua madre ci tene­va tanto, a essere nonna. Ma ecco, la madre era morta pochi giorni prima.

E ora la figlia di quei bam­bini non se ne faceva più niente. Li aveva fatti solo per compiacere la mam­ma. Parlò per due ore, io la ascoltai quasi senza una parola, se non per dire al­la fine: «Se ha bisogno di aiuto, io qui ci sono sempre».

I due se ne andarono, non ne seppi più niente per qualche mese. I due gemelli nacquero. La madre mi telefonò anni dopo, nel giorno del loro settimo compleanno, per dire: «Grazie, siamo felici».

Ambivalenza, un sì e un no insieme alla maternità. Perché?

Spesso dietro c’è una cattiva relazione con la madre – l’ombra della madre è presen­te dietro a moltissimi aborti. Ma direi che questa ambivalenza è in realtà insita nel­la stessa femminilità. Alla straordinaria capacità di dare vita della donna, che può volgersi in distruttività, se la sua ansia non viene contenuta.

In questo senso, io dico che cerco di essere un 'utero' accoglien­te per queste madri, perché lo diventino anche loro.

Perché, mi creda, si aiuta so­lo dentro una relazione.

Da bambina quando andavo a scuola a Milano, in piaz­za Baracca, passavano due tram. Uno an­dava dritto e uno doveva girare, e il tram­viere scendeva con una leva a azionare lo scambio a mano. È un’immagine che ho sempre in mente, quel 'clac' dello scam­bio che faceva andare il tram in un’altra direzione.

Un pezzo di binario di pochi centimetri cambiava tutto. È quell’istan­te, che cerco ogni volta con una donna. E che può accadere quando capisce se stes­sa e illumina le sue risorse, che spesso non conosce.

Succede che una donna rinunci all’aborto all’ultimo momento?

Succede. Mi è capitato di essere chiama­ta alle sei e trenta del mattino, l’ora in cui le pazienti in reparto vengono avviate in sala operatoria. Mi trovai davanti una ra­gazza che piangeva, piangeva e non riu­sciva a parlare: diceva solo «Non posso» e riprendeva a piangere.

Le altre già erano andate, e lei no. Alla fine una infermiera le disse su, andiamo, e lei andò. È una sce­na che non dimenticherò mai. È molto frequente che le donne in attesa dell’in­tervento piangano. Ed è un pianto che non trova ascolto, e questo è terribile. È terribile che non ci sia nessuno a ascol­tarle, a dire: aspetta, pensaci ancora.

Che cosa cambierebbe della 194?

Premesso che ritengo l’aborto un male che produce nella donna un male deva­stante – negli Usa questi danni (depres­sione, autolesionismo, rottura col part­ner) sono studiati e documentati –, io de­vo dire che ho letto esegeticamente il te­sto della legge, e trovo che il legislatore a­vesse l’intenzione di scoraggiare l’aborto aiutando la donna a rimuoverne le cau­se, e di consentirlo solo per gravi proble­mi fisici o psichici della madre.

La 194 però non è mai stata applicata nella sua inte­rezza, in quelle parti che potrebbero aiu­tare la donna e diminuire gli aborti. Mai applicata: nei consultori spesso il lavoro preventivo non si fa, e quindi non si ri­muovono le cause della scelta. Trovo i­noltre molto grave che si voglia introdur­re la Ru486, che da un lato banalizzereb­be l’aborto, e dall’altro lo riporterebbe in un ambito privato e nascosto
.
Secondo lei, che cosa si può fare concre­tamente oggi in Italia contro l’aborto?

Io credo che se i consultori lavorassero davvero, se i colloqui con le donne fossero fatti da operatori preparati, se alle don­ne indigenti venissero dati aiuti come fac­ciamo noi al Cav, metà dei 130mila abor­ti annui non ci sarebbero.

Si salverebbe­ro 60mila bambini. Il problema vero è il pregiudizio che accompagna un lavoro come il nostro, il fanatismo ideologico che da vent’anni ci osteggia accusandoci di terrorismo psicologico. Nel dicembre 2006 ci fu un presidio dei Radicali contro di noi in Mangiagalli, e tra i manifestanti ce n’e­ra uno che alzava un cartello: «Grazie Pao­la, per Omar». Era l’amico di una donna che aveva partorito con il nostro aiuto. Però, quel ragazzo era ancora lì a manife­stare contro di noi.

L’ideologia, il credere di sapere già tutto delle ragioni degli altri, è la bestia più grama che ci sia.

Ma, oltre alla attività nei consultori, io credo nel­l’educazione. Mostrare ai ragazzi le im­magini di un embrione che si sviluppa, e come già a poche settimane ha la forma di un uomo. Educare a riconoscere la realtà, contro la cecità della ideologia».


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