Il problema non è di stare su Internet, o di scrivere per i media tradizionali, ma è quello di avere qualcosa da dire all’uomo di oggi”. Quello di don Mangiarotti è solo uno dei tanti mezzi d’informazione che hanno accettato la sfida di un paradigma culturale profondamente cambiato.
Tratto da IL FOGLIO del 25 ottobre 2007
I cattolici e i media nella prospettiva delle battaglie culturali di Benedetto XVI
di Maurizio Crippa
E’ vero, la presenza del Papa nella stampa internazionale è diminuita rispetto a quella di Giovanni Paolo II, ma è anche giusto riconoscere lo sforzo comunicativo che Benedetto XVI sta compiendo ogni giorno, in un linguaggio chiaro anche se complesso”.
Così ha detto lo scorso martedì Diego Contreras, docente di Analisi e pratica dell’informazione alla Pontificia università della Santa Croce, nel corso di un convegno all’Università di Roma Tre dedicato al rapporto tra Papa Ratzinger e i mass media.
Il tema di “come comunica il Papa” e in parallelo, o a volte in subordine, di quanto e come riesca a comunicare la chiesa è decisamente una stella fissa in cima ai pensieri dell’intellighenzia cattolica e forse ancor più delle gerarchie, a giudicare dalla massa d’urto posta in essere in questo settore, in Italia e nel mondo: dalla stampa alle televisioni, dalle agenzie tradizionali (in Italia il Sir) a quelle indipendenti e online, che annoverano “success story” come il sito Zenit.org (“il mondo visto da Roma” è il suo claim) dai media tradizionali come le radio, a quelli nuovi (il settimanale diocesano di Taranto, Nuovo dialogo, ha appena inaugurato il primo esperimento di tv on demand via Internet mai tentato da un mezzo di informazione cattolico). La vitalità è indiscussa. Ma cosa accade invece nei contenuti, ovvero il nocciolo di una comunicazione che – come viene sempre sottolineato – deve essere concepita come rivolta al mondo laico, ad extra, prima ancora che ad intra?
Indirettamente, una decisiva risposta di Benedetto XVI è arrivata qualche giorno fa, con l’intervista a Joseph Ratzinger che apre il volume di scritti del cardinale e teologo tedesco Leo Scheffczyk “Il mondo della fede cattolica. Verità e forma” (Vita e Pensiero), anticipata dal Corriere della Sera. Ricordando gli anni agitati del post Concilio, Benedetto XVI dice in un passaggio: “Ci siamo resi conto del fatto che stavamo combattendo insieme per la vitalità della fede nella nostra epoca. Per la sua espressione e comprensibilità da parte degli uomini di questo tempo, nella fedeltà di fondo alla sua profonda identità”.
Rendere comprensibile la “profonda identità” della fede, è per Ratzinger la battaglia culturale da combattere. L’allora giovane teologo bavarese l’aveva già capito un quarantennio fa. La questione oggi è il tipo di “ricezione” – per usare un termine caro alla chiesa del Concilio – da parte del mondo dell’informazione cattolica delle ragioni insite in questo “combattimento” a viso aperto con il pensiero contemporaneo che tanto piace al Papa professore.
Che sia questo il punto cruciale, che ormai non può più essere tenuto sottotraccia ma va affrontato in tutte le sue implicazioni, lo colgono in molti, al di là del giudizio che se ne voglia dare. Lo ha colto con acutezza Alberto Melloni, storico della chiesa nonché editorialista sui temi religiosi per il Corriere, in un articolo di commento proprio di quelle parole di Ratzinger. Ma lo ha evocato, curiosamente citandolo quasi in modo letterale, anche Vincenzo Marras, direttore del mensile teologico della San Paolo, Jesus, nell’ultimo editoriale della rivista. Intervenendo a commento del recente congresso dell’Associazione teologica italiana, ha scritto: “Senza nascondersi nodi conflittuali come quello posto da libertà e identità, né l’urgenza di una ritematizzazione del concetto di natura e di legge naturale, intorno a cui si concentrano molti pronunciamenti magisteriali, i teologi italiani – sacerdoti, in gran parte, e laici, uomini e donne – intendono mettersi alla ricerca di grammatiche e sintassi che offrano alla chiesa e alle culture lo spazio critico dei pensieri e delle parole”. In questa ricerca di “grammatiche e sintassi” adeguate, lo scorso luglio Jesus aveva ospitato un’intervista con
Angelo Scola nella quale il patriarca di Venezia sosteneva l’opportunità di un “riavvicinamento” tra l’insegnamento della teologia e l’università statale in Italia: “Bisogna accettare la provocazione della realtà… c’è un ritorno massiccio del ‘religioso’, e non più solo sotto le mentite spoglie delle ‘scienze umane’”,
diceva. Credo che si debba accogliere positivamente questa provocazione e accettare la sfida culturale che l’oggi ci lancia: anche qui sta il senso e il fascino di una presenza cristiana in università”.
Teologia a parte, secondo Marras la questione del rapporto con la cultura laica è ancora segnata da una “afasia, che spesso abbiamo lamentato, degli intellettuali cattolici. Ma abbiamo capito che ciò dipende da noi, dalla nostra capacità o meno di ascolatere le voci profetiche che parlano nella chiesa”. Quanto alle modalità del confronto, Marras ritiene che si debba “entrare nella logica evangelica, del sale e del lievito, che non significa salare tutta la terra. O della Lettera a Diogneto, che raccomandava ai cristiani di essere in mezzo agli altri con simpatia”. Da parte dei credenti, ci vorrebbe una maggior conoscenza dei testi, delle scritture, insomma delle radici della propria fede: “Ci vuole consapevolezza della propria identità, ma l’identità è per sua natura dialogica. O, per citare una definizione di monsignor Ravasi: ‘Dialogo e non duello’”. E proprio il “modello Ravasi”, stretto collaboratore della San Paolo, fatto di capacità divulgativa ma anche di rigorosa aderenza all’identità della fede è, secondo Marras, l’esempio da seguire. Quanto ai laici, “occorrerebbe a volte un po’ più di serietà e attenzione. Ma il gran parlare di Dio segnala che c’è una domanda forte”.
Il tema delle domande che vengono dal mondo laico e a cui è necessario rispondere con chiarezza lo ha ben presente anche Roberto Righetto, responsabile dell’inserto culturale dell’Avvenire, Agorà, nonché coordinatore della rivista di “battaglia culturale” dell’Università Cattolica, Vita e Pensiero:
“Oggi i chierici d’Europa sono stanchi, tendono a praticare un diffuso conformismo, povero di progettualità, di idee e ideali. Pensiamo alla solitudine di Norberto Bobbio nell’Italia di oggi. Negli ultimi anni fece sentire la sua voce contro i fondamentalismi religiosi, ma anche contro il nichilismo, esprimendo anche forti dubbi sulla tecnoscienza. Oggi siamo passati da Bobbio ai Galimberti. C’è un livello davvero basso della provocazione, senza nessun contenuto vero e profondo”.
Ribaltamento rispetto al secolare stereotipo, è al mondo laico che spesso manca la forza di discutere con un pensiero forte: “E’ come se mancassero punti di riferimento anche laici che a loro modo non abbiano paura di cercare la verità”.
Dunque, quale deve essere il ruolo di una “combattiva” informazione cattolica? “Bisogna essere capaci di uscire da un complesso di inferiorità che per tanti anni ha colpito noi cristiani, per cui accadeva che difficilmente un autore cristiano aveva diritto di partecipare al forum, alla piazza del dibattito culturale. Accadeva in parte per l’arroganza di una certa cultura laicista, ma anche per una incapacità da parte nostra di essere consapevoli della forza e dell’originalità della propria cultura. Avere una determinata cultura non è affatto un handicap, non è affatto una condizione di inferiorità in partenza, anzi deve essere qualcosa che ci dà forza, tenendo presente poi la capacità di saper dialogare con tutti, anche con i più lontani”.
Forse ancor più nel mondo dell’informazione e dell’editoria che in quello dell’accademia, il paradigma del rapporto tra cattolici e laici sta cambiando profondamente, e proprio nel senso indicato da Righetto.
Identità e combattività, per citare Ratzinger, sono le nuove parole d’ordine.
Qualche settimana fa, una piccola polemica passata quasi inosservata ne ha offerto una preziosa chiave di lettura. Il settimanale Famiglia cristiana aveva commissionato un’indagine sulla presenza cattolica nel web, affidandosi alle competenze di Francesco Diani, compilatore da una decina d’anni di una lista di siti cattolici.
Secondo Diani, la presenza dei cattolici nella rete sarebbe non solo scarsa, ma pure di “basso profilo nei contenuti e nei temi affrontati”. In poche parole una presenza liquidabile come “devozionalismo sentimentale”, infarcito di “preghiere intercessorie che rasentano la magia e la superstizione” e dall’assillo di una “cattolicità integralista”. Diani s’è beccato però una risposta per le rime da parte di Culturacattolica. it, uno dei molti e dinamici siti indipendenti che fanno invece della battaglia culturale senza complessi d’inferiorità la propria ragione d’essere. Gabriele Mangiarotti, il sacerdote che dal 2001 anima Culturacattolica. it non ci sta proprio ad avallare un’immagine “integralista” e beghina:
“Il nostro punto di partenza è stato proprio una frase di Giovanni Paolo II: ‘Una fede che non diventi cultura, sarebbe una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta’. Sul nostro sito, ma ce ne sono un bel numero di altri, per non parlare dei blogger, viene affrontato qualsiasi argomento che pertenga all’uomo, alla sua verità. Ma non certo dal ‘punto di vista confessionale’, o solo per parlare ai cattolici. Ma per parlare a tutti gli uomini, facendo appello alla ragione. Per questo sito collaborano anche laici, ci hanno scritto in tremila per discutere di welfare, e nella battaglia sulla legge 40, totalizzammo 360 mila pagine lette. Il perché è semplice: il nostro è un sito libero, pronto a dialogare con tutti, ma senza perdere di vista l’essenziale, ovvero la ragion d’essere stessa di una testimonianza cristiana.
Il problema non è di stare su Internet, o di scrivere per i media tradizionali, ma è quello di avere qualcosa da dire all’uomo di oggi”. Quello di don Mangiarotti è solo uno dei tanti mezzi d’informazione che hanno accettato la sfida di un paradigma culturale profondamente cambiato.
Un altro dotato di grinta “apologetica”, è un piccolo mensile che si sta guadagnando molta attenzione anche nel dibattito laico, Il Timone. Giampaolo Barra, il direttore, sintetizza con lucidità il perché: “Perché utilizziamo argomenti di carattere razionale. La ragione cosa dice, ad esempio, dell’esistenza di Dio? Questa è la sfida-proposta che facciamo al pensiero laico. C’è l’ambizione, anzi la pretesa se si vuole, di dire chiaro che, contro ogni pensiero nichilista o debole la ragione dell’uomo è in grado di cogliere elementi di verità: su Dio, sulla natura dell’uomo.
Il nostro compito è di offrire queste ragioni a tutti. Il difficile è che oggi, spesso, è proprio la ragione laica ad aver paura di questo confronto. Ma questa, allo stesso tempo, è un’epoca estremamente favorevole per proporre la ragionevolezza della fede e per aprire un dialogo vero su questo con i laici”.
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