giovedì 3 gennaio 2008

MODELLO AFRICA BRUCIARE CRISTIANI IN CHIESA

Libero 2 gennaio 2008
di RENATO FARINA
In Africa. Quando è rivolta, dal sangue sparso si alzano subito le fiamme. I leader politici, anche pacifisti e democratici, soffiano sulle braci.

La comunità occidentale guarda inerte.

Uomini con le torce, travolti dalla sete di vendetta, bruciano i bambini, hanno un gusto particolare per questi esserini dai grandi occhi. È accaduto ieri in Kenya, a Eldoret, una città occidentale, nella zona della "Burnt Forest", il bosco bruciato, dove aveva la sua fattoria - ai piedi delle Ngong Hills - Karen Blixen. In una cappella cristiana ("l'Assemblea keniota della Chiesa di Dio") si erano rifugiate le donne con i figli.

I mariti e padri li avevano lasciati lì, vanno alla lotta o fuggono confidando di attirare sulle loro orme i nemici. Sperano che le chiese siano una protezione sufficiente. Non è stato così, non è mai così. Dalle vicine foreste sono arrivati uomini con le torce e i machete, hanno ucciso i pochi che facevano la guardia, hanno dato alle fiamme questa povera gente

. Hanno bruciato tra i 40 e i 50 cristiani. Cristiani come loro, neri come loro, ma di un'altra tribù. Abbiamo assistito a stermini di massa in Rwanda nel 1994, e il tabernacolo non ha protetto nessuno, l'Onu nemmeno, anzi persino i preti hanno partecipato alle stragi e i caschi blu le hanno fomentate. Ora il rischio è quello di una guerra civile totale in Kenya.

Un Paese di 36 milioni di abitanti. Non è la politica a dividere: i due leader che si fronteggiavano nelle elezioni e che si accusano di brogli hanno idee simili. Nel 2002 l'attuale presidente Mewai Kibaki (di etnia Kikuyu, gente piccola e geniale) era alleato del suo attuale avversario Raila Odinga (dei Luo, più forti economicamente): abbatterono insieme il dittatore Arap Moi (un Kalenjin, la popolazione dominante di Eldoret).

Poi Kibaki ha mandato al diavolo Odinga. E si sono presentati come nemici alle elezioni svoltesi il 27 dicembre. Odinga era arciconvinto di vincere: oltre ai Luo aveva dalla sua parte i Kamba e i Luhya. Kibaki a sua volta era alleato con i suoi vecchi acerrimi avversari: i Kalenjin di Arap Moi.

Le elezioni sono finite secondo i risultati ufficiali con una vittoria per 250mila voti di Kibaki. Odinga ha gridato al furto e rovesciato il tavolo. Ha dato il via alla rivolta. Chi ha ragione? In realtà Odinga poteva accontentarsi: nelle elezioni parlamentari svoltesi contemporaneamente aveva vinto lui. Ci stava l'accordo. Invece guerra. E a Eldoret - a quanto si può capire in questo momento - sono stati i Luo a far far fuori i Kalenjin e i Kikuyu.

In Italia sono arrivate notizie confuse sugli scontri post elettorali. Ci rendiamo conto: interessano poco i particolari.

E tra un attimo dimenticherete i nomi delle etnie e dei competitori. Resterà però in mente questa strage nella chiesa. Un paese passato dalla dittatura ad una democrazia che pareva avere basi solide e persino un'economia in possibile espansione è stato incendiato in un attimo. Non c'en tra la miseria paurosa delle baraccopoli alla periferia di Nairobi, ma quella ferocia razziale che attraversa questo continente da sempre, da molto prima della colonizzazione.

Non dobbiamo immaginare quelle terre come una riserva di selvaggi con la sveglia la collo. Al massimo l'anello al naso e il brillantino sulle cotiche abbronzate se lo piazzano gli occidentali che svernano da quelle parti spendendo un niente.

C'è un'università a Eldoret nient'affatto disprezzabile, con giovani risorse intellettuali promettenti. In Kenya c'è una presenza italiana, oltre che di missionari comboniani, di tecnici d'alto rango del volontariato (specie dell'Avsi) che hanno aperto scuole professionali di qualità, e seminano il bel vizio dell'artigianato e della piccola imprenditoria. Allora perché? Occorre investire risorse nell'educazione, non regalando denari per pagare i debiti. Questi fatti aiutano a capire come spesso la democrazia parlamentare pur benedetta non sia il contravveleno magico all'oppressione.

Vale di più un lavoro di costruzione dal basso, qualunque sia il regime, piuttosto che la competizione elettorale: in Kenya a tenere in mano la leva che apre le paratie della violenza per farla poi venir giù come un Vajont su gente inerme, sono i capi politici democratici...

Ora però - su pressione anche del nostro ministro D'Alema - pare che i due leader che si guardano in cagnesco stiano trovando una via per risolvere le loro questioni senza bruciare cristiani.

Ma in Africa ci vuol niente a propagare di nuovo il fuoco e il sangue. Non a caso la Farnesina ha invitato i nostri connazionali a non imbarcarsi su aerei verso quelle terre e quei mari. Inoltre ha chiesto ai tour operator di predisporre voli rapidi di rientro.

A qualcuno viene il dubbio che siamo noi italiani a portare un po' sfiga. Affolliamo le Maldive e la Thailandia, ed ecco lo tsunami. Ci dirigiamo in Kenia guidati dagli allegri cacicchi Bobo Craxi, Giovanna Melandri e Pietro Calabrese, e subito scoppia una guerra civile. Più che sloggiare i soldati italiani dall'Afghanistan, bisognerebbe far rientrare dagli atolli e dalle zone dove vige il cammello e la banana la nostra truppa in mutandoni .

Lo scontro fra le tribù locali pare abbia già fatto circa fra i 300 e i 500 morti. L'altra tribù che gremisce in questi giorni il Kenya ha fatto anch'essa molti botti, però sereni.

Trascriviamo dall'Ansa: «Altro che sparatorie: fuochi d'artificio, luminarie, grandi cenoni con aragoste, tutto pieno: così è stato il Capodanno a Malindi e dintorni, dove attualmente si contano tra i 2.500 ed i tremila turisti italiani». «Nessun problema, una bellissima festa continua, con tantissima gente», conferma telefonicamente all'Ansa il console italiano onorario Roberto Macrì. «Tutti i locali erano pieni, come le case private, le tante dei Vip sempre più numerosi, e quelle di gente normale qui in vacanza. Non sembrava di essere nel Kenya che vive il dramma di questi giorni; gli alberghi sono tutti gremiti, come sempre». Unico problema, segnala, la mancanza di carburante."RISCHIO GUERRA CIVILE

Ora il rischio è quello di una guerra civile totale in Kenya. Un paese passato dalla dittatura ad una democrazia che pareva avere basi solide e persino un'economia in possibile espansione è stato incendiato in un attimo.

Non c'entra la miseria paurosa delle baraccopoli alla periferia di Nairobi, ma quella ferocia razziale che attraversa questo continente da sempre, da molto prima della colonizzazione

LA DEMOCRAZIA NON BASTA Questi fatti aiutano a capire come spesso la democrazia parlamentare pur benedetta non sia il contravveleno magico all'oppressione. Vale di più un lavoro di costruzione dal basso, qualunque sia il regime, piuttosto che la competizione elettorale: in Kenya a tenere la leva che apre le paratie della violenza per farla poi venir giù come un Vajont su gente inerme, sono i capi politici democratici...
.RAPPRESAGLIE A COLPI DI MACHETE
Un ragazzo ferito riceve le prime cure nell'ospedale di Eldoret. Sotto l'edificio incendiato dove sono morte 50 persone. La diplomazia internazionale, Gran Bretagna e Usa in testa, ha chiesto ieri al presidente del Kenya, Mawai Kibaki, e al leader dell'opposizione, Raila Odinga, di fermare il sangue che scorre nel Paese dal 27 dicembreAP ANSA


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