Amato argomenta consenso e dissenso sulle idee della moratoria
di Giuliano Amato
E’ sbagliato leggere l’appello di Giuliano Ferrara per una moratoria sull’aborto con le lenti di una diffidente analisi concettuale e logica, in ragione della quale è assai facile negare qualunque possibile analogia con la moratoria sulla pena di morte. E’ vero, i due temi, ancorché legati dal rispetto per la vita, sono troppo diversi fra loro per poter essere ricongiunti in chiave, appunto, di moratoria. Ma come non cogliere in quell’appello la forza di motivazioni, di sentimenti, di repulsioni che non da oggi si agitano nelle nostre coscienze e ci sollecitano a metterci contro-corrente davanti all’indifferenza verso gli altri, alla libertà senza responsabilità, ai progetti di vita esauriti dall’autodifesa e dall’appagamento dell’io, di cui non da oggi cogliamo le nuove e più robuste radici nelle società avanzate del nostro tempo? E’ l’obiezione costante delle religioni a tali società e tutti ci ricordiamo quando il capitolo fu aperto da Papa Wojtyla, una volta che ebbe chiuso quello del comunismo. Per non riprendere una delle citazioni italiane più frequenti, quella di Pasolini quando constatò la scomparsa delle lucciole. Era la scomparsa dei valori tradizionali che avevano fatto da tessuto della nostra società sino alla sua industrializzazione e urbanizzazione. Al loro posto crescevano le libertà e i diritti degli individui, una pianta meravigliosa e ricca di frutti bellissimi, nella quale però si annidavano anche una serie di rischi, che ciascuno di noi, da solo, doveva contrastare nella propria coscienza. La società libera e non più illuminata dalle lucciole, infatti, non cancellava la differenza fra il bene e il male, fra il giusto e l’ingiusto, ma rimetteva e rimette la scelta all’esercizio responsabile delle libertà. Un esercizio tanto più incalzante, quanto più hanno preso piede forme sempre più polverizzate e individualizzate di vita, che hanno messo a dura prova le nostre coscienze, sempre più affidate soltanto a se stesse. Col passare del tempo, poi, altre sfide si sono aggiunte, in primis quelle derivanti dal progresso delle scienze e delle tecnologie, che alla nostra libertà hanno dato la dimensione del potere apparentemente senza confini. Ma è davvero così, le colonne d’Ercole sono davvero scomparse o è la nostra ubris, quando all’ubris cediamo, che ci impedisce di vederle? Io sono personalmente sensibilissimo a queste domande e chi vi legge soltanto il riflesso di un oscurantismo, nemico delle libertà, mi induce caso mai a sollevarle e ad agitarle una volta di più. Anni fa, fui tra i primi a sollevarle proprio davanti alla legge sull’interruzione della gravidanza, che per me rientra ed è sempre rientrata fra le scelte tragiche, le scelte cioè nelle quali anche la soluzione è un male. Da un lato c’era allora chi ne faceva invece l’espressione del diritto al corpo, dall’altro il ricorso inizialmente molto elevato al medico di famiglia (anziché al consultorio) per certificare la necessità dell’interruzione mi parve sintomatica di un pericoloso scivolo verso l’appiattimento e la relativa irrilevanza delle ragioni e dei modi per contrastarle. Ero anche influenzato da casi che avevo avuto modo di conoscere, nei quali le ragioni erano francamente futili. La mia visione dell’aborto non è mai cambiata. Ho sempre chiamato bambino, non feto, la creatura che cresce nel ventre materno. Ma non ho mai chiesto per questo che venisse affidata ad altri che non fosse la donna la scelta dell’interruzione. E non ho mai pensato che servisse cambiare la legge, giacché ciò che serviva era iniettare nella sua applicazione consapevolezza, responsabilità, disponibilità di supporti e di aiuti, in modo da ricondurla allo spirito con il quale la Corte costituzionale le aveva aperto la strada, quando aveva affermato non già un diritto, ma la liceità penale di una scelta tragica. Oggi, dati alla mano, non posso non constatare che la legge non ha aperto una voragine e che quindi tutto fanno le donne in Italia fuorché abortire a cuor leggero. E’ venuto diminuendo il numero totale, quello delle sole donne italiane è precipitato di ben il 60% rispetto al 1983, le certificazioni del medico di famiglia sono passate da oltre la metà a meno di un terzo (a beneficio dei consultori e dei servizi ostetrici), l’interruzione farmacologica, quella con la pillola del giorno dopo, copre neppure l’1% dei casi e non ha modificato il tasso calante delle interruzioni. Mi chiedo allora se il fronte scelto da Ferrara per far valere le sue sacrosante preoccupazioni sulla società in cui viviamo sia davvero quello giusto. E se il rispetto per la vita, l’amore per gli altri, il domani progettato non solo in funzione di sé non dovrebbero fungere da propellenti per altre missioni su altri fronti. Qui c’è il rapporto profondo e senza eguali fra la madre e la sua creatura a farsi sentire e a poter essere sollecitato quando non si fa sentire abbastanza. Ed è su di esso che si deve in primo luogo contare e far leva, non sul ritorno a divieti (che hanno invece senso per la pena di morte). Pensiamo alla stessa interruzione oltre la ventesima settimana: qualcuno vuole davvero andare oltre la legge vigente, secondo la quale quando c’è possibilità di vita autonoma, l’intervento è consentito solo se è in gioco la vita della madre e il medico deve fare il possibile per salvare il bambino? Altrove non c’è quel rapporto profondo, quell’amore viscerale che a volte è esso stesso la fonte della scelta di sottrarre la propria creatura a un dolore senza possibile fine. Altrove non c’è alcun amore, c’è solo dolore e ci sono vite, anche di bambini, condannate alla malattia o all’esclusione di cui nessuno o quasi nessuno si occupa. Se davvero pensiamo che serva – come fu scritto – che gli scandali avvengano, allora lo scandalo è qui ed è tanto più scandaloso perché non è solo il lontano Darfur che almeno è entrato nell’agenda dell’Onu e nei conti correnti di tante contribuzioni volontarie. E’ anche le periferie delle nostre città, è i campi dei rom, è le baracche sui nostri lungo fiume, è i figli degli immigrati a cui sono negate opportunità riconosciute agli altri… E’ bene amare gli embrioni come i bambini e io ne sono personalmente convinto. Ma non lo è di meno amare i bambini come gli embrioni. Ed occuparsene con lo stesso impegno.
Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2008
di Giuliano Amato
E’ sbagliato leggere l’appello di Giuliano Ferrara per una moratoria sull’aborto con le lenti di una diffidente analisi concettuale e logica, in ragione della quale è assai facile negare qualunque possibile analogia con la moratoria sulla pena di morte. E’ vero, i due temi, ancorché legati dal rispetto per la vita, sono troppo diversi fra loro per poter essere ricongiunti in chiave, appunto, di moratoria. Ma come non cogliere in quell’appello la forza di motivazioni, di sentimenti, di repulsioni che non da oggi si agitano nelle nostre coscienze e ci sollecitano a metterci contro-corrente davanti all’indifferenza verso gli altri, alla libertà senza responsabilità, ai progetti di vita esauriti dall’autodifesa e dall’appagamento dell’io, di cui non da oggi cogliamo le nuove e più robuste radici nelle società avanzate del nostro tempo? E’ l’obiezione costante delle religioni a tali società e tutti ci ricordiamo quando il capitolo fu aperto da Papa Wojtyla, una volta che ebbe chiuso quello del comunismo. Per non riprendere una delle citazioni italiane più frequenti, quella di Pasolini quando constatò la scomparsa delle lucciole. Era la scomparsa dei valori tradizionali che avevano fatto da tessuto della nostra società sino alla sua industrializzazione e urbanizzazione. Al loro posto crescevano le libertà e i diritti degli individui, una pianta meravigliosa e ricca di frutti bellissimi, nella quale però si annidavano anche una serie di rischi, che ciascuno di noi, da solo, doveva contrastare nella propria coscienza. La società libera e non più illuminata dalle lucciole, infatti, non cancellava la differenza fra il bene e il male, fra il giusto e l’ingiusto, ma rimetteva e rimette la scelta all’esercizio responsabile delle libertà. Un esercizio tanto più incalzante, quanto più hanno preso piede forme sempre più polverizzate e individualizzate di vita, che hanno messo a dura prova le nostre coscienze, sempre più affidate soltanto a se stesse. Col passare del tempo, poi, altre sfide si sono aggiunte, in primis quelle derivanti dal progresso delle scienze e delle tecnologie, che alla nostra libertà hanno dato la dimensione del potere apparentemente senza confini. Ma è davvero così, le colonne d’Ercole sono davvero scomparse o è la nostra ubris, quando all’ubris cediamo, che ci impedisce di vederle? Io sono personalmente sensibilissimo a queste domande e chi vi legge soltanto il riflesso di un oscurantismo, nemico delle libertà, mi induce caso mai a sollevarle e ad agitarle una volta di più. Anni fa, fui tra i primi a sollevarle proprio davanti alla legge sull’interruzione della gravidanza, che per me rientra ed è sempre rientrata fra le scelte tragiche, le scelte cioè nelle quali anche la soluzione è un male. Da un lato c’era allora chi ne faceva invece l’espressione del diritto al corpo, dall’altro il ricorso inizialmente molto elevato al medico di famiglia (anziché al consultorio) per certificare la necessità dell’interruzione mi parve sintomatica di un pericoloso scivolo verso l’appiattimento e la relativa irrilevanza delle ragioni e dei modi per contrastarle. Ero anche influenzato da casi che avevo avuto modo di conoscere, nei quali le ragioni erano francamente futili. La mia visione dell’aborto non è mai cambiata. Ho sempre chiamato bambino, non feto, la creatura che cresce nel ventre materno. Ma non ho mai chiesto per questo che venisse affidata ad altri che non fosse la donna la scelta dell’interruzione. E non ho mai pensato che servisse cambiare la legge, giacché ciò che serviva era iniettare nella sua applicazione consapevolezza, responsabilità, disponibilità di supporti e di aiuti, in modo da ricondurla allo spirito con il quale la Corte costituzionale le aveva aperto la strada, quando aveva affermato non già un diritto, ma la liceità penale di una scelta tragica. Oggi, dati alla mano, non posso non constatare che la legge non ha aperto una voragine e che quindi tutto fanno le donne in Italia fuorché abortire a cuor leggero. E’ venuto diminuendo il numero totale, quello delle sole donne italiane è precipitato di ben il 60% rispetto al 1983, le certificazioni del medico di famiglia sono passate da oltre la metà a meno di un terzo (a beneficio dei consultori e dei servizi ostetrici), l’interruzione farmacologica, quella con la pillola del giorno dopo, copre neppure l’1% dei casi e non ha modificato il tasso calante delle interruzioni. Mi chiedo allora se il fronte scelto da Ferrara per far valere le sue sacrosante preoccupazioni sulla società in cui viviamo sia davvero quello giusto. E se il rispetto per la vita, l’amore per gli altri, il domani progettato non solo in funzione di sé non dovrebbero fungere da propellenti per altre missioni su altri fronti. Qui c’è il rapporto profondo e senza eguali fra la madre e la sua creatura a farsi sentire e a poter essere sollecitato quando non si fa sentire abbastanza. Ed è su di esso che si deve in primo luogo contare e far leva, non sul ritorno a divieti (che hanno invece senso per la pena di morte). Pensiamo alla stessa interruzione oltre la ventesima settimana: qualcuno vuole davvero andare oltre la legge vigente, secondo la quale quando c’è possibilità di vita autonoma, l’intervento è consentito solo se è in gioco la vita della madre e il medico deve fare il possibile per salvare il bambino? Altrove non c’è quel rapporto profondo, quell’amore viscerale che a volte è esso stesso la fonte della scelta di sottrarre la propria creatura a un dolore senza possibile fine. Altrove non c’è alcun amore, c’è solo dolore e ci sono vite, anche di bambini, condannate alla malattia o all’esclusione di cui nessuno o quasi nessuno si occupa. Se davvero pensiamo che serva – come fu scritto – che gli scandali avvengano, allora lo scandalo è qui ed è tanto più scandaloso perché non è solo il lontano Darfur che almeno è entrato nell’agenda dell’Onu e nei conti correnti di tante contribuzioni volontarie. E’ anche le periferie delle nostre città, è i campi dei rom, è le baracche sui nostri lungo fiume, è i figli degli immigrati a cui sono negate opportunità riconosciute agli altri… E’ bene amare gli embrioni come i bambini e io ne sono personalmente convinto. Ma non lo è di meno amare i bambini come gli embrioni. Ed occuparsene con lo stesso impegno.
Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2008
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