mercoledì 9 gennaio 2008

DA REPUBBLICA LA CHIESA E GLI ATEI DEVOTI

Nel 1947 Jacques Maritain pronunciò un discorso all’UNESCO che rimase una pietra miliare nella riflessione politico-filosofica: di fronte ad un mondo che allora sembrava contrapporre tra loro due grandi blocchi e due visioni dell’uomo e del mondo, ci si chiedeva come poter propiziare – in vista della costruzione della pace – una collaborazione tra famiglie spirituali diverse, talvolta persino tra loro contraddittorie per posizioni teoretiche.

Maritain suggeriva allora di ricercare un accordo su alcuni principi pratici, su alcuni ‘valori’ condivisi a partire dai quali regolare l’azione della comunità degli uomini. Questi ‘principi pratici’ potevano venir accolti per ragioni diverse e fondati in maniera diversa dalle diverse famiglie spirituali: tuttavia l’importante, si disse allora, era che vi fosse l’accordo a livello pratico. Fu così, ad esempio, che ci si trovò tutti d’accordo nel riconoscere come principio pratico la dignità e l’inviolabilità della persona umana.


Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo di Gad Lerner (Non condivido per nulla la sua posizione)
voglio pubblicamente ringraziare tutti coloro che all'interno della chiesa ci stanno aiutando a liberarci da falsi moralismi e ci aiutano a comprendere quanto la fede sia ragionevole e conveniente per il nostro vivere quotidiano.
Dopo l'articolo della repubblica ho messo anche Pubblico e Privato. la rilevanza civile dell’appartenenza religiosa.
Trieste, 1-2 marzo 2005
Giovanni Grandi
vice-Direttore Centro Studi e Ricerche – Istituto Internazionale Jacques Maritain

Credo che valga la pena leggerlo.


di Gad Lerner

Come si innesca una mobilitazione della Chiesa nell'Italia del 2008? È evidente che siamo in presenza di un fatto nuovo, meritevole di una riflessione scevra da intenti polemici.

il direttore del "Foglio", Giuliano Ferrara, mutuando i codici di mobilitazione e il linguaggio radicale, promuove l'idea di una moratoria sull'aborto, finalizzandola a un raduno mondiale da tenersi a Roma la prossima primavera. La vastità inaspettata delle adesioni cattoliche alla proposta di Ferrara sollecita il cardinale Camillo Ruini a farla propria, integrandola di suo con l'invito a modificare la legge 194.

Più cauta, segue la benedizione del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. "Avvenire" sostiene appassionatamente l'iniziativa, "Famiglia cristiana" pubblica un editoriale di appoggio. Infine manifesta il suo consenso lo stesso Benedetto XVI, pur evitando l'ambiguo sillogismo tra la moratoria sulla pena di morte decisa dall'Onu e la moratoria sull'interruzione di gravidanza proposta dagli antiabortisti.



La dinamica dei fatti esclude che siamo in presenza di una campagna congegnata e pianificata d'intesa con i vertici della Chiesa.

Segnala piuttosto un salto di qualità nel rapporto da essa instaurato con il settore dell'intellighenzia che sbrigativamente ci siamo abituati a definire "atei devoti".

All'attacco è partito Ferrara, gli altri hanno deciso di seguirlo attribuendogli semmai una funzione provvidenziale: la scissione del fronte laico. L'incrinatura di quello che nella loro semplificazione figura come il "pensiero unico" progressista, imbevuto di permissivismo e subalterno al dominio di una tecnoscienza amorale.



Non importa qui tanto chiedersi se l'inedita sollecitazione da cui ha preso le mosse la campagna antiabortista riveli una forza o una debolezza della Chiesa italiana, anche se a me pare evidente la risposta.

Limitiamoci a constatare: la gerarchia cattolica attribuisce una funzione cruciale, strategica, a personalità non credenti che propugnano i valori normativi della dottrina religiosa su un piano di mera convenienza razionale.

Agli "atei devoti" la Chiesa non propone un cammino di conversione. Chiede loro di testimoniare che è possibile uniformarsi alle regole di convivenza da essa prescritte anche senza bisogno di credere.

L'entusiasmo, la gratitudine, l'ammirazione manifestati a Ferrara nelle centinaia di lettere che il "Foglio" sta pubblicando, evidenziano un sentimento di riscossa.

Quasi che lo schieramento antiabortista di una frazione di non credenti restituisse a quei cattolici la perduta legittimità mondana. Questa è la sorpresa, questo è il miracolo che attendevano. Nell'accezione di Ruini, un personaggio come Ferrara non va atteso come il figliol prodigo ma semmai riconosciuto quale moderno profeta mediatico.


A questo punto la Chiesa sembra poco interessata al dialogo tra sensibilità diverse.

Le quali si fronteggiano sperando, invano, di smascherare l'altrui incoerenza. Quanta compassione dedichiamo ai condannati a morte? Quanta alle vittime civili delle guerre? E alle vittime del terrorismo? E ai morti di Aids o di denutrizio? È sufficiente il nostro scandalo per le morti sul lavoro? O ancora, come obietta Giuliano Amato: gli antiabortisti potranno amare davvero gli embrioni quanto i bambini, restando però distratti nei confronti dei bambini emarginati?


Temo sia proprio sulla fatica della coerenza che non riusciremo a comprenderci. Ne difettiamo tutti, in gradi diversi. Capita che gli uni ne siano tormentati, nella personale responsabilità. Mentre altri denunciano proprio questa umana debolezza come morbo curabile solo da una terapia normativa a carattere religioso.



Cosi la relazione fra il dire e il fare passa in second'ordine, col declino della coerenza. La svaluta pure questa Chiesa ridotta a minoranza che, per recuperare centralità nella decisione pubblica, gradisce il soccorso degli "atei devoti" e la disponibilità intermittente di politici pronti a figurare clericali senza neanche bisogno d'essere cristiani.

Che importa se agiscono per vocazione o per convenienza? E con il loro sostegno che la Chiesa s'illude di rifondare l'identità nazionale e occidentale perduta.


Sarkozy proclama in Laterano le radici cristiane della Francia prima d'involarsi a Luxor con Carla Bruni? Questa è la modernità del potere. Per lui è pronto un seggio nel pantheon dei santiprotettori, e pazienza se oltralpe gli aborti non calano a differenza che in Italia.



Non c'è bisogno di giungere all'estremo di Gianni Baget Bozzo, che attribuisce a Berlusconi la funzione di uomo della Provvidenza, salvatore della tradizione cattolica nazionale minacciata dal dossettismo e dal prodismo.

Basta ricordare l'assenza del minimo imbarazzo - nei vertici Cei - quando l'opposizione parlamentare alla legge sui Dico fu guidata da politici divorziati e conviventi, scatenati contro una larga parte del cattolicesimo democratico.

Essenziale, nell'impostazione di Ruini, è che le battaglie politico-culturali della Chiesa italiana figurino sempre promosse d'intesa con la nuova frazione laica, dunque motivate sul piano della razionalità anziché sul piano dottrinale. Ecco perché è meglio se gli "atei devoti" non si convertono.

Il tempo in cui il cristianesimo andava testimoniato innanzitutto nella condotta di vita è sopravanzato dall'imperativo della nuova alleanza mondana.


Nessuno scandalo, dunque, se è "Il Foglio" a lanciare l'offensiva, rivolgen­do a chi dissente l'accusa terribile di acquiescenza con "un fenomeno mostruoso per quantità genocida".

L'analogia suggestiva ma fuorviante tra la moratoria sulla pena di morte (che implica un divieto legale ai boia di Stato) e il dramma dell'aborto (che invece richiama scelte individuali sempre ardue fra male minore e male maggiore) ha già prodotto un effetto nefasto.

Le donne ne vengono retrocesse, esautorate da primo soggetto titolare di una responsabilità che in ogni caso ricade su di loro. Rischia di venirne travolta la stessa riflessione già da tempo in corso fra i medici e le associazioni di sostegno alla maternità: un confronto pacato, esente da demonizzazioni reciproche, da cui sono scaturiti protocolli ospedalieri condivisi che tutelano il feto con possibilità di vita autonoma.



A dare retta alla fotografia di un'Italia dedita alla pratica disinvolta dell'aborto, protesa nella ricerca del superuomo e nella soppressione dei deboli, parrebbe che l'esercizio di una rigorosa verifica etica sui poteri della tecnoscienza e sui limiti da imporle, sia istanza esclusiva degli antiabortisti. Ma per fortuna ciò è falso.




Rattrista la visione fosca di una società deragliata nella ricerca del piacere sessuale e nell'appagamento dell'io: da contrastare con il senso del peccato e con il codice della famiglia tradizionale.

Ma colpisce soprattutto una Chiesa italiana talmente debole nella sua ispirazione evangelica da mettersi al traino di un pensiero settario, rinunciando al dialogo fiducioso con l'insieme del mondo laico.

Tutto si tiene: il richiamo alla tradizione; la critica dell'esperienza post-conciliare; la reazione al terrorismo di matrice islamica; la crisi delle vocazioni e della pratica religiosa; il miraggio di una nuova leashy;dership cristiana.

Una discussione libera sulle nuove frontiere della vita, e sulla necessità di riformare insieme i codici della ricerca medico-scientifica, non trae alcun giovamento dalla moratoria sull'aborto. Dubito, peraltro, che la Chiesa stessa si vivifichi nell'investitura di eminenze laiche.



Pubblico e Privato. la rilevanza civile dell’appartenenza religiosa.
Trieste, 1-2 marzo 2005
Giovanni Grandi
vice-Direttore Centro Studi e Ricerche – Istituto Internazionale Jacques Maritain
g.grandi@maritain.org
Oggi noi assistiamo a due tensioni piuttosto evidenti nella società occidentale europea: la prima è una rinnovata attenzione al sacro e più in generale al mondo delle fedi. Si registra facilmente un diffuso ed unanime rispetto ed ammirazione per persone ed esperienze di inten-sa religiosità (pensiamo al Papa, a don Giussani), e più in generale sembra essere tramontato il clima dell’Ottocento e di buona parte del Novecento che spingeva a guardare le fedi come un residuo di superstizione, destinato ad essere ben presto cancellato dal progresso e da una ragione compiutamente secolarizzata.

La seconda tensione – che si condensa in qualche modo sul dibattito sulla laicità delle istituzioni e della vita civile – è di segno opposto, e si esprime con una marcata diffidenza verso il medesimo mondo delle fedi nel suo intervenire nelle dinamiche pubbliche: ecco le re-sistenze al riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, ecco il ‘caso Buttiglione’, ecco in questi e nei prossimi mesi in Italia il dibattito sui referendum sulla procreazione assistita, che sembrano già profilarsi come un confronto culturale, ben al di là del merito scientifico ed etico specifico del problema.

Queste due tensioni possono convivere nella medesima coscienza a partire dall’assunto che la fede e l’appartenenza religiosa sono qualcosa di rispettabile, persino di af-fascinante e di ammirabile finché rimangono nell’ambito del privato, finché non portano con sé conseguenze nella visione dell’ambito pubblico, finché non danno origine a pretese circa che cosa sia il bene della comunità degli uomini.


Il breve percorso che vorrei proporre si muove a partire da questi orizzonti e cercherà di portare l’attenzione più che sui problemi specifici, sulle categorie interpretative di cui ci serviamo per affrontare il problema di quale possa o debba essere il rapporto tra la dimensio-ne civile e pubblica e la dimensione di fede e privata.

Cercherò di mostrare – naturalmente a prezzo di notevoli semplificazioni – che alla base di questa discontinuità tra il valore che per lo più la coscienza occidentale assegna alle fedi nell’ambito privato e quello che assegna loro nell’ambito pubblico vi è una certa visione antropologica, una visione che forse va messa in discussione per chiedersi se vi sia lo spazio per valutazioni diverse e per soluzioni diverse ri-spetto ai problemi che innegabilmente si accompagnano alla intersezione delle appartenenze religiose con l’appartenenza ad una comunità civile.

Per sbozzare la materia soffermiamoci su alcune coppie di concetti di uso comune, che vale la pena allineare per far emergere il quadro interpretativo in cui solitamente si sviluppa il dibattito.

1
Quando parliamo di ‘rilevanza civile dell’appartenenza religiosa’ evochiamo anzitutto due fuochi da mettere in rapporto tra loro: Stato laico (cioè dimensione civile) e religioni (dimensione di fede): sulla stessa linea troviamo la coppia cittadino/credente; ora, se da una parte tutti i credenti sono anche cittadini, cioè se tutti coloro che appartengono ad una tradi-zione di fede appartengono anche ad una comunità civile, non è tuttavia vero il contrario: non tutti coloro che appartengono ad una comunità civile si riconoscono in una prospettiva di fe-de. Tutti siamo allora cittadini, e l’ulteriore riferimento che vediamo emergere è la coppia non-credenti/credenti. Ciò che ci accomuna è l’essere cittadini, ciò che ci differenzia è l’essere o meno credenti: la città è abitata da uomini, alcuni professano una fede, altri – i non-credenti – no. Fino a questo punto le coppie di concetti che abbiamo introdotto non creano problemi e consentono effettivamente di leggere la realtà dell’umano per quello che è.

Tuttavia nella coscienza occidentale la memoria illuminista induce ad un passo inter-pretativo che altera nei loro valori oggettivi queste chiavi di lettura: se nella città non vi sono solo uomini che si legano a diverse tradizioni religiose, ma anche uomini che non si legano ad alcuna religione, allora dobbiamo anche dire che il fatto di credere e di aderire ad una pratica religiosa non solo è un fatto privato, ma è ben di più un fatto accessorio per l’uomo, è qualco-sa che si può aggiungere o non aggiungere alla vita dell’uomo senza che nulla di sostanziale cambi. Lo slittamento è appena percettibile, ma in realtà è di enorme portata antropologica.

È come se stessimo dicendo che il ‘modello base’ di umanità, quello in cui tutti possiamo rico-noscerci è la figura del non-credente, che diventa naturalmente la figura dell’uomo che ragio-na e tocca con mano. A questo ‘modello base’ poi possiamo aggiungere ciò che più preferia-mo, questa o quella pratica religiosa.

Secondo questa angolatura il non-credente e il credente non sono più due figure, due prospettive esistenziali di eguale portata, due volti speculari del cittadino e forse persino due profili di ogni cittadino: il non-credente, l’uomo che fonda la sua vita sulla ragione e che si affida a ciò che la ragione scientifica può conoscere e dimostrare, diventa il ‘modello base’; il ‘credente’, l’uomo che fa spazio nella sua vita all’indimostrabile, è uno che ha aggiunto alla propria vita una coloritura particolare, un modo bizzarro di esprimersi o di impiegare il pro-prio tempo libero. Ne discende che, se non-credenti e credenti vogliono riunirsi nella città per darsi regole e finalità comuni, il linguaggio ed i riferimenti comuni dovranno essere quelli del ‘modello base’, cioè quelli del non-credente: ecco appunto che la fede diventa qualcosa di ac-cessorio nella vita dell’uomo in quanto cittadino, ecco che l’appartenenza religiosa è ridotta ad un fatto privato, un fatto di rilievo estetico; ed ecco di conseguenza che le proposte che si radicano in una appartenenza religiosa sono necessariamente rivendicazioni di parte.Dobbiamo riconoscere che questo modello interpretativo è molto diffuso; in fondo è questo modello che ha fatto da sfondo al dibattito sul ‘caso Buttiglione’: può un credente, in quanto uomo di parte, promuovere il bene e garantire la tutela dei diritti di tutti?La sua ade-sione ad una confessione di fede non lo spingerà all’intolleranza verso chi è diverso da lui?
Per uscire da queste secche dobbiamo ritornare proprio al luogo in cui avviene lo slit-tamento di lettura dell’appartenenza religiosa, al passaggio dal semplice privato all’accessorio. Questa trasposizione è debitrice della mentalità illuminista e delle sue diverse concretizzazioni ottocentesche e novecentesche, che in maniera indubbiamente varia leggeva-no la dimensione religiosa come una dimensione non necessaria per l’uomo, anzi destinata ad2
essere sempre più riconosciuta come una dimensione illusoria, prossima a scomparire con l’avanzare del progresso scientifico.

La coppia concettuale che ci rivela questo pregiudizio antropologico illuminista è proprio quella che distingue il credente e il non-credente: è questa infatti la griglia interpretativa che spinge ad escludere dall’ambito civile e pubblico il dato dell’appartenenza religiosa, in quanto dato non solo privato ma accessorio, non universale.

Proviamo a modificare allora questa coppia di concetti, dicendo che accanto al creden-te in senso classico (colui che si riconosce in una delle grandi confessioni religiose) non c’è il non-credente, ma il diversamente-credente. Ecco che si apre una Weltanschauung completa-mente diversa, in cui non esiste più un ‘modello base’ di umanità, in cui tutti debbono ricono-scersi – salvo poi differenziarsi per preferenze di carattere estetico, che riguardano esclusiva-mente la vita privata.

Rinunciando ad utilizzare la coppia credente/non-credente come chiave di lettura, cambia il quadro antropologico: il credere non si aggiunge al ragionare dell’uomo, alla sua capacità dimostrativa, alle evidenze scientifiche. Piuttosto il credere è parte integrante dell’esperienza umana: allora la differenza non è più tra il credere e il non-credere; la diffe-renza risiede piuttosto in ciò in cui crediamo. C’è chi crede che la realtà sia ricapitolata in Cristo e sia abitata da uomini, angeli, beati e via dicendo e c’è chi crede che la realtà si esauri-sca in ciò che vediamo e tocchiamo; c’è chi crede ad un disegno della Provvidenza che guida la storia, chi invece si appella al destino, al caso, alle coincidenze; c’è chi crede che lo scopo dell’esistenza sia accumulare ricchezza e chi crede che lo scopo sia crescere in santità nell’espansione delle ricchezze interiori della persona e via dicendo.
Se cambia il quadro antropologico, cambia anche il riconoscimento del rilievo dell’appartenenza religiosa: in questa seconda prospettiva interpretativa le religioni diventano non più un fatto di rilievo estetico, ma un fatto di rilievo ontologico: non sono più espressione di sfumature accessorie nella vita della persona, ma espressione della più complessiva e rile-vante Weltanschauung di una persona.


Ci troviamo indubbiamente di fronte a due paradigmi, a due modelli interpretativi molto diversi; proviamo allora a vedere cosa implicano l’uno e l’altro, anzitutto dal punto di vista dello stato laico, specie nel caso in cui voglia essere autenticamente pluralista.
Vediamo cioè qual è nell’uno e nell’altro caso il rilievo che viene riconosciuto all’appartenenza religio-sa.
Secondo il modello che assegna al credere un rilievo estetico nella vita della persona, il rapporto con le religioni si riduce alla negoziazione degli spazi di tutela di questa o quella forma di culto, alla regolamentazione delle manifestazioni del proprio credo. La religione è considerata come espressione di una lobby, portatrice di rivendicazioni di parte: in questo sen-so ciò che viene da una religione di per sé non può avere i caratteri dell’universalità, ma solo quelli della parzialità. Ciò che viene da una religione può trovare (entro precisi limiti) tolle-ranza, accoglienza, tutela ma non cittadinanza.
Questa prospettiva è particolarmente evidente in Francia, in coerente continuità con la tradizione illuminista; sembra poi che sia questa la prospettiva che ha prevalso nella stesura della Carta costituzionale europea.

Secondo il modello che assegna al credere un rilievo ontologico nella vita della perso-na, il rapporto con le religioni si fa più articolato; lo stato laico continua a rapportarsi alle religioni in quanto forme di aggregazione con particolari esigenze di culto e via dicendo. Ma riconosce allo stesso tempo che le religioni esprimono una visione del mondo, un’ontologia – pur non riducendosi a sola ontologia. Lo stato laico è cioè interessato a tutte le ontologie, a tutte le Weltanschauungen, sia a quelle che vengono dai credenti ‘tradizionali’ (quelle che possiamo quindi ricondurre alle religioni confessionali), sia a quelle che vengono dai ‘diver-samente credenti’. Lo stato laico e pluralista fa necessariamente attenzione a questo versante, perché le ontologie custodiscono i fondamenti dell’idea di persona, di società, di bene comu-ne, ecc.,

tutte idee e concezioni rilevanti proprio nell’azione temporale dello stato laico, idee rilevanti nelle azioni che interessano l’ambito pubblico.
Ora noi possiamo chiederci quale dei due modelli interpretativi sia quello migliore, ovvero quello più adeguato alla realtà, quello vero, diremmo more scholastico.
Ho buone ra-gioni per credere che una indagine fenomenologica ci mostrerebbe chiaramente che il secondo modello riflette più profondamente la verità delle cose.

Ma possiamo anche percorrere un’altra strada, e chiederci quale sia il più efficace tra i due modelli, quale ci offra soluzioni più interessanti per impostare diversamente il rapporto tra lo stato laico e pluralista (cioè la dimensione civile) e le religioni (o l’appartenenza religiosa).


Proviamo a battere questa pista; per farlo occorre porre di fronte a noi un problema concreto, acuto ai nostri giorni ed in una certa misura nuovo rispetto al passato.


Nel 1947 Jacques Maritain pronunciò un discorso all’UNESCO che rimase una pietra miliare nella riflessione politico-filosofica1: di fronte ad un mondo che allora sembrava con-trapporre tra loro due grandi blocchi e due visioni dell’uomo e del mondo, ci si chiedeva co-me poter propiziare – in vista della costruzione della pace – una collaborazione tra famiglie spirituali diverse, talvolta persino tra loro contraddittorie per posizioni teoretiche. Maritain suggeriva allora di ricercare un accordo su alcuni principi pratici, su alcuni ‘valori’ condivisi a partire dai quali regolare l’azione della comunità degli uomini. Questi ‘principi pratici’ po-tevano venir accolti per ragioni diverse e fondati in maniera diversa dalle diverse famiglie spi-rituali: tuttavia l’importante, si disse allora, era che vi fosse l’accordo a livello pratico2. Fu co-sì, ad esempio, che ci si trovò tutti d’accordo nel riconoscere come principio pratico la dignità e l’inviolabilità della persona umana.

A distanza di più di cinquant’anni ci stiamo ponendo drasticamente un interrogativo che forse i padri della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo non avrebbero immaginato: chi è persona umana? Chi è titolare di questa dignità e di questa inviolabilità? L’embrione è persona umana? Lo è il malato terminale?

Ci troviamo improvvisamente – ma neppure troppo improvvisamente – di fronte ad una insufficienza del principio pratico, una insufficienza che noi possiamo affrontare secondo due direzioni diverse.

1)Possiamo immaginare di affrontare il problema secondo la logica delle rivendicazioni di parte: democraticamente contiamo i voti, lasciamo che le varie lobbies ingaggino una aspra lotta; risolveremo l’insufficienza del principio pratico con una verifica dei rapporti di forza.

2)Oppure possiamo immaginare di affrontare il problema secondo la logica dell’approfondi-mento dei fondamenti del principio pratico, cioè secondo la linea di una sua fondazione più condivisa dal punto di vista teoretico: ci chiederemo allora non che cosa le varie parti voglio-no che sia la persona, ma cosa la persona sia in sé veramente.

Di fronte a problemi come questo, che evidentemente interessano in maniera acuta la società ed il bene comune, quale ruolo possono avere le religioni?

È ormai chiaro che le religioni possono disporsi secondo due prospettive: una è quella del conflitto delle rivendicazioni, l’altra è quella della cooperazione nella fondazione plurali-sta dei valori pratici.

Se a livello civile le religioni vengono riconosciute solo come un fatto di rilievo estetico inevitabilmente rimarranno imprigionate nella logica del conflitto delle ri-vendicazioni. Se al contrario riconosce che le religioni sono anche – non solo, ma anche – un fatto di rilievo ontologico, allora potrà beneficiare del loro contributo in una prospettiva ed in un lavoro di fondazione dei principi pratici.

È innegabile che, anche solo ponendosi nella prospettiva del maggior beneficio, la di-mensione civile ha tutto l’interesse a disinnescare il conflitto delle rivendicazioni tra le reli-gioni; ha tutto l’interesse a renderle parte attiva nella fondazione dei principi pratici.

Non dobbiamo però naturalmente ritenere che ciò rimuova tutti i conflitti: i principi teoretici sono talvolta ben più inconciliabili tra loro di quelli pratici, perché non fanno riferimento prima-riamente al bene ed all’azione, ma al vero ed alla intelligenza della realtà: accostarsi alla veri-tà è un cammino molto difficile. Ma se conflitto deve esserci – e non può non esserci perché è la condizione di un guadagno pluralista della verità – è bene portarlo su un piano da cui può sgorgare una conoscenza più approfondita della realtà, piuttosto che limitarlo ad un piano sul quale il medesimo conflitto non fa che generare frammentazione, isolamento e cattive rela-zioni tra gli uomini.

Dovremo allora chiederci come coinvolgere le appartenenze religiose nella fondazione dei principi pratici.

Credo che qui occorra fare tesoro di un’altra magistrale indicazione di Jacques Maritain:

occorre che le religioni vengano coinvolte in questo processo non in quanto religioni, ma in quanto prospettive di rilievo ontologico.

È necessario che ogni religione fac-cia il possibile per esplicitare a se stessa anzitutto quale sia la propria visione del mondo e dell’uomo, quale sia la propria lettura della libertà umana, del problema del male, del valore della società e via dicendo: le religioni concorrono alla fondazione dei principi pratici non per
il loro valore di fedi ma per i loro riflessi ontologici, che chiaramente si radicano in una fede ma non la esauriscono. In questo senso – ecco la lezione di Maritain –

le religioni concorrono non istituzionalmente, ma attraverso gli uomini e le donne che in esse vivono e si inseriscono: il cristiano concorre da cristiano, il musulmano da musulmano, l’ebreo da ebreo, il diversa-mente-credente da diversamente-credente, ciascuno con la propria prospettiva ontologica, con la propria Weltanschauung4. Se così non fosse gli ‘esclusi’ sarebbero proprio i diversamente-credenti, cioè coloro che non si riuniscono in una forma di culto o in una ritualità liturgica.

Ciò significa anche che il rapporto tra stato laico e pluralista e religioni non può essere impostato prevalentemente (e tanto meno esclusivamente) come un rapporto tra istituzioni ci-vili ed istituzioni ecclesiastiche: ciò significherebbe ancora una volta ritornare al principio delle lobbies e del conflitto delle rivendicazioni, dove i più strutturati prevalgono; ciò vale in particolare per la chiesa cattolica, che per sua struttura ha maggiore facilità rispetto ai fratelli ortodossi ed evangelici, ma anche rispetto alle altre grandi famiglie spirituali, ad esprimersi con un volto istituzionale unitario.

La prospettiva più autentica è invece quella per cui il citta-dino non mette tra parentesi né abdica al suo credo, ma ne trae le conseguenze in uno sforzo di attenta inculturazione.

Alle soglie del XXI secolo il rapporto tra la dimensione civile pubblica e l’appartenenza religiosa che ha origine nell’ambito del privato va allora forse riformulato se-condo due attenzioni fondamentali:
la prima è l’inclusione del portato delle identità religiose nelle dinamiche civili e pubbliche attraverso la voce dei credenti più che delle istituzioni (ri-conoscimento delle religioni come fatto di rilievo ontologico e non solo estetico),

la seconda è l’evoluzione dei dibattiti non più nel segno delle prove di forza e dello scontro tra rivendica-zioni di parte, ma piuttosto nel segno di uno sforzo più acuto di fondazione di quei valori pra-tici che tutti riconosciamo, ma a cui ci accorgiamo di dare oggi fondazione ed interpretazioni diverse e alle volte altamente conflittuali.

Su questi due versanti si aprono una serie di interrogativi, che valgono qui come sti-molo per il dibattito: da una parte dobbiamo chiederci se la coscienza occidentale sia in grado di uscire definitivamente dalle strettoie della mentalità illuminista, riformulando non solo il rapporto tra pubblico e privato ma anche quello tra pensare e credere nel segno dell’integrità della persona, abbandonando una visione quasi dissociata dell’essere umano.

Dall’altra però dobbiamo anche chiederci e chiedere alle religioni ed ai credenti se, nell’inserzione nell’ambito civile, sono per così dire in grado o pronti a sedersi ai ‘tavoli dell’ontologia’, se cioè si dispongono a compiere quello sforzo di focalizzazione laica di quei principi di riferimento che ciascun uomo (e ciascuna fede) – implicitamente o esplicitamente – porta con sé: l’idea di uomo, l’idea di mondo, l’idea di libertà, l’idea di male, l’idea di so-cietà.Su questi fronti è probabile che saremo tutti chiamati ad uno sforzo più attento di ap-profondimento e di discussione.

Si tratta della celebre distinzione tra l’agire in quanto cristiani e l’agire da cristiani, impostata da Maritain già in Umanesimo Integrale nel 1936 – il volume è tra l’altro nato da un ciclo di lezioni tenute in Spagna nel 1934 e redatte originalmente proprio in spagnolo – . In Italia la distinzione è stata divulgata da un celebre intervento di Giuseppe Lazzati intitolato Azione Cattolica e Azione Politica apparso in “Cronache Sociali” nel 1948.

Nessun commento: