giovedì 4 dicembre 2008

FERRARA DIRITTI UNIVERSALI MA NON PER TUTTI

....io penso che la Chiesa è sì grande perché ha forza di popolo, si poggia sull’intuito di fede della folla dei fedeli, ma è grande anche per questa reductio ad unum che è il Papa......

....Tutto questo la dichiarazione universale non lo affronta. Poi c’è la cosa che richiamava lei: oggi il diritto individuale come diritto universale si scontra con l’ideologia dei diritti umani, che è cosa diversa dalla teoria dei diritti umani. In Tom Payne e nella Costituzione americana i diritti sono fondati su una base creaturale, discendono dal modo in cui il Creatore ha fatto l’uomo. Oggi i diritti della differenza, cioè i diritti gay, i diritti di genere, l’affirmative action, sono fuori da quell’orizzonte e in parte lo contraddicono. Sono ideologia, sono falsa coscienza dei diritti umani......

Giuliano Ferrara e una Dichiarazione che spiega tutto degli uomini tranne che si tratta di persone
Tempi 01 Dicembre 2008

di Rodolfo Casadei



Sulle tematiche evocate dal 60esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, che si celebra il 10 dicembre prossimo, abbiamo dialogato col direttore del Foglio Giuliano Ferrara.

Direttore, in questo 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani si resta colpiti dall’anacronismo del testo, tutto centrato sui diritti dell’individuo, mentre oggi si mette l’accento sui diritti delle categorie: le donne, i diversi, le comunità variamente intese. Allora non c’è un po’ di ipocrisia nelle attuali celebrazioni?

Ha ragione, ma gli anacronismi sono almeno due. Il primo riguarda il diritto alla vita, citato all’articolo 3 come diritto basilare. Però della vita non viene data una definizione. La dichiarazione è stata stesa cinque anni prima della scoperta del Dna e quindi non tiene conto delle conseguenze di questa scoperta per quanto riguarda la formazione e l’inizio della vita. Così come non tiene conto del fatto che la vita oggi può essere procreata in provetta, può essere fabbricata con modalità inedite. Anche per quanto riguarda la fase finale della vita, la “vita morente”, i mezzi attuali di sostegno e di cura e le conseguenze deontologiche per i medici non erano conosciuti. Né la discussione sulla morte cerebrale, base della pratica degli espianti. La dichiarazione è vecchia, non protegge la vita dalla formidabile capacità manipolatoria che si è poi affermata e che implica, sul suo versante negativo, la selezione eugenetica, sessista e razzista. Tutto questo la dichiarazione universale non lo affronta. Poi c’è la cosa che richiamava lei: oggi il diritto individuale come diritto universale si scontra con l’ideologia dei diritti umani, che è cosa diversa dalla teoria dei diritti umani. In Tom Payne e nella Costituzione americana i diritti sono fondati su una base creaturale, discendono dal modo in cui il Creatore ha fatto l’uomo. Oggi i diritti della differenza, cioè i diritti gay, i diritti di genere, l’affirmative action, sono fuori da quell’orizzonte e in parte lo contraddicono. Sono ideologia, sono falsa coscienza dei diritti umani. Certo, non esistono solo i diritti naturali, che siano di ragione o creaturali. Esistono anche diritti che si definiscono all’interno della storia della civilizzazione, e alcuni dei diritti che si rivendicano come diritti delle minoranze a me vanno anche bene, sono un progresso. L’importante è che questa nuova teoria dei diritti non tenda ad avvilire, a scompaginare i diritti naturali e l’antropologia su cui sono fondati. I diritti dei gay vanno bene se non diventano un attacco al matrimonio, il diritto per uomini e donne di condurre una vita libera va bene, ma non deve diventare uno scardinamento ideologico della nozione di famiglia.

Il linguaggio della dichiarazione universale in materia di diritto alla vita è anacronistico, ma anche i gruppi odierni di militanza per i diritti umani hanno una visione parziale di quel che è richiesto per la protezione della vita: chiedono l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, ma non si pronunciano sull’aborto o sull’eutanasia.

Questa è l’ideologia di cui dicevo. Per celebrare seriamente il 60° anniversario della dichiarazione universale bisognerebbe avviare un serio lavoro di riflessione sulla definizione della vita, che oggi è astratta e prescinde dai concreti dati scientifici che nel frattempo sono stati acquisiti. Invece ci si concentra in modo ideologico sull’abolizione della pena di morte. L’abolizionismo è una posizione pienamente legittima, alla quale entro certi limiti anch’io aderisco. Però nel momento in cui ci si oppone alla pena di morte nei termini di una moratoria universale, se a questo non aggiungi una moratoria sull’aborto – che non significa reprimere penalmente l’aborto, ma vietare l’aborto di Stato selettivo, razzista e sessista, e promuovere politiche pubbliche costruite sulla necessità di scongiurare l’aborto – la tua posizione è di pura propaganda politica.

Il Pontificio consiglio per la giustizia e la pace vaticano scrive che la Dichiarazione è «un momento di fondamentale importanza nella maturazione, da parte dell’umanità, di una coscienza morale consona alla dignità della persona». Non è un po’ strano questo entusiasmo da parte della Chiesa, stante che il documento ignora i doveri dell’uomo e i diritti di Dio, e che l’articolo 18, quello sulla libertà religiosa, resta inapplicato soprattutto a danno dei cristiani?

Il Vaticano ha una sua logica diplomatica per quanto riguarda i rapporti con l’Onu. Negli interventi di certi suoi organi il contenuto di valore è subordinato alla disciplina diplomatica. Però il Papa nel suo incontro con gli ambasciatori nel gennaio scorso ha detto chiaramente che è ora di aprire una discussione sulla vita e sul suo valore proprio perché è stata approvata la moratoria sulla pena di morte, e ricordo molti interventi di vescovi su questa linea. Anche per quanto riguarda la libertà di religione, la Chiesa è sempre divisa fra lo spirito missionario a partire dal quale difende i cristiani d’Asia e d’Africa e contemporaneamente la necessità della Santa Sede di mantenere rapporti con i governi dei paesi in cui essi si trovano.

Nella sua lettera a Marcello Pera, pubblicata nell’introduzione del libro Perché dobbiamo dirci cristiani, Benedetto XVI scrive che non può esserci un liberalismo «senza radicamento nell’immagine cristiana di Dio», perché altrimenti il liberalismo si suicida. è giusto dire questo anche per quel che riguarda i diritti umani?

Indubbiamente. Pensiamo a John Locke. Era antipapista perché difendeva il pluralismo religioso come garanzia di pluralismo politico ed equilibrio fra i poteri dello Stato, ma nessun grande liberale, proprio a partire da John Locke, ha mai pensato che si potesse costruire un sistema di legittimazione anche solo giuridica – per non parlare di quella morale – del potere, dell’autorità, senza un riferimento chiaro e preciso a Dio o alla legge di natura o alla legge di ragione, che sono Logos e quindi sono Dio. L’oggetto proprio del libro di Pera è perfetto da questo punto di vista, le sue idee sono ampiamente condivisibili e sono state sempre predicate da quelli come noi che pensano non sia possibile fondare i diritti su altre basi che non siano quelle di un asse di trasmissione ereditario dei diritti. Questo asse poi può essere concepito direttamente come religione rivelata – i diritti esistono perché sono iscritti nelle Tavole insieme ai comandamenti e ai precetti, o in virtù del Genesi, cioè del fatto che gli uomini sono tutti discendenti di Adamo – oppure lo puoi interpretare in una forma più mediata dalla cultura e dalla storia della civiltà. Ma c’è sempre un elemento che dipende se non da una posizione esplicitamente teista, almeno da una posizione culturalmente cristiana: è Gesù Cristo che come fatto storico ha incarnato non solo l’umanità di un Messia nel nome del Padre, ma ha incarnato anche una lectio umana che ha avuto la forza e il vigore, dal discorso della Montagna ad oggi, che tutti sappiamo. Fuori da questo doppio orizzonte – Dio e suo Figlio incarnato in terra – mi sembra molto difficile fondare diritti. Ci hanno provato molti, ci hanno provato i positivisti giuridici, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani in fondo è un tentativo in quella direzione, ma in tutto questo c’è l’imperfezione o comunque un debito non riconosciuto. Cioè tu scrivi un buon testo di diritti, ma è implicita la Grundnorm, la norma fondamentale che non ricavi da altre norme, ma dall’asse ereditario di cui dicevamo: ti viene dalla rivelazione o da una cultura, da un’antropologia.

John Locke era antipapista, invece Giuliano Ferrara si dichiara «papista non cattolico». Cosa significa?

Ho ripreso una battuta di Oscar Wilde, uomo di paradossi dandisticamente innamorato di quello che significava la bellezza, la potenza, la centralità della Chiesa di Roma. Io non sono un dandy ma ho usato quella battuta per contrappormi alle dottrine che oggi in un certo ambito cattolico parlano di «ipertrofia papale» o di «papolatria». Io non sono d’accordo, io penso che la Chiesa è sì grande perché ha forza di popolo, si poggia sull’intuito di fede della folla dei fedeli, ma è grande anche per questa reductio ad unum che è il Papa.


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