Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
martedì 23 ottobre 2007
UNO SGUARDO AL CANTICO DEI CANTICI
Questo articolo è uscito su "Linea diretta", anno IX, n. 28, marzo-giugno 2005, pp. 46-62. Benché la rivista, ottimamente curata da Giuseppe Brugnoli, Andrea De Togni e l'amico Alcide Marchioro, esca in 30.000 copie, essa è riservata agli azionisti di Cattolica Assicurazione: è accaduto spesso che diverse persone, specie dopo una conferenza o un incontro, mi abbiamo chiesto copie di questo saggio, e che io non sia stato in grado di procurne alcuna, nonostante la disponibilità della Redazione di "Linea Diretta". Non credo, dunque, a 2 anni dall'uscita, di mancare nei loro confronti se metto a disposizione su internet un testo al quale, del resto, sto ancora lavorando e sul quale lavorerò ancora a lungo.
Nelle immagini: in alto, Marc e Bella con la figlia Ida nel 1917; Marc e Valentina (Vava) nel 1957; dall'alto, in ordine, le cinque tele del Cantico dei cantici.
Uno sguardo al Cantico dei Cantici
di Marc Chagall
di Lorenzo Gobbi (da "Linea diretta", anno IX, n. 28, marzo-giugno 2005, pp. 46-62)
Nel Musée du Message Biblique Marc Chagall di Nizza, una sala raccolta e appartata accoglie le cinque tele del Cantico dei Cantici, opera della maturità dell’artista: visitarla è una delle più intense emozioni che si possano provare. Una formella in ceramica, sullo stipite della porta d’ingresso, mostra la dedica autografa “A Vava, mia moglie / mia gioia e mia allegria”.
Con il passare dei decenni (il pittore è morto in Francia nel 1985, all’età di 98 anni), l’opera di Chagall sa rivelarsi sempre più come un unicum nella cultura occidentale: i suoi violinisti sul tetto o a testa in giù, gli acrobati volanti, i galli arrotolati su se stessi, gli asinelli blu e gialli, i suonatori di shofar (il corno di montone che trova impiego da millenni nella liturgia ebraica) sospesi all’orlo della tela o nascosti tra le fronde di alberi piantati nel cielo, gli ebrei in fuga con la Torah tra le mani, il crocifisso vestito del solo tallet (lo scialle di preghiera ebraico), le candele di festa e di lutto – i colori vivissimi e puri e le immagini di Chagall si vanno facendo strada a poco a poco nel nostro immaginario, assai più della celeberrima Danza di Matisse e con maggiore discrezione rispetto a Guernica di Picasso: ciò che penetra in noi non è una singola immagine, ma un modo peculiare di esistere, un lessico del pensiero prima che dell’immaginazione. Di lui, possiamo leggere anche uno splendido racconto autobiografico illustrato con disegni, La mia vita (traduzione di Massimo Mauri, SE, Milano 1998), che costituisce la migliore introduzione all’opera: vi è rievocato innanzitutto il piccolo borgo di Vitebsk, in Bielorussia, dove il pittore nacque da famiglia ebrea di modeste condizioni, nel 1887. Chagall, nota con sorpresa Viktor Misiano, “è pittore della memoria già a 20 anni”: egli raffigurò fin da giovanissimo il piccolo quartiere ebraico, i suoi arredi, le usanze, i volti – un mondo fragile e minacciato, destinato a divenire presto un mondo perduto, nel quale il giovane Marc scoprì la propria particolarissima vocazione di artista figurativo e compì gli studi iniziali. Recatosi poi a Pietroburgo, riuscì a trascorrere quattro anni in Francia (dal 1910 al 1914), dove conobbe Apollinaire, Cendras, Picasso e altri protagonisti della scena artistico-letteraria ed espose con un certo successo sia a Parigi che a Berlino. Le opere di questo primo periodo francese sono tutte intrise di Vitebsk e dello Shabbat tra le povere case, all’ombra della grande cattedrale cristiana ortodossa; Chagall si avvicina al linguaggio cubista, che utilizza per rappresentare un universo fiabesco, sospeso tra la realtà e il folklore, irrazionale ma vivissimo e caldo di emotività. Nel 1914, tornò in Russia, dove ritrovò Bella Rosenfeld, che aveva conosciuto prima della partenza per Parigi: i due si sposarono nel 1915, ed ebbero presto una figlia, Ida. Chagall rimase in Russia per qualche anno, insegnando e vivendo con passione l’epoca della Rivoluzione (fu Commissario del popolo e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Vitebsk); qui realizzò opere importanti, tra cui le scenografie del Teatro Ebraico di Mosca, ma nel 1921 tornò a Parigi – stanco dell’atmosfera oppressiva che era scaturita dagli eventi e delle continue discussioni sul ruolo dell’arte nella Rivoluzione. I suoi quadri iniziano a popolarsi di fiori, scene naturali e paesaggi mediterranei che vengono a fondersi con il ricordo di Vitebsk, mentre i colori si fanno intensi e compaiono la giovane sposa vestita di bianco (che ha ovunque il viso di Bella), il gallo rosso e gli esseri alati che fanno musica, salendo e scendendo nel cielo: diverranno elementi stabili nella sua pittura. Ottenuta la cittadinanza francese per sé e per la propria famiglia, viaggia in Israele, Italia, Olanda, Inghilterra, Spagna e Polonia, sempre con l’amatissima Bella e con Ida: una famiglia inseparabile. Bella gli fa da interprete e traduttrice (Chagall si ostina a pensare, parlare e scrivere in yiddish, la lingua degli ebrei dell’Est); lo scambio affettivo e intellettuale tra i due è intensissimo. Gli eventi drammatici di quegli anni colpiscono duramente Marc, Bella e la piccola Ida, che nel 1935 assistono addirittura a un pogrom, in Polonia, riuscendo fortunosamente a tornare in Francia; già nel 1933, per ordine di Goebbels, erano state date alle fiamme tutte le opere di Chagall rimaste in Germania. I tre riparano negli Stati Uniti, grazie all’aiuto di un’organizzazione ebraica; qui Chagall espone e lavora con successo.
Nel 1944, Bella è uccisa da un male incurabile – improvviso e inesorabile, privo di pietà. Di lei, esce nel 1945 Lumières allumées, un volume di ricordi, con le illustrazioni di Chagall, caduto nel frattempo in un grave stato di prostrazione e incapace di dipingere per quasi un anno. Nel 1949, il pittore torna in Francia, e acquista una casa a Vence, in Provenza; inizia a lavorare su ceramica, mentre si diffondono presso il grande pubblico alcuni tra i suoi lavori più belli, come le illustrazioni per le Favole di Lafontaine e per le Anime morte di Gogol. Nei quadri della metà degli anni ‘30 (come nella Crocifissione bianca, del 1938, uno dei suoi capolavori) e del periodo americano, si riflettono tutte le angosce dell’epoca – in allegorie, colori intensi, pennellate libere che creano atmosfere di fronte alle quali nessuno può restare indifferente. Al rientro in Francia, tanta cupezza si va a poco a poco dissipando: tornano gli acrobati, i giocolieri, le figure alate, i musicisti sospesi.
L’incontro con Vava (Valentina Brodskij), nel 1951, e il matrimonio con lei seguirono di poco il ritorno in Francia. Vava era una donna colta, raffinata, intelligente ed elegante: seppe comprendere a fondo che tra l’uomo e l’artista non vi era nessuna frattura, e donò a entrambi, con la propria delicatissima sapienza, una nuova stagione della vita. Chagall iniziò proprio allora a essere percepito come un classico della nostra epoca – e lo fu realmente negli anni che seguirono, nei quali andò sviluppando un’attività prodigiosa: decorò, tra l’altro, il soffitto dell’Opèra, e compose il ciclo di tele grandi, monumentali, dedicato al messaggio biblico – le stesse che si trovano a Nizza, nell’edificio appositamente costruito: il Musée du Message Biblique Marc Chagall. Già negli anni ’30, egli aveva iniziato sullo stesso tema un ciclo imponente di acqueforti: vi lavorò fino agli anni ’50, quando mise mano alle nuove tele. Chagall riteneva che la Bibbia potesse essere, per qualsiasi persona, fonte di bellezza e di valori autentici, indipendentemente dalla fede personale di ciascuno (egli stesso, ebreo fervente ma non dogmatico, fu intimo amico di Jacques e Raissa Maritain, cristiani ferventi fino alla mistica) – perché contiene le indicazioni necessarie a mantenere limpido lo sguardo, e a maturare con il mondo un rapporto veritiero, e dunque libero e sereno. Tra queste tele, troviamo le cinque tratte dal Cantico dei cantici, nella sala dedicata con tanta forza e chiarezza “A Vava, mia moglie / mia gioia e mia allegria. // Marc Chagall”.
La dedica, autografa e firmata, con i tre possessivi di prima persona, sembra segnalare una specie di anomalia: come se Chagall (e Vava con lui), che non aveva voluto intitolare il museo alla propria persona ma al Messaggio biblico, avesse voluto indicare la peculiarità del ciclo del Cantico; anche la posizione rispetto alle altre tele conferma l’impressione che in esso sia esposto un nucleo intimo, meritevole di particolare raccoglimento. Non si tratta, infatti di una semplice illustrazione del contenuto del Cantico, il poemetto d’amore della Scrittura che sia la tradizione ebraica sia la riflessione cristiana hanno sempre interpretato in senso allegorico, come raffigurazione del rapporto tra Dio e Israele (così, ad esempio, Rashi di Troyes, uno dei più illustri commentatori) o tra Dio e la Chiesa (Origene, Ambrogio, Agostino) o addirittura tra Dio e l’anima del singolo credente (Bernardo di Clairvaux, i cui Sermones super Cantica sono un capolavoro della teologia mistica medievale). Ciò che Chagall propone è una lettura personalissima e insieme un esercizio di sguardo tutto ebraico, radicato nella cultura ebraica dell’Europa dell’Est da cui il pittore proveniva e la cui sostanza portava con sé.
La lettura ebraica delle Scritture ha il suo vertice nel midrash – che è lettura-ricerca, amorosa e coinvolgente. E’ lettura aperta, che non sa quel che cerca e accarezza il testo fino a udirne la voce; è lettura che implica la relazione tra l’uomo che legge e il libro che viene letto, ma anche tra Dio e il mondo e tra entrambi e l’uomo stesso. Il midrash accoglie una pluralità di sensi senza pregiudizio per la verità, perché ciò che si cerca è una verità relazionale; è corale, e tutta la tradizione vi è presente – ma è anche personalissimo, impossibile senza il coinvolgimento immediato di colui che legge. E’ ben più che un’esegesi, perché il punto di arrivo non è una nuova comprensione del testo, bensì una novità nella vita concreta di chi si pone in dialogo con il testo. Quello di Chagall sul Cantico dei Cantici è un vero midrash – realizzato con i colori anziché con le parole.
I
Nella prima tela, abbiamo di fronte un dialogo gioioso tra le varie dimensioni della realtà: un mondo animato di presenze molteplici. Tutto sembra dipartirsi dalla coppia in basso a destra[1]: la diagonale centrale unisce due emisferi della realtà, che non sono in reciproca opposizione ma che si richiamano e si riprendono a vicenda. Come è detto nel Cantico dei cantici, la testa della sposa è sul petto dello sposo, e la destra di lui l’abbraccia; a sinistra, verso l’alto, c’è un’altra coppia nello stesso atteggiamento – un re coronato, certamente Davide, assieme a Betsabea, la donna per la quale arse di passione fino a violare ogni legge umana e divina. A destra, in basso, abbiamo un libro aperto: è il Cantico stesso; a sinistra, in alto, troviamo il trono di Gerusalemme e i simboli dell’Alleanza. A destra, in basso, vediamo una colomba, legata a Noè e al patto tra Dio e l’umanità (Dio promise che mai più dopo il diluvio, qualunque cosa fosse accaduta, avrebbe annientato la sacralità della vita terrestre, con il suo brulicare di coppie feconde). La colomba annunciò il ritiro delle acque, e con esso la possibilità di una rinascita della vita stessa; già nel racconto della creazione, Dio distinse una prima volta l’asciutto dal bagnato e assegnò la terra emersa alle creature terrestri perché vivessero e si moltiplicassero. In alto, a sinistra, vediamo una mano, assieme alla luna e alla stella di Davide. La mano dal cielo ci riporta alla creazione e anche all’azione di donare l’Alleanza da parte di Dio; la luna governa le maree e con esse il ritiro della acque, regola il ciclo femminile ed è legata al tempo, perché il calendario ebraico è lunare, ed è la luna che segna i momenti della vita dell’intero Israele; la stella di Davide, unita a tutto questo, sembra dirci che siamo di fronte a una concezione dell’amore tipicamente ebraica, legata al Patto, che fa parte dell’alleanza tra Dio e Israele (e tra Dio e tutta l’umanità e gli esseri viventi in generale): l’amore è realtà creaturale.
La diagonale principale, inoltre, divide il mondo in due, ma con corrispondenze forti: a sinistra, la città (Gerusalemme) diventa luogo di ricerca, di desiderio e di schermaglia amorosa (come è nel Cantico); a destra, invece, si apre una porzione di universo animata e assai suggestiva, come uno specchio appagato e armonioso dell’altra.
II
La seconda tela sembra raffigurare un sogno: una dormiente sta distesa nella chioma di un albero coricato, sopra una città addormentata, da cui una mano si protende alla luna, mentre un re-poeta si libra nell’aria; c’è un volto maschile nella chioma dell’albero reclinato, assieme alla testa di un asinello; una donna è accostata al tronco, alla base dello stesso albero, mentre un gregge pascola, e le case sono come un altro gregge nella lontananza. Eppure, non si tratta di un sogno: è la rappresentazione spaziale di una peculiare concezione del tempo, tutta ebraica, e della vita di Chagall stesso.
Nel museo di Nizza è presente un altro albero coricato: si trova nel mosaico posto all’esterno e visibile da una vetrata, nella sala accanto a quella del Cantico. Il mosaico rappresenta lo zodiaco, con al centro il profeta Elia; in corrispondenza della Bilancia c’è un albero coricato. Bella morì sotto quel segno; Chagall la chiamava “il mio albero della vita”. Nella II tela del Cantico, il viso della dormiente è esattamente il viso di Bella: la dormiente è Bella nella morte in cui si trova ora, quando Marc dipinge. La sala del Cantico è dedicata a Valentina (Vava) Brodskij, nuova moglie di Chagall: tutto ciò che egli ha posto in questa sala riguarda direttamente le due donne della sua vita - la delicatezza del loro rapporto, la loro rispettiva e assoluta unicità in due diverse stagioni dell’esistenza, la loro inspiegabile compresenza, ciascuna nella propria verità.
L’albero della vita è stato divelto: esso permane nel tempo a venire, così coricato; e contiene Bella abbandonata, dormiente. Bella ha lo stesso colore dell’albero, che è a sua volta lo stesso del mondo di cui l’albero occupa tanta parte. E’ librata sulla città, sospesa, chiusa in se stessa, inaccessibile, alta su Gerusalemme, sulla luna, su una mano che dalla città addormentata si protende alla luna stessa, al cielo, a Dio e a lei: è parte di un universo etereo, raccolto come in un grembo di luce chiara e soffusa, il cui confine è segnato da una linea curva e luminosa (è un mondo sempre rosso, ma misto al bianco); la città e il mondo che sta sotto di lei, invece, sono aperti e disposti orizzontalmente. L’albero, che attraversa i due mondi e ne assume entrambi i colori ha le radici nel mondo più rosso, quello in basso: dove pascolano le pecore, la città vive e la mano si protende nel cielo - per desiderio o in preghiera o, perché no?, per entrambi.
A sinistra, in basso, un’altra donna sembra uscire dallo stesso albero: è Valentina, possiamo affermarlo senza ombra di dubbio (anche alla luce della tela che segue, e delle fotografie che la ritraggono). Anche lei guarda verso lo spettatore, ma con gli occhi aperti. Non che lei sia piccola, mentre Bella è grande: ciascuna è del colore e della dimensione della parte del mondo in cui vive. Bella è più grande, ma è più bianca: il ricordo, si sa, dilata, ma toglie anche consistenza. Valentina è rossa come il suo mondo, ed è in proporzione con gli elementi che lo compongono: città, case, pecore. Bella è nuda, abbandonata nel sonno e vive nella chioma coricata del tronco; Valentina è in piedi, vestita, gli occhi aperti, appoggiata al tronco. La presenza del gregge sembra legata a lei: nel Cantico (I, 7), l’amata è una pastorella.
Il tempo può morire; il tempo può nascere. Non ha cicli, ma stagioni: è fatto di unicità diverse, irripetibili, mai in competizione tra loro né tali da annullarsi a vicenda; possono parlarsi, invece, e aiutarsi reciprocamente, custodirsi e benedirsi l’un l’altra. Non devono confondersi, perché sono unicità, non iterazioni. Nella stagione di Bella – chiusa in sé, ravvolta in un grembo ovattato, aerea - c’è Vitebsk: è l’asinello in alto a destra, che così spesso rappresenta la cittadina natale nei quadri di Chagall, e ne è l’emblema. C’è Chagall stesso: un volto giovane accanto a Bella, che di lei e del suo mondo ha lo stesso colore (ed è indubbiamente il volto di Chagall, che si autoritrae tornando ai propri lineamenti di allora). Quando muore una moglie amata dall’adolescenza, porta con sé la nostra giovinezza, assieme agli anni e ai luoghi – solo accanto a lei li potremmo ritrovare, nel suo mondo. Nella stagione di Valentina c’è la città, rossa e intensa; c’è il gregge che pascola, e con il gregge le mille cure quotidiane di chi veglia; c’è la mano che sale verso il cielo - invocazione e speranza.
Nel cielo di Bella c’è anche il re-poeta, con due ali: una verde (nella cultura yiddish, il verde è il colore dell’emozione, e si dice “sono verde” per “sono emozionato”), e l’altra bianca. Bianche sono tutte le spose delle tele del ciclo, bianco è il trono, bianca sarà la coppia della tela seguente: il bianco, dunque, sembra essere il colore della nuzialità – o meglio, di ciò che è originario, creato da Dio che lo vide buono e lo benedisse per farne una parte imprescindibile della vita umana. Il trono di Israele è bianco per questo: è nel Patto - siamo in ambito ebraico.
Unico è il colore, diverse sono le tonalità; diverse sono le dimensioni delle figure, perché diversa ne è la consistenza; ognuna delle due donne abita a modo proprio nella vita di Chagall. Bella ha gli occhi chiusi, Valentina li ha aperti; Bella è inconsapevole, passiva, mentre Valentina veglia e agisce. Nessuno può arrivare a Bella senza attraversare Valentina; nessuno può toccare il tronco che Valentina custodisce nelle sue radici, difendendolo da chiunque; è grazie a lei che Bella permane così eterea, nel suo mondo chiuso come un grembo. Il tempo è uno, e la sua essenza è il rosso dell’amore e del sangue, cioè il colore di ciò che è creato, pur nelle sue diverse gradazioni; molteplici le unicità; delicatissimo il loro rapporto.
Posso aggiungere, a titolo personale: nulla finisce, tutto si compie. Nulla resta, tutto vive la propria stagione e compiendola affianca, sostiene, nutre e benedice le nuove stagioni. La consapevolezza di questa creaturalità “stagionale” ìnsita nel tempo esige una fedeltà profonda - del resto, fedeltà (‘emunà) è la parola ebraica per dire “religione”.
Le figure in alto a sinistra, forse, ci dicono che non siamo soli: il mondo è popolato anche di figure che non vediamo né conosciamo – anzi, che non immaginiamo. Non è obbligatorio dire esattamente chi siano. Sta scritto che “non è bene che l’uomo sia solo”, e non sappiamo fino a che punto l’Eterno si sia spinto nel darci compagnia.
Giustamente, una mano si protende alla luna. La luna, s’è detto, è legata al ciclo femminile, alle maree, alla vita (ritiro delle acque), al tempo (calendario lunare). Forse, l’aspetto prevalente è quello del rapporto tra la femminilità, con i suoi cicli di fecondità, e il mistero delle stagioni in cui il tempo articola se stesso. L’alone della luna è rosso, ma più vivo nel grembo etereo che custodisce la dormiente; e la luna ha, nel rosso vivo del mondo di sotto, il colore chiaro di quello stesso grembo. E’ la luna, non la dormiente, il centro di irradiazione del quadro, la cui struttura è simile a quella del precedente, solo un po’ più articolata. Lungo una serie di diagonali, a partire dalla luna, troviamo il viso di Bella, l’asinello di Vitebsk, il viso del pittore, il re-poeta Davide, il trono di Gerusalemme, e poi Gerusalemme e Valentina sulla stessa linea orizzontale. La direzione dell’albero coricato è contraria a tutte le altre: l’albero della vita ha incontrato la morte; la vita, cioè, ha invertito la propria direzione; il ricordo e il mondo ricordato si dipartono all’indietro dal presente. Fondamento del presente, che rende possibile anche l’esistenza del ricordo nelle sue caratteristiche, è Valentina.
Resta l’albero in alto a destra: vuole richiamarci il carattere onirico del quadro? Non credo, perché qui di onirico non c’è nulla: la realtà viene rappresentata con un’evidenza e una precisione impressionanti. Fa pensare piuttosto alla libertà del reale: se un albero volesse stare a testa in giù con le radici nel cielo e l’Eterno acconsentisse, non dovremmo né stupirci né sentirci offesi. Ci sarebbe da riflettere anche sulla figura del re-poeta e sulla sua arpa: qual è il luogo dell’arte, quali le sue ragioni e caratteristiche. Davide sembra planare cantando e suonando sul trono bianco di Gerusalemme; bianche sono le sue ali, una delle quali è colorata di verde; sembra aver sorvolato le regioni del ricordo con un movimento circolare che possiamo immaginare a partire dalla mano protesa, a destra della città – o, più verosimilmente, lungo il confine tra i due mondi a partire da Valentina. Tale confine, infatti, parte dai piedi di Valentina, segue la curva del suo corpo che è anche quella del tronco dell’albero, e prosegue lungo una curvatura che è il corpo di Valentina a imprimere, come un colpo di frusta, e si esaurisce aprendosi nel cielo in cui si libra il re-musico-poeta.
III
Ed ecco, nella III tela, il matrimonio tra Chagall e Bella: i volti degli sposi non lasciano dubbi. Lei è una cometa bianca, lui un’edera attorno a lei che gli si appoggia (così anche nella IV tela). Il baldacchino nuziale è retto da figure celesti. Un angelo emozionato (il viso è verde) regge un candelabro. Cielo e terra costituiscono un solo paesaggio, popolato tanto di presenze umane quanto di presenze angeliche: le nozze avvicinano e uniscono non solo i due sposi, ma l’universo intero, in tutte le sue dimensioni – non è bene cercare interpretazioni troppo rigide. L’angelo a destra suona lo shofar: è Kippur – il mondo appena creato incontra già un “perdono”, è già oggetto di una chesed (tenerezza, amore gratuito), e il tempo è appena iniziato. Vitebsk e Gerusalemme si specchiano una nell’altra, ma un viandante emozionato (verde in viso), piccolissimo nelle dimensioni, quasi invisibile nel mondo rovesciato, si allontana da Vitebsk: è Chagall, còlto profeticamente nella vedovanza che avrebbe dovuto vivere? (Al matrimonio, dunque, c’era sì lo sposo, ma anche il vedovo era presente). A destra in basso ritroviamo l’asinello che accompagna il viandante, trasformato in re-poeta, emozionato anch’esso e traboccante di canto (ha il viso giallo come l’arpa di Davide nella tela precedente).
In alto a sinistra c’è Chagall stesso che guarda e dipinge: questo ciclo, dunque, è frutto del guardare, non del sognare. Chagall ritrae dal vivo, come en plein air, una realtà presente e visibile: il ricordo del proprio matrimonio con Bella. A sinistra, in basso, c’è una donna seminascosta tra le fronde, concentrata in sé, come in attesa; al suo viso, esattamente, si dirige lo sguardo del pittore. Il viso è identico a quello della donna in basso a destra nella II tela: è Valentina.
La coppia in basso a sinistra è bianca nella propria intimità. E’ la realtà originaria, sacra già in se stessa: l’attrazione sessuale, il legame intimo tra uomo e donna, diverso da ogni altro. Il matrimonio lo dichiara, lo rende manifesto – ma la sacralità è già presente, e viene dall’inizio del mondo: dalla creazione. Lasciarsi sedurre, lasciarsi attrarre, stipulare questo legame, vivere la forza misteriosa che unisce un uomo alla sua donna e a nessun’altra, è un atto dovuto di fedeltà creaturale.
IV
E’ chiarissima, la IV tela: ecco gli sposi, e un cavallo che li porta gentilmente nel cielo offrendo fiori; la città che fa festa, con la moltitudine dei suoi abitanti. C’è un gallo appallottolato ad arco sulla propria schiena, a sinistra. Nella cultura yiddish, come in tante altre, il gallo annuncia il sorgere del sole, ed è un momento particolarmente significativo, in cui sono prescritte preghiere particolari. Nelle berakhot (benedizioni) del mattino, ve n’è una a Dio “per aver concesso al gallo l’intelligenza per distinguere il giorno dalla notte”. Il cielo, qui, è notturno o diurno? Nessuno può dirlo. E’ come se il tempo stesso si trovasse, per fare festa ai due sposi, nella stessa posizione del gallo.
V
Questa è la tela più completa: tutti gli elementi delle precedenti vi sono in qualche modo compresi o richiamati. Il centro, come nella I, nella II e nella III, è spostato a destra: sono i due uccelli schiena contro schiena, che si dipartono in due direzioni diverse. A sinistra, la colomba vola verso Marc e Bella, sposi giovanissimi: i visi di entrambi non lasciano dubbi sull’identità. A sinistra della colomba, dunque, è rappresentata l’epoca del matrimonio tra Marc e Bella, sintetizzato nei suoi elementi essenziali: la colomba stessa, il sole e la luna fusi assieme, i volti come isolati da tutto, il gesto emozionato della passione – la loro vita in due, alta su Vitebsk (a sinistra, ben visibili, le cupole della cattedrale ortodossa di Vitebsk, presenti anche nella III tela). Quel sole fuso con la luna, forse, rimanda all’innocente baldanza, alla spensieratezza un po’ clownesca di due giovani nei primi tempi del loro matrimonio – quella speranza sorridente e un po’ chiassosa di cui difficilmente il mondo ha pietà o rispetto. A destra, invece, l’uccello rosso (un corvo, forse, legato al lutto e alla sventura), sul capo di chi si va allontanando da Vitebsk (il viandante della III tela) portando un’arpa scura come la propria veste (è dorata, invece, l’arpa del re-poeta nella II tela): è il momento del lutto, e dell’inevitabile esilio dal mondo che il lutto rappresenta – quel durissimo dover andare, stringendo al petto il poco che resta: doversi allontanare per sempre, senza speranza, dal mondo conosciuto.
La figura all’estrema destra non è un fantasma né una figura di sogno: è Valentina, la sposa futura, che sorge da Gerusalemme, diafana come chi ancora non è nel mondo delle presenze; si dirige verso l’esule, ed egli le va inconsapevolmente incontro. Altre figure popolano il quadro; significativo, soprattutto, l’agnello incoronato in basso a sinistra, che è animale messianico – come se questo esilio tutto personale contenesse una promessa di salvezza, in parallelo all’esilio di Israele. Le tavole del Patto stanno a destra, in basso. Al centro, sempre in basso, il libro aperto: è il Cantico della I tela – anche il lutto e l’esilio ne fanno parte, così come la sposa futura, come Vitebsk e Gerusalemme e il mondo intero. E’ una storia d’amore – è sacra, è vera.
Chagall, dunque, ha composto il proprio Cantico dei cantici: un poema su ciò che l’amore fu nella sua vita – sui suoi colori, sui vòlti e le figure che vi ebbe. Allo stesso tempo, ci ha dato un poema sull’amore nella vita di Israele, e un midrash inarrivabile sul testo del Cantico.
L’imperativo sembra essere uno solo, tutto ebraico: izqòr, ricorda. E, insieme, shemà, ascolta – con gli occhi, certo, ma pur sempre “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”.
Note dell’autore:
Mi chiamo Lorenzo Gobbi. Vivo e lavoro a Verona (vi sono nato nel 1966); insegno Lettere e Italiano come Lingua Seconda nelle Scuole Superiori. Mi sono laureato in Lettere Classiche presso l'Università Cattolica di Milano, Diplomato in Scienze Religiose a Verona e Diplomato CEDILS (Certificato in Didattica dell'Italiano come Lingua Straniera e Seconda) presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Ho seguito per un paio d'anni il corso di laurea in Psicologia a Padova: ho imparato tante cose interessanti, ma non ho proseguito.
Ho pubblicato alcuni saggi (Lessico della gioia, Qiqajon, Bose 1998; Gerusalemme. Nella memoria di Amos Oz, "Le città letterarie", Unicopli, Milano 2006; è uscito nell'estate, presso Servitium, Carità della notte. Il tempo e la separazione in alcune poesie di Paul Celan: una lettura personale); ho tradotto e curato poesia (tra cui Rainer Maria Rilke, Vita di Maria, Qiqajon, Bose 2000 e Le rose, Quaderni di Orfeo, Milano 2006; ma anche Un guscio di nocciola. I fiori e le erbe di Shakespeare, Il filo di Partenope, Napoli 2005; Biagio Marin, Fiuri de tapo, Perosini, Verona 2000, prima edizione mariniana criticamente impostata; e altro ancora); ho scritto poesie (Nel chiaro del perdono, Nel centro del ricordo, Luce alla mia destra, tutti usciti presso Book Editore, Bologna, tra il 2001 e il 2005; Le rose più di tutto, Quaderni di Orfeo, Milano 2005). Testi poetici sono presenti in Poesie di Dio, a cura di Enzo Bianchi, Einaudi, Torino 2000; traduzioni rilkiane in Maria, "I Meridiani", Mondadori, Milano 2001.
Lavoro, attualmente, a nuove traduzioni rilkiane, a un nuovo saggio su Paul Celan e a un saggio sulle cinque tele del Cantico dei Cantici di Marc Chagall (che richiederà ancora qualche anno).
Amo e stimo il mondo ebraico e la sua cultura: con esso, e con chi lo incarna, ho un immenso debito di riconoscenza.
A volte scrivo articoli, spesso faccio conferenze o tengo incontri sugli argomenti che mi sono congeniali. Insomma, lavoro sodo, e studio niente male. Le ore più poetiche della mia vita sono quelle che passo con le mie ragazze e i miei ragazzi del liceo (quest'anno, cioè dal 1 settembre, di Cologna Veneta - nel precariato cronico al quale mi sono adattato, nonostante lauree, concorsi fatti e superati, abilitazioni, corsi, perfezionamenti, traduzioni e pubblicazioni, che per lo Stato non valgono nulla; ma ho scelto io questo lavoro, e non me ne lamento; solo, vorrei che si smettesse di dire che "chi sa fa e chi non sa insegna", perché a me sembra di sapere, di fare e di insegnare pure; e anche di non esser l'unico); e quelle, più di tutte, che trascorro con gli studenti stranieri ai quali insegno l'Italiano, sempre a scuola. Amo le ore che spendo a faticare per la vita buona, quotidiana - quella che mai mi ha tolto né tempo né energie, anzi: tutto ha moltiplicato.
La mia e-mail è: lorenzogobbi@libero.it. (Il mio indirizzo ecc. è sull'elenco di Verona; ma dubito che possa interessare a qualcuno...).
Un saluto cordiale e un augurio di bene a tutti coloro che càpitano su questo blog.
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