mercoledì 20 marzo 2013

«Francesco ci indica dove occorre fissare lo sguardo»


JULIÁN CARRÓN SU AVVENIRE


di Julián Carrón
16/03/2013 - «Davanti ai fedeli, con le telecamere di tutto il mondo puntate su di sé, il Papa ha mostrato, in atto, qual è il fattore che sta all’origine della Chiesa». L'articolo del Presidente della Fraternità di Cl dedicato a Papa Francesco (16 marzo)
Nel mondo dell’informazione è un luogo comune che una notizia si consumi, che non possa tener desta l’attenzione oltre un certo limite. E già il gesto imponente della rinuncia di Benedetto XVI sembrava aver “consumato” buona parte di quella attenzione, centrata sul cuore del mistero di Cristo e della sua Chiesa. Malgrado ciò, subito dopo aver visto Ratzinger scomparire con un sorriso, l’attenzione dei media si è concentrata su Roma, intorno ai cardinali elettori. È difficile sottrarsi alla domanda di che cosa nasconda la figura del successore di Pietro, tale da generare un’attenzione e un’attrattiva che vanno molto al di là delle “misure” normali degli eventi mediatici.

Durante le quasi due settimane di durata della sede vacante, si sono fatte, esplicitamente o implicitamente, molte ipotesi sulla natura del fenomeno chiamato Chiesa cattolica. Sono stati giorni in cui abbiamo rivissuto la domanda che lo stesso Gesù indirizzò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). E gli uomini hanno cercato di rispondere anche oggi, quasi con fretta, come di fronte a un fatto che esigeva una spiegazione. E hanno risposto applicando le categorie consuete delle quali ognuno dispone. Le categorie “politiche” che si sono applicate al Conclave nascondevano un’ultima incapacità di stare davanti a un fenomeno che, ieri come oggi, sorprende. Non basta che queste categorie siano state smentite diverse volte (con Giovanni Paolo II, con Benedetto XVI...) perché si cessi di applicarle: è necessaria una spiegazione esauriente del fenomeno che i nostri occhi vedono. Più propriamente, bisogna che questa spiegazione accada.

Ebbene, la Chiesa cattolica è accaduta davanti ai nostri occhi, nell’intenso dialogo fra papa Francesco e la folla in piazza San Pietro. L’attesa della gente, mentre i cardinali votavano in Conclave, rivelava un popolo fiducioso e nello stesso tempo bisognoso di un pastore, intorno al quale si produce una unità sempre sorprendente in un mondo come il nostro, abituato alla divisione. La fumata bianca ha ceduto il posto a una gioia debordante, che in più d’uno deve aver suscitato la domanda: «Come è possibile che si rallegrino, se non sanno ancora chi è stato eletto?». Con l’ondeggiare delle tende l’attesa cresceva, rivelando il desiderio diconoscere, vedere e ascoltare il pastore, come quasi duemila anni fa Aquila e Priscilla, oriundi di Roma, convertiti da san Paolo a Corinto, volevano conoscere Pietro, l’amico di Gesù, il primo Vescovo di Roma.

Il primo gesto del Papa ha preceduto il suo volto: ha deciso di chiamarsi Francesco, indicando sin dall’inizio dove occorre fissare lo sguardo. Come il poverello di Assisi, il Pontefice dichiara di non avere altra ricchezza che Cristo, e non conosce altro modo di comunicarla che la semplice testimonianza della propria vita. E subito, davanti ai fedeli, con le telecamere di tutto il mondo puntate su di sé, il Papa ha mostrato, in atto, qual è il fattore che sta all’origine della Chiesa: ha invitato la folla a raccogliersi in preghiera davanti a Dio Padre attraverso Gesù Cristo. In quel momento la Chiesa è accaduta davanti a tutti noi. Come il suo predecessore, l’impetuoso Pietro, Francesco ha confessato: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt, 16,16). Come al primo Vescovo di Roma, anche a lui Cristo consegna, davanti al suo gregge, le chiavi della Chiesa.

La fede che si manifesta nel gesto di Francesco, nella richiesta al suo popolo che chieda mendicando per lui la benedizione di Dio, è in modo commovente la stessa che abbiamo colto in Benedetto XVI allorché ricordava al mondo intero che la Chiesa è di Cristo. Lasciando i cardinali, Ratzinger ricordava, citando Guardini, che la Chiesa «non è un’istituzione escogitata e costruita a tavolino…, ma una realtà vivente… Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi… Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». Ricordando l’Udienza del giorno precedente in piazza San Pietro, concludeva: questa «è stata la nostra esperienza, ieri, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio» (28 febbraio 2013).

Anche noi possiamo dire: «Lo abbiamo visto ieri». E adesso lo diciamo con Pietro, di cui conosciamo il volto, che ci invita, come ognuno dei Papi ha fatto con il suo popolo dell’Urbe e dell’Orbe, a incominciare un cammino insieme.



Uno stemma che è un programma



stemma
Nello stemma episcopale di papa Jorge Mario Bergoglio ci sono tre parole latine di non immediata comprensione: “Miserando atque eligendo”.
Ma se si va a vedere da dove sono riprese si scoprono tratti importanti del programma di vita e di ministero di papa Francesco.
In questa piccola caccia al tesoro è d’aiuto una nota del dotto teologo Inos Biffi su “L’Osservatore Romano” del 15 marzo.
Il motto proviene da un’omelia di san Beda il Venerabile (672-735), monaco di Wearmouth e di Jarrow, autore di opere esegetiche, omiletiche e storiche, tra cui la “Historia ecclesiastica gentis Anglorum”, per cui è chiamato il “Padre della storia inglese”.
Nell’omelia, la ventunesima di quelle che ci sono giunte, Beda commenta il passo del Vangelo che racconta la vocazione ad apostolo di Matteo, pubblico peccatore.
Nel brano da cui è ricavato il motto si legge:
“Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’ (Matteo, 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con amore misericordioso in vista della sua elezione, gli disse: ‘Seguimi’. Gli disse ‘Seguimi’, cioè imitami. ‘Seguimi’, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti ‘chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato’ (1 Giovanni, 2, 6)”.
In latino, il brano inizia così:
“Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi, Sequere me. Sequere autem dixit imitare. Sequere dixit non tam incessu pedum, quam exsecutione morum”.
Includere nello stemma il motto “Miserando atque eligendo” significa dunque mettersi al posto di Matteo, da Gesù guardato con misericordia e chiamato a lui, nonostante i suoi peccati.
Ma l’importante è il seguito del passo citato. Dove Beda spiega cosa comporta seguire ed imitare Gesù:
“Non ambire le cose terrene; non ricercare i guadagni effimeri; fuggire gli onori meschini; abbracciare volentieri tutto il disprezzo del mondo per la gloria celeste; essere di giovamento a tutti; amare le ingiurie e non recarne a nessuno; sopportare con pazienza quelle ricevute; ricercare sempre la gloria del Creatore e non mai la propria. Praticare queste cose e altre simili vuol dire seguire le orme di Cristo”.
Conclude Inos Biffi:
“È il programma di san Francesco d’Assisi, iscritto nello stemma di papa Francesco. E intuiamo che sarà il programma del suo ministero, come vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale”

PAPA FRANCESCO


Papa Francesco: vero potere è il servizio
Non abbiate paura della tenerezza

«Il mondo perfetto non esiste». Tutti i grillini dovrebbero leggere questo testo di Ratzinger


DA TEMPI 




Caro direttore, i risultati elettorali e la grottesca rincorsa a Grillo stanno rendendo balbettanti intellettuali e commentatori di grandi testate. 

Per schiarirsi le idee, sarebbe utile che riflettessero su queste considerazioni (del 1986) di J. Ratzinger. Alla domanda, che si pone, «che cosa minaccia oggi la democrazia?» risponde: «C’è innanzitutto la incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane: il desiderio di assoluto nella storia è il nemico del bene che è nella storia. L’idea che la storia passata sia stata una storia di non libertà si afferma sempre di più; e che finalmente ora, o tra poco, si potrà o si dovrà costituire la società giusta».

IL MONDO PERFETTO NON ESISTE. «Io penso che noi oggi dobbiamo con ogni decisione chiarirci che né la ragione né la fede promettono, a nessuno di noi, che un giorno ci sarà un mondo perfetto. Esso non esiste. La sua continua aspettativa, il gioco con la sua possibilità e prossimità, è la minaccia più seria che incombe sulla nostra politica e sulla nostra società, perché di qui insorge fatalmente l’onirismo anarchico. Per la consistenza futura della democrazia pluralistica e per lo sviluppo di una misura umanamente possibile è necessario riapprendere il coraggio di ammettere l’imperfezione ed il continuo stato di pericolo delle cose umane».


IL MORALISMO È IMMORALE. «Sono morali solo quei programmi politici che suscitano questo coraggio. Immorale è al contrario quell’apparente moralismo che mira ad accontentarsi solo del perfetto. Sarà quindi necessario anche un esame di coscienza nella predicazione morale della Chiesa o vicina alla Chiesa, le cui ipertese esigenze e speranze spingono alla fuga dal piano morale a quello utopico».


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