lunedì 20 settembre 2010

PADRE ALDO

.....Una prova ulteriore del fatto che l’educazione non è un progetto o un insieme di iniziative o di teorie, ma solo la comunicazione, molte volte implicita, del “patrimonio genetico” che uno ha. E per me la confessione è l’esperienza settimanale di quello che in ogni momento mi definisce: “Io sono Tu che mi fai”. La confessione è il volto storico, concreto, palpabile di questa relazione col Mistero da cui dipende ogni respiro della nostra vita. È il riconoscimento preciso, semplice ma molto concreto del fatto che l’uomo non è stato, non è e non sarà mai definito dai suoi antecedenti biologici e psicologici, dai suoi limiti, dai suoi peccati, dalle sue miserie, ma è in ogni istante esclusivamente relazione con l’Infinito.......


Per: il miglior papà Aldo Trento
Da: tua figlia
Papà, sei la persona migliore che ho conosciuto nella mia vita, e so che vuoi bene a me e anche a mio fratello. Io ti voglio bene, papà. Ed è un miracolo di Dio che noi ci siamo incontrati, se no non saremmo qui. Papà, a me manca qualcosa, però non so cosa. Forse l’affetto dei miei genitori. Ma mi sento sempre vuota. Solo tu puoi darmi amore. Ma non sono mai contenta del tutto, non sopporto che tutti picchino mio fratello, e non voglio che lui soffra. Papà, per favore, restaci vicino, così che io e mio fratello non cadiamo in tentazione. Grazie perché ti prendi cura di noi.
Tua figlia Maria

Ogni volta che uno dei miei bambini della Casita de Belén mi dà una letterina, raccontandomi l’esperienza umana che ha vissuto o che vive, è per me un Avvenimento.




Non solo perché mi esprimono il loro affetto di figli, ma perché risvegliano in me gli interrogativi ultimi che definiscono il cammino della vita. È come se le loro lettere, frutto dell’affetto che provano per me e del dolore che vivono, mi spingessero a fissare quel puntino rosso che Matisse ha messo al centro del suo Icaro. Ogni volta che parlo con loro quell’immagine diventa il pensiero dominante che scuote la totalità della mia vita quotidiana. Vivere fianco a fianco con loro mi impone di ricordarmi ogni istante la questione fondamentale dell’esistenza: il cuore. Ed è come se tutti i giorni, al risveglio, sentissi questo cuore chiedere sempre di più una serietà e un compromesso radicale con le circostanze che mi aspettano, come una grazia, per riconoscere la grande presenza del Mistero. «Papà, a me manca qualcosa, però non so cosa…». Maria, una bambina violentata da suo “padre”, ha soltanto 11 anni. La sua vita, prima di arrivare alla Casita de Belén, è stata un inferno. Ricordo in tutti i dettagli la disperazione del suo viso, i suoi occhi pieni di rabbia, le sue labbra serrate a qualsiasi saluto o tentativo di strapparle un sorriso. Guardarla negli occhi provocava un senso di impotenza e anche di rabbia per quello che le era capitato nella sua giovane vita. Sono stati necessari mesi di avvicinamento, di tenerezza, perché arrivasse finalmente il momento in cui, abbracciandomi, mi chiamasse “papà”. Ricordo quel giorno perché è stata una grande sorpresa. Stavo camminando per il campo di calcio immerso nei miei pensieri, quando all’improvviso ho sentito la voce di una bambina che gridava: «Papà!», e lo gridava correndo verso di me. Non mi ero ancora scosso dai miei pensieri che lei mi aveva già messo le braccia al collo. Era felice. E io non sono riuscito a dirle niente. Semplicemente mi sono lasciato abbracciare, e guardandola bene negli occhi le ho detto: «Maria, figlia mia, grazie». Da quel giorno il rapporto padre-figlia è cresciuto sempre di più. Ogni tanto mi porta una letterina con i suoi problemi e le sue domande, allegra nel dirmi l’affetto che prova per me. Una cosa, in questi mesi, mi ha colpito profondamente. Ogni volta che si arrabbiava tornava a essere testarda e dura come il granito, e col muso lungo e il respiro affannato mi si avvicinava e mi diceva: «Papà, voglio confessarmi». Una grazia appresa per osmosi, stando al mio fianco, sebbene io non le abbia mai parlato direttamente della confessione: semplicemente, da quando ho sette anni ho imparato a confessarmi una volta alla settimana. Una prova ulteriore del fatto che l’educazione non è un progetto o un insieme di iniziative o di teorie, ma solo la comunicazione, molte volte implicita, del “patrimonio genetico” che uno ha. E per me la confessione è l’esperienza settimanale di quello che in ogni momento mi definisce: “Io sono Tu che mi fai”. La confessione è il volto storico, concreto, palpabile di questa relazione col Mistero da cui dipende ogni respiro della nostra vita. È il riconoscimento preciso, semplice ma molto concreto del fatto che l’uomo non è stato, non è e non sarà mai definito dai suoi antecedenti biologici e psicologici, dai suoi limiti, dai suoi peccati, dalle sue miserie, ma è in ogni istante esclusivamente relazione con l’Infinito.
Quando mi sento dire in confessione: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», è evidente l’imponente Presenza della misericordia trinitaria che mi rigenera e mi ricorda che in ogni momento io sono fatto. Questo respiro si trasmette a quanti mi circondano, che in libertà possono dire “sì” oppure “no”. Tuttavia i miei ragazzini, e in particolare Maria, hanno percepito questo respiro, questo mio modo di stare davanti al Mistero. E per questo anche in lei si va formando la coscienza che la sua vita non dipende da quello che le è toccato subire, ma dal fatto che la misericordia divina la costruisce in ogni momento. Così la rabbia verso se stessa e gli altri si trasforma lentamente in quel «Padre, voglio confessarmi». È bellissimo che una bambina sperimenti a undici anni come l’ultima parola sulla vita, ciò che salva ogni cosa, sia la misericordia.
All’interno di questo cammino nasce in lei quello che potremmo chiamare nostalgia del Mistero. «Papà, a me manca qualcosa, però non so cosa. Forse l’affetto dei miei genitori. Ma mi sento sempre vuota». Che colpo, che commozione provocano in me queste parole, questa carne di figlia che grida! Esige che ci sia qualcuno che la ascolti, però non conosce il Nome, non sa dove vive, né dove incontrarlo. Infatti dice: sarà forse l’affetto dei miei genitori (che non ha mai ricevuto, anzi il padre biologico ha ucciso in lei il grido della vita già all’alba dell’esistenza).

Come gli antichi guaraní
Maria percepisce, tocca con mano il senso di vuoto, quel vuoto che Quasimodo così descriveva: «Ognuno sta solo sul cuor della terra». Questa solitudine, che non è la mancanza di qualcuno che stia al tuo fianco, ma il fatto che né io, né voi, né Maria, né nessuno che cammina al nostro fianco può risolvere questo enigma che è l’essere umano. Nessuno può colmare in modo definitivo quell’insieme di esigenze che formano il tessuto umano dell’Io, e che coincidono con il desiderio di amare e di essere amati, di felicità, di giustizia, di verità, di bellezza. Maria avverte personalmente questo vuoto all’interno di tutte le relazioni buone che vive, anche nell’allegria che prova nel chiamarmi papà, e di domandarmi di proteggere lei e il suo fratellino. È come se tutto questo, per quanto grande e bello sia, non le bastasse. Non solo, è come se le aprisse una ferita anche maggiore, al punto di dire, di gridare: «Papà, a me manca qualcosa, però non so cosa». Il grido di Maria, con i suoi 11 anni soltanto, è il grido del genio, del mendicante, del pellegrino, dei guaraní dai quali discende e che dai Caraibi alla Patagonia, dalle Ande all’Atlantico camminavano, camminavano senza mai fermarsi, cercando la terra senza il male, quella terra originaria che avevano perso per colpa del serpente. Questa bambina ricerca la stessa cosa. Così come la ricerca l’uomo compromesso con la propria umanità.
Quando ho udito il suo grido l’ho fatto mio e l’ho custodito nel mio cuore, senza darle alcuna risposta, lasciandola inquieta come anni fa aveva detto don Luigi Giussani al Meeting di Rimini: «Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli». La risposta la deve incontrare camminando a fianco a me, nella paternità che Dio mi chiama a vivere. Non può incontrarla se non vivendo la stessa naturalezza del papà, perché è solo dentro una paternità che si può riconoscere il nome del Mistero. È solo dentro l’esperienza di essere figlia che lei può riconoscere il nome di quell’uomo che quando gli chiedevano chi era, rispondeva parlando del Padre. Gesù non è una ricetta, una formula, Gesù raggiunge l’uomo nella sua libertà, non importa l’età, solo dentro un incontro, dentro una paternità, solo quando si riconosce figlio di qualcosa di più grande, che coincide con l’Infinito: perché è l’Infinito che Maria cerca, e vuole incontrare.
«Solo tu puoi darmi amore. Ma non sono mai contenta del tutto… Per favore, restaci vicino, così che io e mio fratello non cadiamo in tentazione. Grazie perché ti prendi cura di noi». Il semplice finale della letterina di Maria, che si fa portavoce anche del suo fratellino più piccolo, molto spesso – come accade tra bambini – “vittima” dei più grandicelli, è un grido d’amore che mi ricorda la poesia I due orfani di Pascoli. Lei e suo fratello sono rimasti soli, con un grande vuoto, che esige una pienezza che, in un modo o nell’altro, passa per questo mondo mediante l’affetto umano di chi è stato scelto per essere l’immagine, il sacramento dell’unicum che può riempire quel vuoto di cui la mia figliola mi parla sempre. Il compito educativo
«Quid animo satis?», direbbe san Francesco. Che cosa può bastare al cuore dell’uomo? La piccola Maria ogni giorno mi fa la stessa domanda. «Mistero eterno dell’essere nostro», direbbe Leopardi. Circondato da tanto dolore innocente che mi stringe il cuore, l’unica cosa che mi resta è pormi in adorazione davanti a questo Mistero, che ha segnato con la sua amorosa Presenza ogni uomo, fin nei suoi minimi dettagli, dal suo concepimento fino al suo ultimo respiro. Davvero il genio è simile al bambino, e il bambino al genio. Maria ne è la prova. Però quel che il genio intuisce e che il bambino ha dentro naturalmente solo il cristiano può avvertirlo in tutta la sua potenza come grido, e al tempo stesso toccare con mano il progressivo compiersi della promessa che ogni battito del cuore rende manifesto.
Scriveva Ungaretti: «Chiuso tra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) perché bramo Dio?». Guardando la mia piccola figlia e il suo fratellino vedo in ogni momento nei loro volti questa domanda. A me il compito educativo di non far mai spegnere questa domanda, in loro e soprattutto in me.

padretrento@rieder.net.py

PADRE ALDO TRENTO 18 SETTEMBRE 2010

Cari amici: I santi e martiri sono fra noi. Guardate le foto di questo giovane matrimonio. Lui 25 anni, Lei 21. Sposati in chiesa due anni fa. Rimane incinta quasi subito. É felicissima, Diana ,cosí si chiama. Un controllo medico, una risposta terribile. “Dobbiamo operarti di un cancro che se preso subito sarebbe curabile, peró dovremmo toglierti anche il bambino che porti dentro”. “O tu o il bambino”. Lascio a ciascuno immaginare il dramma.Ma insieme al suo giovane sposo, pieni di fede, non hanno dubbi: “Salvate il bambino, e una volta nato penserete a me”.
Nasce il bambino prematuro. É bello, lo guardano crescere nella incubatrice. Ma un giono arriva la drammatica notizia.” é morto per una infezione hospitalaria (ospedaliera). Il colmo dei colmi, ma per i medici (o sono santi o sono come Hitler, pietre, assasini), le cose sono andate cosí. Per Diana e il marito é una disperazione, che solo quel: “Tu o Cristo mio” o quel: “Chi sei Tu o Cristo?”… riesce lentamente a trasformare in un abbandono. Piano piano il loro bambino diventa il loro angelo. Torna in Diana un pó di serenita, quando i medici le dicono: “Ma non c´é niente da fare neanche per te”. Diana arriva qui in clinica per morire. Lei sa che tipo di ospedale é il nostro (in queste settimane 12 morti), ma lei sa che esistono i miracoli, e che non tutto dipende del medico ( quanta rabbia mi provoca o mi suscita la la apatia, la freddezza della maggior parte dei medici!…anche cattolici, anche dei movimenti…uno sa che se il cuore non vibra per Cristo, diventa di pietra) non ha l´ultima parola. Cosí accolta da tutti (medici, infermieri, ecc.) come Gesú che accoglie ognuno di noi, lei stá vivendo con una serenitá e una pace profonda il suo destino. La guardo , ha 21 anni, mi commuove. Le abbiamo dato da leggere la vita di santa Beretta . A 21 anni é giá una santa e martire! Quale miglior commento alla scuola di comunitá sulla caritá! Guardate le foto , seduta nel nostro ospedale, con uno sguardo pieno di tenerezza, e il cuore addolorato, come quello della Madonna, di cui abbiamo celebrat la festa il 15 settembre. Chiediamo a Giussani il miracolo. Diana ha solo 21 anni ed é sposata da due.
Amici , il cielo semina questa terra di segni che ci rendono contermporaneo Gesú. Un abbraccio. P. Aldo












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