venerdì 20 maggio 2011

VITE PER LA VITA

E' un articolo che e' comparso su Avvenire ma che ho letto sul blog"gli amici di Simone.
Ringrazio quindi Alessandro e colgo l'occasione per salutarlo.



Ci sono vite per la Vita. La assistono, la sostengono, passo dopo passo, respiro dopo respiro, dall’inizio alla fine. Il volontario che trascorre le sue ore accanto ai malati di Alzheimer, o con i disabili; lo studente che passa qualche ora, ogni giorno, con un anziano costretto a letto; il personale medico e sanitario che non perde la speranza, che sorride nonostante tutto, che stringe forte le mani, accarezza i volti. E poi, a Genova, nel cuore dimenticato del vecchio quartiere di periferia Paverano, tra le mura del Piccolo Cottolengo Don Orione, ci sono Anna e Concettina. Vite segnate dal dolore, dalla deformità, dal rifiuto delle famiglie: Concettina abbandonata su un treno a cinque anni, per "salvarla" dalla cattiveria di un paesino nella provincia dell’Aquila dove il nanismo era mostruosità inconcepibile. Anna portata al Cottolengo a otto anni da una maestra, perché la poliomelite la costringeva a camminare su mani e piedi («a quattro zampe come un gattino», dice lei), nel 1941 le stampelle erano un lusso a lei non concesso e a scuola quell’alunna proprio non sapevano dove metterla. Anna e Concettina sono donne che alla vita degli altri, nonostante la propria malattia, hanno dato tutto. E che dei malati, dei sofferenti, dei bisognosi, hanno fatto la propria "ragione".





Anna lo spiega senza pensarci un attimo: «Ero come loro, che cosa avrei dovuto fare?». Per lei ènaturale, da sessant’otto anni, occuparsi di aiutare chi al Cottolengo è meno fortunato: classe 1933,una sedia a rotelle agile come una Ferrari, si infila nei corridoi alla velocità della luce col nome di ciascuno sulla bocca, senza dimenticarne uno, senza increspare mai il sorriso. La mattina presto aiuta nel giro delle colazioni, poi in lavanderia a stirare e piegare i panni, poi di nuovo in corsia,armata di cucchiaio, per imboccare chi non riesce a mangiare da solo. Sono tanti così, al PiccoloCottolengo: molti in stato vegetativo, molti affetti da Parkinson o Alzheimer avanzati. Anna non sa nemmeno che differenza ci sia: «Sono persone, hanno appetito, devono rimanere in salute», e via lungo i corridoi, più veloce delle infermiere. Vien quasi da pensare che abbia visto il mondo, che abbia studiato chissà quanti manuali di pedagogia e assistenza sanitaria, Anna. Invece da sessant’otto anni il Piccolo Cottolengo è la sua casa, il suo universo. È uscita solo due volte, per trascorrere dei periodi in altre strutture che avevano bisogno di braccia e di sorrisi. Poi è rientrata senza mai chiedere di andare al cinema, o a comprare un maglione. «La Vita chiamava più forte –spiega, mentre gli occhi le brillano –. La Vita, io la chiamo così, non mi ha mai dato il tempo per pensare a me, a queste gambe, a questo corpo. Mi ha sempre ripetuto che c’è un dolore più grande, una croce più pesante da portare».La Vita, per Anna, sono soprattutto i suoi "angeli custodi". Al Piccolo Cottolengo di Genova è il nome di un reparto speciale: il lungo corridoio giallo, nuovo di zecca, ospita le "bambine". Sono le pazienti arrivate lì da piccole, in alcuni casi in fasce. Per loro niente da fare: malattie gravissime,spesso prive di una precisa diagnosi, sguardi assenti, movimenti sconnessi, rantoli. Alcune, bambine non sono più: rimangono lì per quella inguaribile tortura che le fa sembrare fisicamente sempre piccole, che le logora da decenni. È il caso di Marilena, codine alla Pocahontas e pigiama rosa:Anna l’ha presa in braccio, la prima volta, che aveva 17 mesi. Oggi ha cinquantun’anni. «Per me è come una figlia: le ho visto crescere i capelli, riempirsi le guance. Ho imparato il significato di ogni sua occhiata: quando vuole essere spostata, quando è malinconica, quando è felice». Marilena non parla, a guardarla un minuto sembra non esserci. Serve più tempo, per conoscerla. Serve la lezione di Anna per capirla.
Dall’altro capo del Cottolengo, da qualche anno relegata a letto, c’è Concettina. Anche lei, come Anna, per cinquant’anni e più si è messa al servizio degli altri: senza mai scoraggiarsi, anche quando la fatica per sollevare un paziente, e spostarlo, era troppo grande per lei, così piccola. «Sono nana – spiega –, ma questa è stata una benedizione, non un peso. Mi ha aiutato, qui, perché con le mie manine ero un fulmine a rammendare le lenzuola, e a pelare le patate. Nessuno come me». Anche quando i dolori, e la vecchiaia, hanno spezzato il suo corpo, Concettina non si è tirata indietro: ha scelto di essere messa in camera con Dodi e Teresa, le sue "perle". Dodi ha la Corea di Hungtinton, una malattia degenerativa ereditaria che colpisce il sistema nervoso: l’ha sorpresa a 28 anni, improvvisamente, e l’ha annientata. È assente, agitata, le mani coperte da fodere di feltro per evitare che durante le sue crisi si faccia del male. Teresa, invece, è arrivata al Piccolo Cottolengo nel dicembre del 2000, segnata dagli esiti di una gravissima emorragia cerebrale, con tetraparesi spastica, epilessia, afasia, degrado cognitivo. Non dice niente, non c’è. Eppure, quando Concettina la chiama dal suo letto, e le chiede di sorridere, gli occhi si riempiono di luce, di lacrime, e con tutto lo sforzo del mondo Teresa muove la testa, pian piano, nella sua direzione. «Sono gli esercizi quotidiani – dice Concettina –, se non ci fossi io, chi glieli farebbe fare?». Dodi è qualche centimetro più in là nella stessa stanza, ma la Tina sa raggiungere anche lei con la voce, con le ammonizioni, con i complimenti. Non le lascia mai sole, in quell’abisso di dolore e solitudine. E le guarda come perle davvero, gioielli donati per chissà quale misterioso incantesimo, a lei, che non ha mai ricevuto regali. Così Concettina aiuta la Vita da un letto d’ospedale, inferma. Senza stancarsi, senza sbuffare. All’ingresso del Piccolo Cottolengo, i volti di Anna e Concettina compaiono già tra i ritratti dei benefattori. Accanto ai cammei in bianco e nero, a nobili e medici e infermieri morti anni or sono, ci sono anche loro. «Si può dire che Anna e Concettina “siano” questo centro, e viceversa – spiega don Germano Corona, direttore del Paverano –: così abbiamo voluto scrivere accanto alle loro foto. Potevano starsene sedute lì, a guardare la Vita scorrere davanti a loro, come tanti ospiti qui. Invece, Anna e Concettina hanno lasciato che le attraversasse. E hanno compiuto i loro piccoli, grandi miracoli».





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