lunedì 19 ottobre 2009

PADRE ALDO TRENTO,

raccolta delle sue lettere e testimonianze
Aldo Trento: Per accettare i propri limiti ci vuole la coscienza dei miei malati
Come faccio ad accettare i miei limiti? È la domanda che per anni mi ha tormentato, e che mi capita di ascoltare spesso da coloro che incontro quotidianamente: giovani, adulti, anziani, sposati, consacrati, scapoli.

TEMPI 13 Ottobre 2009
di Aldo Trento




Come faccio ad accettare i miei limiti? È la domanda che per anni mi ha tormentato, e che mi capita di ascoltare spesso da coloro che incontro quotidianamente: giovani, adulti, anziani, sposati, consacrati, scapoli. Insomma, è una domanda che riguarda tutti, e che purtroppo genera una tristezza enorme sui volti di tanti. Una domanda che esige una risposta chiara e precisa, perché dalla risposta che incontriamo dipende un fattore decisivo che tutti desideriamo: la nostra autostima, la possibilità di dire “io”. Viviamo in un mondo di depressi, in cui l’accettazione di sé, così come si è, spesso sembra impossibile. La depressione si manifesta secondo modalità molto diverse: dall’angoscia del vivere alla bulimia, all’anoressia, alle crisi esistenziali che possono spingere perfino a odiare la vita. Sarei tentato di dare ragione a Cesare Pavese, che soffriva la durezza del “mestiere di vivere”. Un mestiere difficile, che spesso tentiamo di rendere più facile fuggendo i dolori, le responsabilità, le angosce, magari affidandoci a qualche sedicente esperto che promette di rivelarci la soluzione svuotandoci il portafoglio. Ma la depressione non si risolve con le scorciatoie e i metodi antistress. Per poter affrontare un male così oscuro, un limite così difficile da superare, bisogna innanzitutto chiarire bene i termini della questione, e poi cercare le ragioni della grande fatica che si deve fare per affrontarla. Perché ciò che non si affronta non si può riconoscere né capire, e quindi non può mai essere redento, non diventa mai una grazia.
«Padre, non mi sopporto con tutti questi miei limiti, per favore aiutami perché non so come affrontarli», mi supplicava una ragazza giorni fa.
Non si tratta di porre la questione a livello morale, perché il limite umano è ontologico, e perciò non eliminabile con uno sforzo di volontà. Si tratta, invece, di riconoscere e abbracciare questo limite.
L’uomo, in quanto creatura (anche se “divina”) è ontologicamente limitato. Solo Dio non ha limiti. Ogni creatura ne ha, perfino gli angeli che sono creature divine. L’uomo, come gli angeli, è stato creato per mezzo di un atto d’amore divino: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». Quel “facciamo” sottolinea due cose: la prima è che prima l’uomo non c’era mentre adesso c’è, la seconda è che l’uomo è continuamente “fatto” da Dio, altrimenti cadrebbe nell’abisso del nulla.

La pietà di Dio
Per questo l’affermazione più bella che esiste, e che solo l’uomo in tutto l’universo può dire, è: “Io sono Tu che mi fai”. L’io umano, essendo “creatura” per sua stessa natura, dentro questo riconoscimento è come innalzato e trasformato dal Tu di Dio. In questa esperienza di abbandono al Mistero, si impara a guardarsi con gli occhi stessi del Mistero, con ironia. Dio gode per ognuno di noi, ci sorride, e mentre noi ci affanniamo per uscire dal nostro limite lui ci ripete in ogni momento : «Di un amore eterno ti ho amato, ti ho tratto a me perché ho avuto pietà del tuo niente».
La letizia di fronte al proprio limite è la caratteristica esclusiva di chi si riconosce figlio, si riconosce fatto in ogni istante. E che cosa c’è di più bello e affascinante che il vivere con un cuore traboccante di questa certezza: “Io sono Tu che mi fai”?
Sono convinto che l’offesa più terribile che possiamo rivolgere al Mistero coincida con l’incapacità di svegliarsi al mattino e scoprirsi amati. La bestemmia più grande la diciamo quando ci guardiamo allo specchio con il muso duro, incapaci di sorridere, incapaci di ironia, incapaci di sorprenderci “fatti in quel momento”. Uno che apre gli occhi al mattino dicendo “Io sono Tu che mi fai” non può che sorridere e mettersi in ginocchio davanti al Mistero. È ciò che mi commuove ogni mattina quando incontro gli ammalati terminali: inginocchiandomi davanti a ognuno do loro la comunione e li bacio. I loro occhi stanchi, spesso insonni e tormentati dal dolore, mi sorridono e alla mia domanda: «Come stai?», rispondono: «Molto bene, padre».
L’autostima, che è il motore della vita, comincia a livello di coscienza già al canto del gallo, come si diceva nel mio piccolo paese ai piedi delle Alpi. Lo svegliarsi al mattino ci pone sempre a un bivio: o partire guardando in faccia il Mistero, come il nostro cuore desidera, o partire dallo stato d’animo del momento, in balìa del nostro mutevole umore.
Sono due modi opposti di stare davanti alla realtà, e mentre il primo riempie la vita di certezza e speranza, il secondo la soffoca dentro l’angoscia degli stati d’animo, cangianti a ogni «discorde accento», come direbbe Giacomo Leopardi.

La rottura di Adamo ed Eva
Infine c’è un ultimo aspetto dei limiti umani, che ha la sua origine nel peccato. Quel peccato che la tradizione della Chiesa chiama “originale” e che ogni uomo riceve in eredità da Adamo ed Eva, i quali, nel loro affanno di essere come Dio, un giorno decisero di rompere il rapporto con il Mistero. Quella rottura, voluta dalla libertà umana, ha lasciato terribili conseguenze, terribili al punto che «nella pienezza dei tempi», come ci ricorda san Paolo, Dio si è fatto carne per restituire all’uomo quell’unità dell’io distrutta dal peccato. Da quella rottura in poi l’io ha sperimentato una specie di schizofrenia. Non più l’armonia fra sentimento e ragione, ma una frattura insanabile, che la Genesi rappresenta con l’immagine di Adamo ed Eva che si nascondono allo sguardo di Dio coprendosi con foglie di fico. «Eravamo nudi e abbiamo avuto paura di te», risponde Adamo a Dio che inutilmente li aspettava al solito appuntamento serale.
Questo io frantumato è l’origine di ogni altra forma di divisione. Adamo colpevolizza Eva della disobbedienza al Mistero: è la divisione della coppia umana. Caino uccide Abele: è la distruzione della famiglia. La torre di Babele, la confusione delle lingue: è la fine della comunicazione umana e l’inizio della confusione totale.

Un “io” di nuovo unito
Ovidio descrive magistralmente questa frantumazione dell’io : «Video meliora proboque, deteriora sequor», di cui lo stesso apostolo Paolo prende atto affermando però: «Non faccio ciò che il mio cuore desidera e faccio ciò che il mio cuore non desidera. (…) Chi mi libererà da questo corpo di morte?».
Dio si è fatto uomo solo per questo: ridare all’io umano quell’unità originale persa con il peccato di Adamo ed Eva. Dio, in Cristo Gesù, si è fatto peccato per ridonare la gioia di dire “io”. L’incarnazione è la fine della divisione, è l’inizio di un “io” finalmente unito. Ragione e sentimento non più nemici ma alleati, il cuore non più disperato ma pieno di certezza e speranza. Con l’incarnazione il cuore diventa amico del Mistero e la libertà umana può finalmente gridare: “Io sono Tu che mi fai”. L’uomo non è più il frutto del suo passato, non dipende più dai suoi antecedenti, non importa quali, non è più vittima delle sue miserie, non è più determinato dalle mille cadute quotidiane, bensì creato, voluto, amato in ogni istante.
I battiti del cuore non sono più affannosi, ma pieni di pace, come quelli di un bambino capriccioso quando è tra le braccia di sua madre.

padretrento@rieder.net.py
PADRE ALDO TRENTO 12 OTTOBRE 2009

Cari amici, il movimento ci insegna a guardare la realta, obbedirle, prendere sul serio il proprio cuore, partire dal dato oggettivo, dalla storia come si sviluppa. Per esempio nessuno di noi un anno fa poteva immaginare cosa volesse dire quanto Carron ci disse: guardate ai testimoni. E nemmeno cosa questo sguardo potesse generare.
Per noi ha significato un cambio radicale nell´intendere i rapporti, guardare alle opere fatte esclusivamente dalla Providenza, il modo di intendere e obbedire alla realtá.
Dicevamo con Marco e Cleuza: fino ad un anno fa neanche ci conoscevamo ed oggi non esiste per me, i miei sacerdoti, quant´ lavorano qui (150) un amicizia piu autorevole di questa. Un ´amicizia operativa che ha incominciato a porre le basi di un modo nuovo di intendere quest´ opera, un modo dove non solo l´assistenzialismo  e´scomparso  ma sta nascendo un nuovo sogetto nativo, responsabile e protagonista di quanto la Providenza sta creando da 5 anni. Uno dei frutti operativi é anche la nuova amicizia con alcuni bioingenieri di Buenos Aires del Gruppo Adulto e del movimento, che gratuitamente vengono ogni 15 giorni avendo assunto la responsabilitá dell ópera e lavorando con gli ospedali “San Juan de Dios” hanno chiesto una piú stretta collaborasione con noi, che aiuterebbe noi nel campo scientifico e loro a riscoprire il carisma originale. Obbedire ai fatti é l´unica intelligenza che ci é richiesta. Mai partire da un ”a priori”. Vale quanto afferma Alexis Carrel. Un ´altra novitá é che abbiamo creato un luogo che verifica di tutte le domande di quanti con cuore grande ci chiedano di venire qui ad aiutarci. La nostra casa é una grande e bella esperienza di amicizia, la continuitá de quelle abbraccio del Giuss che ha cambiato la mia vita.
Abbiamo in questo momento due persone di Barcellona impegnate nella clinica e casetta di Betlemme, una Tedesca amica dei nostri di Friburgo etc. Irma la infermiera di Barcellona che giá era stata qui due mesi. É tornata per un anno perché “qui ha riincontrato Cristo”
Allora, essendo  molte le richieste (solo per venire a lavoro…peró) abbiamo chiesto ad Andrea Pompa,  la responsabile  delle relazioni pubbiche di essere l ´unico punto di riferimento per tutti coloro che per un motivo o altro chiedeno di venire qui. Ovviamente questo vale per Europa e  USA. Poi i rispettivi direttivi della Fondazione decideranno secondo le esigenza. L´ultima parola spetta a noi Padrí insieme al direttivo responsabile della Fondazione San Rafael. Qui uno viene per lavorare e per imparare un sguardo sulla vita come ripete sempre Cleuza:   “Noi veniamo qui per incontrare questo sguardo, fortificarci nella fede per fare poi un lavoro personale come ci chiede Carron” Lo stesso motivo per cui vado ogni mese o piú in Brasile per stare con loro. Una cosa importante per coloro che vengono, previo quanto detto: obbedire e seguire il responsabile di un ´opera o delle opere. Qui si segue un progetto educativo unitario e chiaro, per cui tutto anche un regalo, deve passare attraverso questo metodo educativo.
 
La mail di Andrea Pompa é: sanrafael.andrea@gmail.com.
 
Grazie di cuore,
I Padri della Comunitá
 
 
PADRE ALDO TRENTO 13 OTTOBRE 2009
Cari amici,  
Grande festa ieri, domenica 11 ottobre nella clinica: battesimi, prime confessioni, prime comunioni, cresime e uno matrimonio. A che cosa serve un ospedale se il malato, il personale non incontra Cristo o non nasce in lui il desiderio dell'infinito? 
Ecco: Miriam, una bella ragazza ammalata di AIDS, anni di carcere, droga a 14 anni, mormona di religione è arrivata la settimana scorsa dal "lager" dove era ricoverata in totale solitudine e abbandono. I  primi giorni sono stati durissimi anche perchè adetta ai psicofarmici. La paziente attesa di un miracolo è accaduta grazie all’affetto pieno di tenerezza di tutti noi. Cosi ieri ha abiurato ai mormoni ed è entrata nella chiesa cattolica.
Guillermina, invece ha sposato il compagno in fin di vita, con cui viveva  da anni. Il "si" pronunciato con fatica dal marito e le lacrime di Guillermina al momento di dire "per tutto il tempo della mia vita" ha commosso tutti, perchè quel "si" voleva affermare che l'amore è eterno e non è legato a una funzione come quella di mettere al mondo i figli. Quel si era a Cristo, di cui il marito moribondo era per Guillermina l'evidenza se non fosse cosi cosa avrebbe servito il loro "si"?  È come se volessero dirci che una persona o è possibile amarla per sempre o non la si ama. Per questo è bellissimo quando mi dicono: "Padre vogliamo sposarci per morire in pace". 
Bellissimo perchè significa che solo nel sacramento del matrimonio il rapporto uomo-donna è pieno di pace quella pace che ha permesso a Guillermina di dire questa mattina: "Padre dopo mesi che non dormivamo, questa notte abbiamo dormito e bene. Lui nella camera dell'ospedale ed io appoggiata con la testa al suo fianco".
Dopo la messa la sorpresa. Celeste, la miracolata, con i suoi amici ammalati di leucemia hanno ballato e cantato manifestando tutta la loro gioia di vivere. Nei loro occhi la certezza "Io sono Tu che mi fai".   
Era di una evidenza commovente e i loro movimenti nel ballo ci ha fatto godere un pezzo di paradiso. 
Si di paradiso perchè dove la coscienza anche se picolissima, di "io sono Tu che mi fai" il cancro, l'AIDS, la leucemia si trasformano in una possibilità anche di ballare.  
Amici, ma capiamo che tutto è positivo, tutto è grazia, e non c'è niente che ci impedisca di riconoscere i segni della Presenza di Cristo fra noi. E questo amici è ciò che qui apprendo ogni istante per cui anche questa settimana, molto dura per me, in cui nessun slancio emotivo ha fatto capolino fra le nubi nere, è stata un motivo di dire ancora più radicalmente "si" a colui che mi fa in ogni istante e di cui sono proprietà.
Ma questo è sconvolgente, perchè questo è il cammino della fede, questo è fare esperienza. 
Guardate la foto dei fatti accaduti ieri 
Grazie. 
P. Aldo


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