domenica 11 ottobre 2009

CIO' CHE DOVREBBE TREMARE NEI NOSTRI OCCHI TUTTI I GIORNI

.....Ma l’esperienza di quest’anno ha portato in primo piano anche il rischio di una superficialità, di una concezione ridotta, sentimentale, di ciò che significa «guardare al testimone». Si rischia di ridurre il testimone a un esempio positivo, qualcuno che mi fa provare un sentimento di esaltazione, o di consolazione precaria, un sentimento che però poi se ne va come è venuto, e perciò rimane una insoddisfazione, la sensazione di essere sempre al punto di partenza......

...La verità non è un pensiero, non è un concetto intellettuale. È una Presenza su cui posso stare piantato, su cui posso poggiare tutto il mio io. Una Presenza che mi permette di non sprofondare come dice il Salmo 40: «Mi ha tratto dal fango della palude, i miei piedi ha stabilito sulla roccia» (Sal 40,3). Il testimone è uno che vive tutto piantato sulla roccia. E per questo ti viene da attaccarti......

......Sapeva che non poteva aiutare nessuno se non metteva in moto l’io di quelle persone, che non bastava quello che lui diceva, non bastava nemmeno il suo essere testimone: era consapevole che poteva aiutare soltanto offrendo un metodo perché i suoi studenti potessero giudicare tutte le cose che diceva. Cioè, fin dall’inizio don Giussani sfida il cuore di quelli che il Signore gli mette davanti. È l’esaltazione della persona: tu sei in grado di giudicare perché c’è questo “pensiero dominante”, questa “torre” in mezzo al “naufragio universale” che ti consente di giudicare, di fare una strada per venire fuori dalla confusione. E aggiunge: «Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita [cioè il desiderio di felicità].......


02/10/2009 - Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia (Fiera Rho-Pero, 26 settembre 2009)
JULIÁN CARRÓN
Coscienti del nostro bisogno, domandiamo allo Spirito che porti a compimento - spalancandolo tutto - quel desiderio che ci ha portato fino qua.
Discendi Santo Spirito
Diamo a tutti il benvenuto e salutiamo i nostri amici che sono in collegamento dalle varie regioni d’Italia e dall’estero.



È un tentativo ironico - come tutto quello che facciamo - fare una Giornata d’inizio in diretta da Milano. Ma perché sia un gesto non basta essere fisicamente presenti; occorre che ciascuno di noi, in ogni posto dove si trova, sia presente con tutto il proprio io, perché quello che accade possa trovare quell’apertura, quella crepa attraverso cui possa entrare la grazia che il Signore vorrà darci.

DAVIDE PROSPERI
Iniziamo il nostro incontro di quest’anno dal punto in cui abbiamo finito quello dell’anno scorso. L’anno scorso ci eravamo concentrati sul testimone, sull’importanza essenziale del testimone, nel cammino che ci porta verso la maturità della fede, verso la certezza della fede. Come ci ha ricordato Carrón nella sua lettera alla Fraternità appena tornato dal Sinodo, il nostro principale contributo alla Chiesa e al mondo non sta innanzitutto in un’azione culturale, civile o politica (questi sono frutti che maturano come e quando Dio vuole), o tanto meno in alcuna forma di egemonia seppur per scopi nobili, ma precisamente in questo: la testimonianza dell’avvenimento che ha investito la nostra vita, e investendola l’ha resa e la rende, giorno per giorno, diversa, più umana, più capace di gratuità, di letizia, così capace di letizia da risultare invidiabile, magari anche a chi per mille ragioni ci ha sempre criticato... L’abbiamo visto bene al Meeting. Una delle cose che ha colpito maggiormente chi arrivava lì per la prima volta è stata la passione e la gratuità dei “volontari”- volontari che sono lì dando il proprio tempo e le proprie energie, addirittura pagando, per poter contribuire a questo gesto che esprime anche a livello culturale il cuore, la capacità, appunto, espressiva della nostra esperienza -, un fatto inspiegabile con le solite categorie con cui siamo abituati a concepire le cose di ogni giorno. Permettetemi di citare l’editoriale apparso su Il Tempo a firma Roberto Arditti: racconta di essere andato al Meeting scettico per una antica avversione al movimento di Cl «nata e cresciuta negli anni studenteschi. Una giornata a Rimini - dice - mi ha costretto a cambiare radicalmente idea». Davanti a quello che ha visto, si domanda: «Il mondo laico di fine XX secolo cosa ha lasciato ai più giovani? Quale forza “utile” abbiamo saputo costruire? Non trovo risposte convincenti a queste domande, mentre invece i ragazzi del Meeting sono liberi e forti (senza mitizzarli, per carità). Alle undici di sera torno al parcheggio per riprendere l’automobile. C’è una ragazza, seduta da sola su una piccola seggiola di plastica. Mi saluta sorridente e mi accompagna alla macchina. È addetta (volontaria) al parcheggio, capirai che privilegio. Sta lì, con la sua maglietta del Meeting, contenta di quello che fa. E sorride a una persona che incontra per pochi secondi. La sera precedente ero a cena al Billionaire [è uno dei club estivi più esclusivi d’Europa]. Nessuno sorrideva come quella ragazza al parcheggio». Mi riferisco anche a coloro che sono venuti a Rimini a misurarsi con grande lealtà con la proposta che era stata fatta loro, dando coraggiosa testimonianza di come l’avvenimento cristiano diventa un giudizio culturale nuovo, come ci hanno mostrato, ad esempio, Tony Blair e Mary Ann Glendon, per citarne due. E questo perché il testimone non indica solo un modo di fare le cose, ma una concezione nuova della realtà e del proprio rapporto con essa.
Ma l’esperienza di quest’anno ha portato in primo piano anche il rischio di una superficialità, di una concezione ridotta, sentimentale, di ciò che significa «guardare al testimone». Si rischia di ridurre il testimone a un esempio positivo, qualcuno che mi fa provare un sentimento di esaltazione, o di consolazione precaria, un sentimento che però poi se ne va come è venuto, e perciò rimane una insoddisfazione, la sensazione di essere sempre al punto di partenza. E invece il testimone, letteralmente, chi è? Quest’anno spesso ci siamo fatti questa domanda. Il testimone, in senso stretto, è uno che mi racconta un fatto vero, di cui è sicuro perché lo ha visto, ne ha fatto esperienza. Il testimone è uno che mi attesta che il fatto di Cristo è vero, perché ne ha fatto esperienza, lo sa per esperienza, ne è certo perché questo fatto ha cambiato la sua vita ed è presente qui e ora, sempre, come dice il titolo del nuovo libro delle Equipe (Qui e ora. 1984-1985, Bur, Milano 2009). Quindi il testimone è uno che conosce la Verità. Ed è questo che lo rende un soggetto diverso: il fatto che si poggia su ciò che è solido, sull’unico che ha vinto la morte. Mi ha sempre colpito l’insistenza di Giussani sul fatto che nella Bibbia l’idea di verità è espressa attraverso l’immagine della roccia. La verità non è un pensiero, non è un concetto intellettuale. È una Presenza su cui posso stare piantato, su cui posso poggiare tutto il mio io. Una Presenza che mi permette di non sprofondare come dice il Salmo 40: «Mi ha tratto dal fango della palude, i miei piedi ha stabilito sulla roccia» (Sal 40,3). Il testimone è uno che vive tutto piantato sulla roccia. E per questo ti viene da attaccarti.Ma qui sorge, allora, una prima domanda: se il testimone è quello che abbiamo detto, perché in noi la certezza rimane così debole, pur essendo circondati da tanti testimoni? Questa estate hai cominciato a insistere sul fatto che il testimone non basta. Allora, qual è il passo da fare, dove ci blocchiamo?
Tante volte è come se ci fermassimo, per comodità o, in fondo, per disistima di sé, alla vibrazione per la bellezza degli effetti del fatto, cioè alla vibrazione per la bellezza dei frutti che l’appartenenza a Cristo porta in alcuni momenti o in alcune persone. Ci fermiamo al godimento del fascino dell’umanità di alcuni, senza che questo inneschi - come dire? - un ardore, un desiderio, e perciò un lavoro, un cammino, insomma un movimento verso l’origine nascosta di quella diversità umana.
Questa estate alcuni di noi hanno visto il filmato di don Giussani su Leopardi (all’Assemblea Internazionale Responsabili di Cl - La Thuile, 18-22 agosto 2009 - è stata proiettata la ripresa amatoriale di un incontro con gli studenti universitari del Politecnico di Milano del 1996; ndr). Davanti a questo, personalmente sono rimasto senza parole, rapito da quel modo di sentire, di guardare e sentire l’umano. Ma dopo due giorni, mi sono reso conto che non ci pensavo già più. Ecco: è come se ci fosse continuamente il rischio di fermarsi a un riverbero sentimentale, estetico, anche di fronte alla più grande testimonianza, mentre capisco che il passaggio a cui tu ci stai instancabilmente chiamando è verso un altro livello per cui qualcosa di quegli occhi, di quel modo con cui Giussani parlava dell’umano, entri nel modo in cui noi facciamo tutte le cose, in cui vado al lavoro la mattina, in cui mi ritrovo con gli amici, in cui saluto i miei figli e mia moglie tornando a casa la sera. Come quello che deve avere visto il direttore de Il Tempo in quella ragazza al parcheggio del Meeting. Altrimenti, pur circondato da una moltitudine di testimoni, rimango risucchiato nella confusione, né più né meno di chi non ha fatto il mio incontro.
Ecco perciò la seconda domanda, che in un certo senso contiene la prima: cosa è che vince la confusione?

JULIÁN CARRÓN
1. LA VITTORIA SULLA CONFUSIONE È UN’ESPERIENZALa confusione la vince un’esperienza, e quello che caratterizza l’esperienza è il giudizio, non - come tante volte vediamo in noi - il riverbero sentimentale che mi provocano le cose. È il giudizio che rende esperienza una cosa che si fa. Per questo don Giussani ci ha testimoniato costantemente che se non vogliamo soccombere alla confusione, «se si vuole diventare adulti - diceva - senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati», dobbiamo abituarci «a paragonare tutto con l’esperienza elementare», con quell’insieme di esigenze e di evidenze che costituiscono il nostro io. Ma don Giussani è ben consapevole che quello che propone è «un compito non facile e impopolare. Di norma infatti tutto viene affrontato secondo una mentalità comune: sostenuta, propagandata da chi nella società detiene il potere. Cosicché [attenzione!] la tradizione familiare, o la tradizione del più vasto contesto in cui si è cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera l’evidenza di quei significati primi, di quei criteri» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 13) che costituiscono quelle esigenze. E noi di questo dobbiamo essere consapevoli, perché poi quello che noi chiamiamo “cuore” non è altro che queste sedimentazioni, espressioni della mentalità di tutti; e per questo tante volte ci troviamo, come tutti, smarriti, confusi (basta guardarci in giro). Don Giussani - amici - era ben consapevole di che razza di sfida ci lancia: «La sfida più audace a quella mentalità che ci domina [attenzione!] e che incide in noi per ogni cosa - dalla vita dello spirito al vestito - è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime, e non alla mercè di più occasionali reazioni [appunto: al riverbero sentimentale delle cose]» (Ibidem, p. 14). Perciò, se noi vogliamo realmente vincere questa confusione, dobbiamo decidere se accettare questa sfida di rendere abituale il giudizio. «L’uso dell’esperienza elementare, o del proprio “cuore”, è dunque impopolare soprattutto di fronte a se stessi, poiché quel “cuore” appunto è l’origine dell’indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggetto di interesse o di piacere» (Ivi). È impopolare davanti a noi stessi: è più facile ripetere quello che dicono tutti, non fare i conti con quell’indefinibile disagio che ci troviamo addosso. Giudicare è l’inizio della liberazione dalla confusione. Ma perché è impopolare? Risponde: «Il ricupero dell’esistenziale profondo [di quel profondo che è sotto tutta questa incrostazione], che permette questa liberazione, non può evitare la fatica di andare controcorrente. Si potrebbe chiamare lavoro ascetico, dove con la parola ascesi si indica l’opera dell’uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino. È un lavoro, e non è un lavoro ovvio [come invece pensiamo tante volte]; è qualcosa di semplice, ma non scontato [per niente!]. Quanto finora detto è da riconquistare, ma viviamo in un’epoca in cui l’esigenza di tale riconquista è più chiara che mai, benché in ogni tempo l’uomo abbia dovuto lavorare per riconquistare se stesso. In termini cristiani questa fatica fa parte della “metanoia”, o conversione» (Ibidem, pp. 14-15).
Che impressione rileggere queste pagine nel contesto attuale in cui ci troviamo! Niente descrive meglio ciò che ci capita. È difficile trovare parole più pertinenti rispetto a questa confusione.
Ma qual è la difficoltà, amici? Che quello che don Giussani ci propone, giudicare, per noi è qualcosa che sentiamo come appiccicato, intellettuale, solo per persone che si complicano la vita. In realtà - pensiamo - vivere è un’altra cosa, fare esperienza è altro, giudicare è solo per tipi complicati o confusi. E perciò non lo prendiamo neanche in considerazione, non ci prendiamo neanche la briga di accettare la sfida e affermiamo: «Ma cosa stiamo a dire! Giudicare? Ma va’ là... Ma siamo seri!».
Il più grande scoglio che abbiamo di fronte alla proposta del carisma - e questo ci capita da anni, è da anni che ce lo abbiamo davanti agli occhi - è capire qual è il problema, riconoscere qual è la questione. Ricordiamo sempre la frase di Chesterton dedicata a noi che siamo sapienti: «Il male non è che i sapienti non vedono la risposta, ma che non vedono l’enigma» (G.K. Chesterton, Ortodossia, Edizioni Martello, Milano 1988, p. 49). Non capiamo di che cosa si tratta, e così ci troviamo descritti benissimo nella frase di Barbara Ward citata ne Il senso religioso: «Gli uomini raramente imparano ciò che credono già di sapere» (pp. 129-130).
Perciò non si tratta prima di tutto di un problema di contenuto, ma di accorgersi di una difficoltà che ci portiamo addosso, di cui subiamo le conseguenze: è come se non riuscissimo a capire l’origine di questo disagio, di questa confusione che ci troviamo addosso, di questa difficoltà a stare nel reale, a vivere nelle circostanze. E perciò, da una parte, ripetiamo dei gesti e, dall’altra parte, subiamo la quotidianità che schiaccia. Vi leggo una lettera: «Don Giussani ha detto, e tu l’hai più volte ricordato, che le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama, e questo è qualcosa di dirompente e appagante nel nostro vivere distratto e affrettato. Eppure io, dopo anni e anni di movimento, faccio fatica a vivere il quotidiano [grazie a Dio, dico io, perché noi possiamo nella nostra testa fare tutti i nostri castelli, ma c’è sempre qualcosa che non torna]: le piccole cose, la semplicità di un gesto usuale con i miei figli, il gioire di un consueto momento in famiglia, sono sempre da me vissuti come un di meno, come se la cosa più importante di quel momento fosse altro (l’incontro di Scuola di comunità, l’assemblea di Tizio o Caio, partecipare alle Tende di Natale, oppure dare la disponibilità per la Colletta alimentare), e mi accorgo che così facendo vivo un’altra realtà, quasi sfuggendo le circostanze che ogni giorno mi sono date da vivere».
Quando leggo queste cose mi viene da piangere. Che tutto quanto facciamo per il movimento non ci serva per vivere il quotidiano… Ma allora a che cosa serve il movimento? Per questo si capisce quanta ragione aveva don Giussani quando ci spingeva a passare «da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale» (Qui e ora. 1984-1985, Bur, Milano 2009, p. 320): infatti il gruppo, appartenere soltanto al gruppo, non basta perché il quotidiano non diventi insopportabile. E per questo proponeva come formula: «Passiamo dal fare il movimento all’esperienza del movimento» (Certi di alcune grandi cose. 1979-1981, Bur, Milano 2007, p. 149).
Allora, qual è il problema? È una mancanza di esperienza, cioè di giudizio; ma a noi questo sembra strano, esagerato, perché pensiamo di fare esperienza, ne parliamo sempre, ma confondiamo l’esperienza con ciò che esperienza non è, pensiamo di giudicare, ma il più delle volte ci fermiamo molto prima che il giudizio sia veramente compiuto, ci accontentiamo della reazione o del pregiudizio.
L’esempio più palese è quello che ci capita tante volte con il testimone, perché non è che il testimone sfugga a questo modo di vivere il rapporto con il reale, anche il più grande testimone - come diceva prima Davide - lo possiamo ridurre al riverbero sentimentale, e due giorni dopo ci troviamo daccapo: perché non basta l’esperienza che ha fatto un altro. Il testimone ci mostra una reale possibilità, più umana, di vivere le circostanze in cui siamo chiamati a vivere, ma se questo non ci spinge a fare noi stessi esperienza personale di ciò che il testimone ci mostra, prima o poi il testimone non mi interessa più - mi stufo di tante testimonianze -, perché non diventa mai mio. Per questo, ci ha sempre detto don Giussani, «se ciò che intuisco o presento come valore attraverso una testimonianza, la testimonianza di un altro, io non mi impegno a verificarlo, presto o tardi me ne vado» (cfr. Ibidem, p. 158); se non lo vedo riaccadere in me, nel tempo non mi interessa. E faceva questo esempio: «Uno, a sessant’anni, può avere provato tutto il provabile, ma non per questo è necessariamente una persona “sperimentata”; [che ha fatto veramente un’esperienza, perché] l’esperienza è la capacità di paragone con l’ideale. Altrimenti [attenzione!] non si fa esperienza di niente, si ha il caratteristico atteggiamento di tanti vecchi, pieni di vuoto, di niente» (Ibidem, p. 148).
Questo è il destino, se noi proviamo, proviamo, proviamo… senza fare realmente un’esperienza: diventeremo vecchi vuoti. Per questo insisteva nel passaggio dal fare il movimento all’esperienza del movimento, quello che chiama “personalizzazione”. E la chiave di volta di questo passaggio è il giudizio - quello che noi consideriamo appiccicato, estraneo all’esperienza -, perché è il giudizio che rende esperienza una cosa che si fa.

2. LE RIDUZIONI DELL’ESPERIENZAAiutiamoci a capire quali sono le riduzioni dell’esperienza che di solito noi operiamo.
Il guaio è che noi fatichiamo a fare veramente esperienza, e lo si vede dalla confusione. La confusione evidenzia proprio la riduzione che operiamo nell’esperienza, riduzione che è grave, molto grave. Perché è molto grave? Perché indebolisce e vanifica il metodo fondamentale dello sviluppo umano. Perché è questo che Giussani considera esperienza: l’esperienza non è una parola da dire a vanvera, l’esperienza è la strada dello sviluppo della persona, è lo strumento che noi abbiamo nelle nostre mani per il nostro sviluppo, per la nostra crescita. Perciò se noi lo usiamo male o lo riduciamo, tutto quello che capita nella vita è inutile (come ho ricordato al Meeting, citando i Galati), è sterile, non serve, non incrementa il nostro io, non sviluppa la nostra persona, e si può diventare vecchi vuoti pur avendo vissuto tante cose, perché non si è fatta veramente esperienza.
E come viene ridotta questa esperienza? Tante volte per noi l’esperienza è ridotta semplicemente all’impatto che le cose mi provocano. Raccontiamo dei fatti, ma rimane tutto lì, e dopo non resta niente. Questo capita perché generalmente anche da noi l’esperienza è identificata soltanto con l’impatto che le cose mi provocano, con le impressioni avute, che sono tutte reali - non è che usiamo parole a vanvera: no, raccontiamo dei fatti, partiamo da cose reali -, ma sono soltanto impressioni. L’esperienza, perciò, è cieca, meccanica. Quello che noi chiamiamo esperienza spesso non è altro che mero provare, mera sensazione, senza intelligenza, senza giudizio; oppure è soggettiva, in senso deteriore, cioè qualcosa di sentimentale. Don Giussani questo ce lo ha descritto con tutti i tratti: «Di qui tante inadeguate, anche se frequenti, accezioni della parola esperienza [ridotta]: dove cioè per esperienza s’intende [ascoltate l’elenco che segue, in cui ognuno di noi è radiografato] reazione immediata a cose proposte, o il moltiplicarsi di legami per mera prolificazione di iniziative, o l’improvviso fascino o disgusto delle cose nuove, o l’affermazione di una propria elaborazione o di un proprio schema, o un ricordo del passato che non rivive come valore del presente, o addirittura un avvenimento citato per bloccare un’aspirazione o per mortificare ideali» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 129).
E così don Giussani ci aiuta a capire come noi tante volte operiamo questa riduzione: «Senza una capacità di valutazione infatti l’uomo non può fare alcuna esperienza. [...] L’esperienza coincide, certo, col “provare” qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che si prova» (Il senso religioso, op. cit., p. 7). Perciò questa estate ho detto: «L’incomprensione della parola “esperienza” è resa evidente dal modo in cui siamo soliti opporla a “giudizio” (o “conoscenza”): dove c’è l’una non c’è l’altro, sono alternativi. È il segno più chiaro che si è confusi sull’uno e sull’altro termine. Per questo tante volte, se per noi l’esperienza è ridotta a questa sorta di impatto, di shock meccanico, il giudizio ci sembra qualcosa di intellettuale, quasi appiccicato. E proprio per questo tante volte sentiamo il giudizio come una forzatura, come qualcosa che noi imponiamo al reale, che creiamo noi [...]: ma se dobbiamo giudicare anche le cose belle, le cose intense, questo rovina l’incantesimo di quello che viviamo, in qualche misura “spoetizza” l’esperienza, quasi ce la rovinasse. Perciò quando le cose sono state interessanti, belle, persuasive, che bisogno c’è di giudicarle? Ce la siamo goduta. Perciò tante volte [...] l’istigazione a giudicare che ci rivolgiamo sembra quella del rompiscatole. Insomma, viviamo una cosa bella e dobbiamo anche giudicarla? Cioè, ci sembra di compiere una operazione artificiosa e faticosa» (Esperienza: lo strumento per un cammino umano, Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione, La Thuile, agosto 2009, suppl. a Tracce, n. 8/2009, pp. 11-12). Se possiamo risparmiarcela, meglio.
Che cosa ci perdiamo? La risposta a questa domanda ci dice fino a che punto facciamo fatica a capire. Perché il punto cruciale è proprio questo: che - facendo questa esperienza così ridotta, “godendocela” e non sentendo il bisogno di giudicarla - a noi sembra che non ci manchi niente. Il vero guaio è che a noi sembra che non ci manchi niente! È una riduzione dell’umano da far compassione! Tutto diventa formalismo, superficialità, conformismo. Come i nove lebbrosi, che abbiamo citato altre volte: non si domandano niente, non manca loro più niente, non sentono l’urgenza d’altro. Che noi sentiamo estraneo il giudizio vuol dire che a noi non ci manca più niente, e questo dice fino a che punto la riduzione dell’umano è spaventosa! Perché non giudicare è perdere il meglio, è fermarsi prima di arrivare a quello che davvero mi interessa; ma in noi non ne sentiamo la mancanza, ci sembra qualcosa per “intellettuali”.
E allora colpisce che la cosa più nostra (che più dovrebbe essere nostra), cioè il desiderio di pienezza davanti al reale, sia la cosa a noi più estranea. Che separazione da noi stessi! Siamo impopolari a noi stessi, come dice don Giussani nel passaggio che ho citato. Ma che cosa succede quando ci svegliamo dal sogno? Dopo che passa il “godimento” che cosa resta? Noi, soli, con il nostro niente, sempre più smarriti, sempre più scettici. Capite perché la confusione cresce?
Ma che differenza, che differenza con ciò che don Giussani ci ha testimoniato - lo ricordava prima Davide - leggendo Giacomo Leopardi. Perché è impossibile che uno veda quella umanità e non desideri quello sguardo, non desideri partecipare a quella modalità di rapportarsi al reale; perché quello che vediamo in quel video è un uomo, testimone di come si può stare davanti al reale e leggere Leopardi in modo tale da scoprire, da testimoniare quel «Misterio eterno / Dell’esser nostro» («Sopra il ritratto di una bella donna…», in Cara beltà, Bur, Milano 1996, p. 96), cioè quello che noi siamo. E qual è questo mistero? «Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?» (Ibidem, p. 97). Tu, essendo così fragile, hai desideri così grandi. Ma questi desideri - diciamo tante volte - non ci sono, è come se tutto venisse meno. Don Giussani - ed è impressionante sentirlo mentre brandisce Leopardi - dice: neanche un po’, no, questo è il pensiero dominante: «Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente» («Il pensiero dominante», in Ibidem, p. 77). Questo grido, questa esigenza di felicità, riemerge dal naufragio universale, perché «l’infinita vanità del tutto» («A se stesso», in Ibidem, p. 84) non riesce a togliere il seme di questo pensiero dominante, di questa sete, di questa passione per la felicità: «Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei» («Il pensiero dominante», in Ibidem, pp. 77-78). Possiamo trovarci in mezzo a questo naufragio universale e a questa confusione totale, ma il pensiero dominante implacabilmente riemerge. Puoi essere confuso quanto vuoi, ma quando qualcuno ti fa una ingiustizia riemerge tutta l’esigenza di giustizia; puoi essere stanco quanto vuoi, ma davanti alla bellezza non puoi evitare che venga fuori tutto lo stupore. E ciò che chiamiamo cuore, questo pensiero dominante, è una realtà «dimenticabile, mistificabile, obiettabile, ma inestirpabile» (Uomini senza patria. 1982-1983, Bur, Milano 2008, p. 256). È di questo che don Giussani è testimone: di questa lealtà con l’esperienza, che trova un compagno in uno come Leopardi. In mezzo al disastro c’è questa realtà inestirpabile che si erge impetuosa, grandiosa. Se qualche volta noi seguissimo questo…
Il testimone è uno che usa la ragione così, che ha questa lealtà con se stesso, che è definito da questo pensiero dominante, e perciò non può entrare in rapporto con alcuna cosa senza che gli venga il desiderio di tutto. E questo è il giudizio. È con questa umanità che occorre paragonare tutto, è questa esigenza che viene fuori nel rapporto con tutto, ma occorre la lealtà che vediamo in Giussani e in Leopardi: solo uno che prende sul serio questo pensiero dominante, questa esigenza che è dentro le viscere di ciascuno di noi, che viene fuori nel rapporto con tutto e che non si accontenta di meno di questa esigenza di tutto, può capire veramente che cosa è l’esperienza.

3. L’IMPLICAZIONE ULTIMA DELL’ESPERIENZA UMANA
«Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose» (Il rischio educativo, op. cit., p. 127). E quando le capisco? Quando do ragione di tutti i fattori implicati nell’esperienza. Quando diciamo che giudicare è artificioso, diciamo qualcosa che è contraddetto dalla nostra stessa esperienza. Occorre guardare questa esperienza semplice che facciamo davanti al reale, davanti alle montagne, davanti al canto, per riconoscere come lì appare subito, in contemporanea, il giudizio: «Sono belle». E qualcuno dice che è artificioso... Gli artificiosi siamo noi che non ci rendiamo conto veramente di quello che succede quando facciamo esperienza.
È capitato più volte questa estate durante le gite - mi raccontavano alcuni universitari - che, vedendo ottocento persone salire in silenzio, i turisti chiedessero: «Ma voi chi siete?». In uno di questi episodi, a un certo punto capita una coppia di sposi: «Chi siete?», domandano. «Universitari». «Sì, ma chi siete? Da dove venite?». «Da La Thuile». «D’accordo, ma da dove venite?». «Milano», «Palermo»… «No, no, no: chi siete, da dove venite?». «Siamo di Comunione e Liberazione». «Ah! È una meraviglia vedervi salire». È artificiosa questa insistenza accanita fino all’origine, è un’aggiunta? O sono persone che non arrestano il loro umano davanti alla provocazione del reale, leali con quella provocazione? Tanto è vero che i ragazzi sono rimasti colpiti da questa lealtà: «Anche in noi abbiamo sorpreso questa domanda, una domanda sull’origine ultima di ciò che avevamo di fronte, che sarebbe stato artificioso bloccare prima di giungere a una risposta adeguata».
Altri due amici mi scrivono l’esperienza delle loro vacanze: «Volevamo raccontarti un episodio accaduto l’ultimo giorno delle nostre vacanze, proprio mentre stavamo preparando le valigie. Facciamo una premessa: durante il soggiorno eravamo con amici in un residence in cui ciascuno aveva il proprio monolocale, ma a pranzo e a cena abbiamo sempre mangiato insieme, oltre ovviamente a condividere tutta la giornata. A fianco dei nostri appartamenti c’era quello di due signori, marito e moglie, toscani, sulla sessantina (che spesso vedevano il nostro via-vai da un monolocale all’altro con in braccio il proprio figlio o quello di qualcun altro), il cui tavolino affiancava sempre ogni pranzo e cena la nostra tavolata di otto adulti e tre bambini nel giardino antistante la loro abitazione. Il giorno della nostra partenza il signore toscano si è avvicinato a Ciccio, uno dei nostri amici, e gli ha detto: “Ti faccio una domanda e tu devi darmi una risposta precisa. Vi abbiamo osservato molto in questi giorni, abbiamo visto come mangiate insieme, come pregate, come state con i vostri figli, ma al di là della vostra amicizia (forse siete colleghi di lavoro, ma non mi sembra sufficiente a spiegarlo) qual è il filo conduttore che vi unisce?”. Ciccio gli ha risposto che siamo del movimento, che siamo cristiani e che questo è quello che ha unito le nostre vite e ci ha reso amici. Lui ha risposto: “Lo sapevo!”, e ha spiegato che a Pistoia dove lui abita ha avuto modo di incontrare gente del movimento, e che anche lui è cattolico, e poi ci ha ringraziato per la compagnia che abbiamo fatto a lui e a sua moglie e ci ha detto: “Siete uno spettacolo!”». Non c’è esperienza fin quando non si arriva a capire. Ma per capire occorre non fermarsi fino a quando non si trova una risposta esauriente a quello che si vede: amici insieme in un modo così diverso. E allora scatta la domanda: «Ma qual è il filo conduttore che vi unisce?». È una cosa da uomini, basta un uomo vibrante di umanità. Prosegue la lettera: «Quando Ciccio ci ha raccontato questo dialogo, ci siamo commossi di quella commozione di cui parla la Rose, del vedere il Mistero accadere, operare. Ci ha molto colpito l’uso della ragione di questo uomo che, guardandoci, si è lasciato stupire e soprattutto interrogare; ha osservato il nostro semplice stare insieme (mangiare, discutere a tavola, pregare) e ha visto qualcosa di diverso che l’ha colpito, ma non si è fermato a questo sentimento di stupore, si è posto la domanda: da dove verrà questo modo di essere amici? Quale può essere il filo conduttore che li lega? Ha provato a cercare una spiegazione, e quando si è reso conto che nessun suo tentativo di risposta poteva bastare a rendere pienamente ragione di quella diversità, è venuto direttamente da noi e ha chiesto di avere una risposta precisa».
È semplice: questo è un io impegnato in ciò che prova. Questa esigenza di capire, chi di noi la sente come strana, appiccicata alla bellezza dell’esperienza, che ne rovina l’incantesimo? Domandarsi per capire fa parte dell’esperienza che faccio, altrimenti l’esperienza è incompiuta, non riesco a capire, a cogliere tutto quello che vedo davanti a me! Per questo uno che ha questa umanità non sente il giudizio come artificioso o estraneo.
Facciamo l’esempio che ci ha fatto tante volte don Giussani, elementare nella sua
semplicità, per smontare una volta per tutte questa idea che il giudizio sia qualcosa di artificioso: chi sente come artificioso, davanti a un mazzo di fiori, domandarsi chi ce l’ha inviato? Non è che questa domanda rovini alcunché: fa parte, in contemporanea, del contraccolpo dei fiori che trovo a casa il domandare chi me li ha mandati. Qualcuno sente il domandarsi l’origine ultima della presenza di quei fiori come intellettuale? Ciascuno può rispondere per sé. Il “chi” è l’implicazione ultima di quei fiori che ho davanti. Basta soltanto non essere un sasso! Non occorre fare nessun percorso strano: basta semplicemente accusare il contraccolpo, perché nel contraccolpo è già dentro tutta l’implicazione.
Per questo don Giussani ci dice che non c’è esperienza fin quando uno non riconosce «Dio come l’ultima implicazione della umana esperienza, e quindi la religiosità come dimensione inevitabile di autentica, esauriente esperienza» (Ibidem, p. 129). Facciamo il paragone tra quello che noi chiamiamo “esperienza” e questa affermazione, e ci renderemo conto fino a che punto la riduciamo...
È così semplice che ho scelto come titolo del nostro incontro questa frase di Leopardi: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà» («Aspasia», in Cara beltà, op. cit., p. 86). È così semplice che Leopardi non può evitare che nel contraccolpo della bellezza della donna che ama scopra il raggio divino. Questa è l’esperienza nella sua semplicità: la bellezza della donna conduce Leopardi a riconoscervi dentro il raggio divino. È esattamente quel che intendiamo quando diciamo che non c’è vera esperienza che non abbia dentro il Mistero, che non implichi il Mistero come spiegazione esauriente. Ma questo Leopardi lo dice perché deve fare l’intellettuale? Leopardi non poteva vivere la propria esperienza del rapporto con la bellezza della donna senza che questo lo rimandasse al Mistero, gli facesse percepire il raggio divino. Ma occorre un uomo come Leopardi per questo, occorre cioè una lealtà con quel pensiero dominante che riemerge costantemente nel naufragio universale per non fermarsi prima.
Questa immediatezza noi non l’abbiamo, facciamo fatica, perché, come abbiamo spiegato altre volte, sopra le nostre esigenze elementari c’è questa incrostazione, e solo se ci lavoriamo possiamo venirne fuori. Abbiamo visto quanta fatica ci occorre per arrivare a descrivere l’esperienza nella sua totalità (questa estate abbiamo fatto esperienza di questo nei gesti insieme). Ma è quello che don Giussani ci ha sempre detto: che uno che dice “io” con tutta la consapevolezza, con tutta l’autocoscienza di sé, non può evitare di implicare il Tu che lo fa: «Io sono “tu-che-mi-fai”» (Il senso religioso, op. cit., p. 146), questa è la formula dell’esperienza completa. «Allora non dico: “Io sono” consapevolmente, secondo la totalità della mia statura d’uomo, se non identificandolo con “Io sono fatto”» (Ibidem, p. 148). E per capire fino a che punto noi siamo lontani da questo basta rilevare quante volte diciamo: «Io sono» senza questa autocoscienza.
Senza la percezione e il riconoscimento del Mistero come fattore della realtà non c’è esperienza, di qualunque cosa si tratti; e questo ci rende consapevoli dell’handicap che abbiamo, il quale rende arduo, difficile, non scontato il percorso della ragione fino al Tu, a quell’ultima implicazione dell’umana esperienza che si trova già dentro. Non occorre aggiungerLo. Come ci ha insegnato Giussani con l’immagine degli scalatori: siamo «come gli scalatori di cento anni fa che [per salire in vetta] dovevano affrontare la lunga marcia di avvicinamento» (Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, p. 36). Possiamo farcela solamente se sentiamo urgere dentro di noi quell’esigenza di spiegazione totale che solo il Mistero può compiere
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4. TEST DELL’ESPERIENZA: L’ACCORGERSI DI CRESCERE
Ma noi, dopo tanti anni di movimento, vediamo ancora la fatica che facciamo, e questo si rende evidente in tante occasioni. A me è capitato, per esempio, di vederlo clamorosamente durante l’assemblea all’Equipe con gli universitari questa estate, quando cercavamo di capire veramente fino in fondo che cosa sia l’esperienza; almeno in tre occasioni durante l’assemblea hanno dato la risposta giusta, ma quando chiedevo loro di ripetere, non ci riuscivano: lo avevano detto per caso. Ecco perché - e questo è decisivo per noi, perché noi diciamo tante volte cose vere, ma non ce ne accorgiamo - don Giussani insiste: «L’“esperienza” connota perciò il fatto dell’accorgersi di crescere» (Il rischio educativo, op. cit., p. 126). Se noi non ci accorgiamo di questo, anche se tante volte lo diciamo, noi - come diceva prima Davide - ripartiamo sempre da capo. Si vede che non facciamo esperienza perché l’esperienza non ci fa crescere nell’autocoscienza. E allora ritorniamo nella confusione.Mi stupisce con che chiarezza, con che evidenza don Giussani identifica tutti i fattori dell’esperienza, e ci può adesso accompagnare. Ma tante volte noi ci diciamo: «Ma sì, io lo so», siccome abbiamo sentito tante volte queste cose e le ripetiamo, ci sembrano già sapute. Io lo capisco benissimo, perché è quello che è capitato a me: io pensavo di sapere certe cose, e perciò la decisione più grande della mia vita è stata accettare di incominciare a capire quello che pensavo di sapere, a imparare quello che pensavo di sapere. Non sto rimproverando niente a nessuno, perché lo so benissimo per la mia esperienza qual è il problema, lo so bene: io ripetevo tutte le parole giuste, ma poi nel reale non ci stavo. Invece quello che mi ha fatto fare una strada è proprio accettare di ricominciare. E questo don Giussani l’aveva chiaro. Mi stupisce rileggere quello che lui dice della sua prima ora di lezione: «Fino dalla prima ora di scuola ho sempre detto: “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato: duemila anni”» (Ibidem, p. 20). Sapeva che non poteva aiutare nessuno se non metteva in moto l’io di quelle persone, che non bastava quello che lui diceva, non bastava nemmeno il suo essere testimone: era consapevole che poteva aiutare soltanto offrendo un metodo perché i suoi studenti potessero giudicare tutte le cose che diceva. Cioè, fin dall’inizio don Giussani sfida il cuore di quelli che il Signore gli mette davanti. È l’esaltazione della persona: tu sei in grado di giudicare perché c’è questo “pensiero dominante”, questa “torre” in mezzo al “naufragio universale” che ti consente di giudicare, di fare una strada per venire fuori dalla confusione. E aggiunge: «Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita [cioè il desiderio di felicità]. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente [di ciascuno], confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe [...] in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto» (Ibidem, p. 20). Prima ora di lezione!

5. ESPERIENZA CRISTIANA
Questo che lui descrive dell’esperienza in generale, capita ancora più eminentemente nell’esperienza cristiana. Perché è ancora più facile nell’esperienza cristiana? Ce lo ha detto sempre: perché quanto più è eccezionale la presenza che incontro, più facile è riconoscerla. Quanto più belle sono le montagne, più facile è per noi riconoscerLo, quanto più bella è la donna di cui m’innamoro, più facile è riconoscerLo. L’esigenza viene fuori più facilmente, ti prende di più, ti afferra di più, è talmente imponente che ci stupiamo davanti ai fatti eccezionali. Possiamo essere distratti, ma davanti a certe cose è impossibile non sussultare, non chiedersi Chi le renda possibili. Questo è universale, l’ho presentito andando in Brasile, quando una ragazza metodista, Natalia, in un’assemblea ha detto: «Questo mese la domanda che ci eravamo dati era: incontrare qualcosa che corrisponda al proprio cuore. Io ho incontrato veramente qualcosa che corrispondeva al mio cuore, sono queste persone dell’Associazione di Cleuza e Marcos, perché per quanto possa sembrare incredibile viviamo in un’epoca in cui se voi dite che siete cattolici, gli evangelici si defilano, se ne vanno, se dico che sono evangelica, sono i cattolici a defilarsi. Sono venuta qui e ho detto a che religione appartenevo. Poi, tornando a casa, ho pensato: mi rendo conto di ciò che quel che ho detto provocherà nella mia vita? Ma è successo il contrario di quello che pensavo, perché quando sono arrivata qui tutti mi sorridevano, le persone mi domandavano se andava tutto bene. Non ho capito, ma ho risposto: “Tutto bene”. E poi arrivava un altro e diceva: “Stai bene? Come stai?”. E ho cominciato a capire che cosa è Dio, che cosa è la fede in Dio: in nessun altro luogo mi sono mai sentita tanto accolta, tanto amata come qua. In tanti anni di vita non mi sono mai sentita così rispettata». Per dare ragione dell’esperienza di essere così rispettata e così amata, Natalia deve implicare il divino, tanto è straordinaria.
Solo se accettiamo questa implicazione ultima in ogni esperienza, possiamo vincere la confusione. Il contributo che ci dà don Giussani testimoniandoci che Dio è l’implicazione ultima dell’esperienza è la risposta più adeguata alla domanda. Ma noi tante volte vedendo i fatti eccezionali rimaniamo nella confusione perché blocchiamo quella esigenza che viene fuori, la domanda inevitabile su Chi renda possibile tutta questa bellezza. Guardate come lo descrive, come ce lo testimonia: «L’incontro - da cui parte l’immagine persuasiva di Cristo, in cui si intuisce che Cristo è qualche cosa che è pertinente alla vita, che interessa la vita - è con una compagnia o anche con una sola persona, non in quanto tu capisci che lì c’è dentro Cristo, ma in quanto ti fa dire: “Ma come mai son così questi qui?”. [...] Dunque, tu incominci questa strada trovando un compagno, una compagna, oppure vedendo un gruppetto, che ha qualcosa di interessante e gli vai dietro. E senti questi qui che dicono che quello che d’interessante hanno è perché “C’è il Signore”; e gli vai dietro un po’ incuriosita, ma senza essere definita da quella cosa lì, senza essere determinata da quella cosa lì. A un certo punto, però, questo richiamo ingrossa, [...] sei colpita di più da quell’idea, da quella parola; e sei più colpita dal fatto che la gente ti dice: “Guarda che noi siamo insieme per quello lì [il Signore]”. Questo è un salto qualitativo rispetto all’impressione iniziale; allora tu incominci a prendere sul serio quello lì: [...] più tu segui con continuità questa evoluzione, tanto più Gesù diventa più importante delle facce messe insieme [questo è il nocciolo della questione: che Gesù – Gesù! – diventa più importante delle facce messe insieme]. Anzi, diventa così importante che capisci che senza di quello [Gesù] le facce scomparirebbero e tu ti “stufiresti”! È questo il destino di tantissima gente che passa attraverso noi e poi se ne va. Come ne Il focolare di Pascoli: se ne vanno per il loro destino, perché non hanno preso in considerazione adeguata, non son stati seri con quella cosa che la compagnia che li ha attratti diceva essere il proprio motivo. La compagnia dice: “Siamo insieme per questo qui”; uno non prende sul serio questo e si appaga della compagnia, gli piace la compagnia; non guarda questa motivazione. Dopo un po’, giuro che lascia anche la compagnia [questa è la conseguenza se noi non arriviamo al giudizio, perché una realtà senza motivo adeguato svanisce]! Il motivo adeguato della nostra compagnia è qualcosa d’altro. Ma questo è ciò che dovrebbe tremare nei nostri occhi tutti i giorni, perché tutti i giorni è proprio così» («Tu» (o dell’amicizia), Bur, Milano 1997, pp. 175-177).
Il segno che noi stiamo facendo un cammino - ci dice - è che Gesù diventa più importante delle facce messe insieme, non perché io dimentico le facce messe insieme, ma perché quelle facce non esauriscono tutta l’esigenza di compimento che ho dentro di me; e se io non arrivo fino lì, fino a Gesù, mi stufo e me ne vado. Per questo, se noi non arriviamo fino lì e continuiamo a dire che questo percorso è artificioso (perché quello che è importante è quello che tocco, che vedo, e tutto il resto sono balle), ce ne andremo prima o poi, perché volenti o nolenti non corrisponderà mai all’esigenza che abbiamo dentro, a quel pensiero dominante che rimane, come “torre in solitario campo” in mezzo al “naufragio universale”.
Come non commuoversi davanti a questa testimonianza di Giussani? Gesù «è ciò che dovrebbe tremare nei nostri occhi tutti i giorni» (Ibidem, p. 177). Senza questa esperienza di Cristo c’è solo discorso formale su Cristo, ma smarriti e confusi come tutti, succubi del nichilismo, «questo ospite inquietante del nostro tempo», come lo ha definito il cardinale Angelo Bagnasco. Senza esperienza reale di Cristo noi guardiamo la realtà come tutti. Per capire che questo non è assolutamente scontato basterebbe che ciascuno guardasse come si è mosso nelle vicende che scuotono l’Italia, che è - dice ancora Bagnasco - «ciclicamente attraversata da un malessere tanto tenace quanto misterioso» (A. Bagnasco, Prolusione del Cardinale Presidente, Conferenza Episcopale Italiana, Consiglio Permanente, Roma, 21 settembre 2009). Come le abbiamo giudicate? Con quale criterio? Tanto frastuono sembra avere un solo scopo: evitare di porre l’unica domanda veramente esauriente, corrispondente al cuore, quella posta da Henrik Ibsen nel Brand: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza [cioè: può l’uomo con le sue forze compiere un solo atto vero]?» (Brand, Bur, Milano 2005, p. 240). Tutto il resto è un tentativo di nascondere la nostra incapacità di una risposta per il male nostro e altrui.
È un’esperienza che rende possibile anche un gesto come il Meeting, dove ognuno si sente a casa. E, paradossalmente, non nascondendoci, ma mettendo a fuoco quello che siamo, quello che abbiamo di più caro, che è quello che ci rende interessanti a tutti. Senza questa esperienza reale di Cristo non c’è educazione, perché nessuno è in grado di sfidare il cuore.
Per questo colpisce quello che disse don Giussani nel 1980, dopo che a un incontro con gli insegnanti aveva letto la testimonianza di un esponente del Samizdat russo, grato di essere condannato per la sua fede alla reclusione nel lager (durante la lettura della sentenza i suoi amici cantarono l’inno pasquale di Cristo risorto): «E noi in un’epoca in cui c’è questa fede facciamo la nostra comunità! Ma cosa è la vostra comunità? Ma cosa è il vostro gruppo di ragazzi? Sei tu che sei di fronte al mondo, alla scuola, agli insegnanti, sei tu di fronte ai libri, alle idee che circolano, sei tu, non i tuoi ragazzi, non la tua comunità, non il Cle, non Cl. Questo è l’unico modo per far risorgere il Cle e Cl, la tua fede e basta, è questa la questione, è la fede vissuta in prima persona [come esperienza reale]. La questione non è il temperamento che hai, le circostanze dell’ambiente, i ragazzi che hai, l’incapacità che tu hai di fronte ai ragazzi, la classe in cui riesci, e quella in cui non riesci affatto. Se fossi da solo e non avessi un “cane” con te sarebbe lo stesso, più doloroso, ma meno illusorio e più puro. Vi giuro che presto o tardi gli altri verranno! [...] La questione è la fede vissuta in prima persona. Io non mi stancherò mai quando uso la parola fede di ricordare cosa vuol dire, perché non si sa cosa vuol dire, anche se la si definisce teologicamente. La fede è il riconoscimento stupefatto, grato, intimidito e nello stesso tempo esaltante, di una presenza; perché Dio è venuto ed è fra noi. [...] È la cosa bella e presente il contenuto della fede e io non so nient’altro che questo. “Son venuto in mezzo a voi e non ho saputo nient’altro che Cristo e questo Cristo storico, crocefisso”, Dio fatto uomo. Come si fa a essere testimonianza se non per questa fede e non per nostre capacità mentali o scaltrezze particolari o possibilità di tempi» (Archivio di Cl).
Per questo, all’inizio di quest’anno ciascuno di noi è chiamato a decidere se fare tutta la strada così come ce la propone don Giussani, essendo leali con l’esperienza, o bloccandoci ancora. Soltanto se facciamo un’esperienza così, possiamo vedere la convenienza umana della fede. E questo non dobbiamo darlo per scontato, perché tante volte noi confondiamo l’intenzione di seguire con la sequela reale, cioè con quel paragone serrato con il metodo che lui ci propone. Dobbiamo, in parole più esplicite ancora, decidere se vogliamo veramente diventare figli, perché è così che potrà sempre di più esserci padre, generarci a quell’umanità che abbiamo visto in lui (che ha nell’Icaro di Henri Matisse, che abbiamo scelto come immagine per questo nostro incontro, la sua rappresentazione artistica): il sentimento di noi stessi come definito dalla coscienza della presenza del Padre, in modo che ogni nostra espressione sia sempre più compiuta come rapporto con il grande disegno, per il bene nostro e dei nostri fratelli uomini. Questa è la sfida e la scelta che ciascuno deve fare e su cui vogliamo accompagnarci lungo quest’anno.

OMELIA ALLA S. MESSA
Julián Carrón
Tutto il mondo è paese. Il tentativo è sempre in agguato: volere sistemare Dio perché non crei scompiglio… Ma lo Spirito di Dio è “scombussolatore” per natura, scombina sempre. Gesù lo paragona al vento, questo Spirito: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8).
È impressionante come lo Spirito - come ci testimoniano le due Letture (Nm 11,25 e Mc 9,38-43.45.47-48) - ha sempre questa libertà di interloquire in un modo che a noi sembra scombinare i nostri pensieri. Seguendo il Suo metodo, Dio dà la grazia a uno perché attraverso lui arrivi a tutti: da Mosè la elargisce a settanta uomini perché arrivi fino al popolo; Gesù raduna intorno a Sé i discepoli per poi mandarli a tutto il mondo, ai popoli di tutto il mondo. Avrebbe potuto fermarsi lì: aveva già dato lo Spirito ai settanta per il popolo, che bisogno c’era di darlo anche ad altri due fuori del gruppo, Eldad e Medad? Così come volle dare anche ad altri fuori del gruppo dei discepoli il potere di fare miracoli. E coloro che avevano ricevuto il dono per primi, un istante dopo, si ribellano e, dimenticandosi che anche loro hanno ricevuto questa grazia, che quello che hanno ricevuto è dono, vince il tentativo di possesso: Giosuè, davanti a quella mossa dello Spirito in due che non erano del “gruppetto”, chiede a Mosè di impedirglielo; e i discepoli, davanti a quelli che scacciavano demòni, ma che non erano del “gruppetto”, esclamano: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri» (Mc 9,38).
C’è questa apparenza di ragionevolezza nei nostri pensieri: il rischio di sostituirsi a Dio è sempre in agguato. Ma qui viene a galla chi ha veramente a cuore il bene del popolo o il potere. Mosè dice a Giosuè: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Nm 11,29). Quello che Mosè desiderava era che tutti potessero essere riempiti dallo Spirito, secondo la modalità che il Signore avrebbe voluto. Lo stesso vediamo in Gesù: «Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,39-40).
Queste iniziative dello Spirito tante volte, invece, le sentiamo contro di noi, perché agisce in un modo che ci sconcerta. Ma di fronte a questo Gesù dice parole pesanti: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala» (Mc 9,42-43).
Chiediamo al Signore di accogliere tutte le modalità attraverso cui il Mistero ci sorprende e ci scombina, e di seguire quello che Lui fa in mezzo a noi, al di là del fatto che ci crei scompiglio o meno. Chiediamo che il Signore ci riempia così tanto di quello Spirito che distribuisce a tutti, affinché possiamo anche noi riconoscerLo ovunque Lo troviamo. Perché - come dice san Paolo - noi non siamo i dominatori della fede di alcuno: «Siamo invece i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1,24).

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