martedì 31 luglio 2007

APPARTENENZA E COMUNIONE


Riporto il pezzo che con la fraternita' si e' meditato domenica 29 luglio.
"Il volto dell'uomo è nella modalità con cui si pone di fronte al suo destino. il modo con cui un uomo guarda chi è vicino e chi è lontano, chi è in famiglia o all'estremità della terra,dipende dalla coscienza del destino che ha preso consistenza dentro di lui.
E' questo ciò a cui vogliamo tendere con l'impegno della Fraternità: che esista nella nostra vita, non soltanto un lavoro che ci proietta fuori, ma un lavoro sulla nostra faccia, cioè sulla posizione che io ho col mio destino, cioè con Dio.
La posizione che io ho con Dio è ciò che dà consistenza alla mia umanità: perchè altrimenti noi cerchiamo e mettiamo la nostra consistenza in tutto quello che facciamo.
Io credo che l'impegno della Fraternità possa essere descritto come la ricerca del proprio volto, perciò come la fatica e il lavoro su di sè, sulla propria persona, la fatica e il lavoro per vivere il rapporto con Dio, con il proprio destino, perchè non sia più estraneo, anche se il suo nome è così familiare, perchè sia più incidente sul nostro cuore.
Anche se la maggior parte di quel che facciamo lo facciamo in Suo nome, è come se questo riuscisse a intaccare tutto, ma non il cuore, cioè la mentalità, vale a dire quel seme da cui scaturiscono i criteri di valutazione, perciò i criteri di speranza, di gusto, di piacere e i criteri del fare."

( Ritiro della Fraternità, 9 ottobre 1982)


Metto all'interno pezzi di interventi,di lettere di Enzo Piccinini che credo ci possano essere di grande aiuto.


PICCININI
APPARTENENZA E COMUNIONE

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La generazione, un atto presente

Il 22 marzo 1998 Enzo era stato invitato al ritiro di Pasqua del movimento in Argentina. Durante la conversazione aveva parlato anche della sua responsabilità in Cl. In queste pagine, gli appunti di quell'intervento e alcune lettere e testimonianze che fanno memoria del nostro grandissimo amico recentemente scomparso

DI ENZO PICCININI


Siena 1982. Gita del Clu di Bologna. Enzo mentre legge agli universitari il primo volantone di Pasqua: ³Cristo la compagnia di Dio agli uomini².
Da tre anni a questa parte Giussani ha cambiato la struttura del movimento. Ha istituito una figura che nel Gruppo adulto esisteva già da molto tempo: la figura del visitor. Ma non un visitor come quello della "Invasione degli extraterrestri" che hanno trasmesso alla televisione. Dato che don Giussani non può visitare tutti i Paesi dove è presente il movimento, ha scelto alcune persone che gli sono molto vicine, e che dovunque vanno, fanno quello che farebbe lui. È un impegno abbastanza pesante per quelli che lo devono fare. Io sono uno di questi visitor. L'Italia è divisa in tre, così ci sono tre visitor per tutta l'Italia. Io cerco di seguire, e spero che Dio me ne doni la forza, più di 20.000 persone. È un compito enorme. Per l'intensità che ha il movimento è un compito enorme. È già difficile sostenere una comunità come questa: figuriamoci allora! Ho chiesto a don Giussani cosa voleva dire visitor, perché non lo sapevo, e gli ho detto anche: "Se sono un visitor devo parlare sempre con te". Però… vedevo che tutti potevano parlare con lui ma io non ci riuscivo mai. Così gli ho chiesto: "Ma che visitor sono?". Vedere don Giussani è qualcosa di molto speciale, perché lui fa il movimento sul serio, non come noi. Quando ero più giovane gli facevo spesso da autista, perché a lui piaceva come guidavo. Così un giorno mi disse: "Mi faresti ancora da autista?". Un lunedì che non dovevo andare in sala operatoria saltai in macchina e andai a prendere don Giussani, scoprendo così che anche lui faceva il visitor. Lo faceva in tre case del Gruppo adulto. Fu una cosa straordinaria. Quando arrivammo alla prima casa di donne del Gruppo adulto, suonò il campanello e quando gli aprirono disse: "Scusatemi, sono don Giussani, non vorrei disturbare, il nostro incontro doveva essere mercoledì, ma volevo chiedervi se era possibile farlo oggi.
Vi chiedo scusa, mi spiace turbare il ritmo della casa". Pensavo che se fosse venuto a casa mia gli avrei aperto tutte le porte, se venisse a casa mia gli direi: "Vieni quando vuoi!". Ma lui faceva così. Più tardi, quando cominciò la riunione, era una cosa straordinaria sentirlo parlare. Conosceva tutte le ragazze, una per una, e chiedeva: "Come sta tuo papà? Prende le medicine?". È solo un esempio. C'era tra loro un legame, un affetto per me sconosciuto. Così visitammo le tre case, tutte nello stesso modo. La notte, mentre tornavamo a casa sua, Giussani mi chiese: "Hai capito?"; gli risposi: "Sto cominciando a capire". Si può "fare il visitor", ma in fondo il visitor è "essere del movimento", amare tutto e fare tutto con quell'appartenenza nel cuore e nella mente, con quella capacità di legame che si chiama paternità. Il problema del visitor è fare che ogni rapporto sia mantenuto come una ferita aperta: si chiama conversione. Anche in famiglia è necessario che uno sia visitor, nel luogo di lavoro, il ragazzo con la sua ragazza devono essere visitor. È necessario tener viva questa ferita che si chiama conversione. È così che nasce il movimento per noi, cioè dei rapporti nuovi. Questo è il problema. È così che il movimento continua a essere una novità, una intensità di esperienza che elimina di colpo tutte le divisioni. Il gruppo di qua, quell'altro di là: cosa importa! Il problema è la mia conversione e aiutarci perché avvenga. Questo nel tempo produce frutti straordinari. Prima di tutto perché saremo capaci di collaborare di più per far sì che questa società diventi più umana. Ma per questo ci vuole pazienza… Come dicevo prima, volevo sempre parlare con don Giussani e lui non mi riceveva mai. Parlava con tutti meno che con me.
Io gli dicevo: "Sai, non mi par giusto parlare di certe cose davanti a tutti", vale a dire durante il Consiglio di Presidenza (in questo consiglio si riuniscono i responsabili ultimi, una volta alla settimana, per affrontare tutti i problemi del movimento). Un giorno durante questa riunione, don Giussani appena entrato cominciò così: "Qui c'è qualcuno che non si fida di noi". Allora pensai: "Sarò forse io?". Quando Giussani arriva al punto della correzione marca male! E continuò: "… chi non si fida non solo ha bisogno che sia tutto a posto per parlare, ma vuole parlare solo con me, non desidera di farlo con tutti noi". In quel momento capii. Non si tratta di essere o non essere sinceri, è un problema di comunione. Che razza di unità c'è tra noi se non riusciamo a essere sinceri sulle cose che amiamo. Quando finì la riunione mi accostai a don Giussani e gli dissi: "Ho capito, adesso ho capito". E lui mi rispose (e queste parole non le dimenticherò mai, perché mi commossero): "Adesso, quando vuoi, vieni e parliamo".


UN CUORE DIVERSO
Appunti da una conversazione con adulti di Milano 21 settembre 1996

Il mio nome è Enzo. Sono chirurgo universitario e ho quattro figli. Invitato qui, mi sono venuti due pensieri improvvisi che vorrei dirvi. Il primo è che ogni volta che sono invitato a parlare in pubblico della mia esperienza nel movimento provo una specie di ritegno e di pudore, che mi fa sempre essere indeciso se farlo o no. Non è facile, è questo quello che penso, parlare in pubblico di quel che si ama di più nella vita. Il movimento è tutto per me: è ciò che io amo e stimo come la cosa più importante e più vera per me. Ma, ed è la seconda cosa che mi viene in mente, ripensando a questi anni e a ciò che mi è successo vivendo questa storia, devo riconoscere innanzitutto che quel che sono l'ho interamente ricevuto. Tutto quel che ho, in termini di bellezza di esperienza, mi è stato dato e l'ho imparato; anzi, a dire il vero, il movimento è stato ed è per me letteralmente - letteralmente - la mia salvezza. Chissà dove sarei, se non avessi incontrato il movimento! Tanto è vero che, solo un po' di anni fa, non molti, se qualcuno mi avesse detto che sarei stato qui a dire queste cose, avrei detto che quello era un pazzo furioso. Ci sono due episodi indelebili nella mia vita. Il primo riguarda il lavoro. Nel tempo, in questi anni, ho maturato una competenza particolare nel mio campo. Sono stato in America a lungo, poi in Inghilterra, in Francia; sono tornato e ho potuto avere una unità mia, dove eseguo interventi particolari. Questo ha generato intorno a me un certo credito. Hanno cominciato a venire un po' da tutta Italia soprattutto casi difficili, spesso rifiutati da altri centri, qualche volta veri e propri viaggi della speranza. Mi ci sono sempre buttato con tutto quello che potevo fare, rischiando molto: erano tutti, o quasi, dicevo, casi ad alto rischio, e se la maggior parte andava bene, qualcuno andava anche male. Così, in quel periodo, ce n'era uno in particolare che non era andato bene e a cui ero legato anche affettivamente, perché riguardava il papà di miei amici. Era una cosa che mi aveva turbato, tanto che dormivo poco la notte. Per caso, ho potuto parlarne con don Giussani. Gli ho posto la questione. Lui mi ha guardato e, con un'improvvisa risposta, totalmente inaspettata da me, mi ha detto: «Enzo, ma come mai!? Tu ti comporti come se Cristo non ci fosse, come se tutto dipendesse dalle tue mani! Se farai così a lungo, non sarai più libero di fare quel che fai. Comunque, in ogni caso, vorrei riparlarne». Era l'ultima risposta che m'aspettavo, ma capivo che era giusta. Così, di lì a qualche giorno ci siamo ritrovati a parlarne. Gli ho ridetto la cosa, gli ho raccontato la vicenda, però non volevo importunarlo, anche perché erano già due volte che gliene parlavo. Così gli ho detto: «Guarda, però, che le cose stanno andando meglio; l'altro giorno ero un po' preso, ma le cose stanno andando meglio; sopra di me c'è una cappella, al quarto piano (io sono al terzo), e spesso alla mattina, prima di andare in sala operatoria, vado lì e dico una preghiera, e le cose sono più tranquille». Ha avuto una reazione, don Giussani, che mi ha colpito. Mi ha guardato di nuovo e mi ha detto: «Enzo, non è vera preghiera se non è offerta. Tu devi imparare ad offrire, tu non sai offrire! È questo che ti manca: quando sei lì e hai in mano quegli strumenti e devi decidere un indirizzo, di qua o di là, è questo che devi fare, perché se non farai così, diventerai come tutti. E il "come tutti" significa ritirare lo stipendio alla fine del mese e cercare di avere meno preoccupazioni possibili, per evitare le ferite che la realtà che hai può generare nella tua mente e nel tuo cuore». Aveva ragione. Io non so come avesse fatto, ma aveva ragione. Erano due mesi che dicevo ai miei due giovani assistenti: «Per favore, ragazzi, non facciamo più niente di queste cose, perché dobbiamo andare avanti in una certa strada e queste cose, ci mettono addosso problemi, non ci aiutano». Sì, offrire significa che la consistenza delle cose e della realtà - mi aveva spiegato poi don Giussani - è Cristo e, perciò, in ogni cosa che facciamo c'è la domandache Lui si riveli. E questo ci fa certi della risposta. Cristo è Dio, e perciò risponde sicuramente: come vuole Lui, ma risponde. Questo determina nel rapporto con la realtà una povertà per cui uno riconosce ciò che può fare e ciò che non può fare, e chiede quando non sa e non può. Si aderisce così alla realtà: più attenti ad ogni particolare ed estremamente realisti rispetto a quel che si può fare. Poi, così, si può rischiare, cioè si può affrontare la realtà comunque essa sia, certi che c'è un destino buono. Il fenomeno della certezza è l'intuizione che la vita ha il senso totale: è la certezza della presenza del Destino, Cristo. E alla luce di questa certezza io rischio e cammino, perché la certezza è al fondo delle cose e fa riprendere ogni giorno, dopo la gioia e la delusione. È una certezza - appunto - che non toglie la gioia e la delusione (ma non importa); e rischio, perché posso sbagliare o far giusto. Per questo la vita rimane una lotta, il cui fondo è però pieno di pace. Io posso lottare adesso, posso lottare perché sono certo di dove arriverò, perché il Destino già si è dato a me, mi ha raggiunto e abbracciato. Rimane dentro il segno del mondo e delle cose, perché nel modo di vivere questo segno io giochi interamente la mia libertà e la mia fedeltà. Ma c'è un secondo episodio che ha determinato la mia vita. È da un po' che sono impegnato nel movimento e la mia professione porta via sempre più tempo, insomma ho una vita piuttosto impegnata, piena. Intorno a me era un po' di tempo che sentivo dire: «Ma che vita fa quello lì? E la sua famiglia? Boh!». E io lasciavo sempre andare la cosa, non mi toccava più di tanto. Però, a lungo andare, mi è venuto il dubbio e ho incominciato a chiedermi anch'io: «Ma che vita faccio?». Così, un giorno, mentre lo accompagnavo da Cesena a Bologna per una giornata d'inizio anno del Clu, don Giussani mi chiede: «Come va?». «Eh - dico - non c'è male». «Come non c'è male?». «Ma qui mi dicono così, io non lo so, mi fanno venire dei dubbi anche a me», e gli dico tutta la vicenda. Dopo un po' di silenzio lui fa: «Senti, ma tu vuoi bene alla tua famiglia, ai tuoi figli?». «Sì». Cosa dovevo dire? Silenzio. «Senti, fammi un esempio». «Un esempio?». Io non so a voi, ma a me non vengono facili. Allora gli ho detto una cosa che mi è venuta in mente, che mi sembrava descrivesse quello che provavo. Gli ho detto che succede spesso che io - per la professione o per altro - arrivi a casa un po' tardi. Mia moglie dorme lasciando un po' aperte le porte delle stanze dei bambini per sentire quando piangono o se succede qualcosa. Così quando arrivo devo stare attento, accendere solo la luce dell'ingresso, perché se li sveglio sono guai. Allora accendo la luce e poi pian piano vado dentro. Attraverso la fessura della porta passa un filo di luce che illumina questi gomitoli, queste facce di bambini: è uno spettacolo che fa venire una tenerezza dentro... Io non so cosa provate voi, ma è una tenerezza tale che non si resiste. Allora apro, vado lì, faccio loro una carezza, do un bacio, qualcuno si sveglia: «Ciao, papà». «Sssttt! che se ti sente la mamma...». Allora sto lì così e mi sembra che questo... Insomma, gli voglio bene. Don Giussani sta ancora in silenzio, poi dice: «No, no, no, questo non è il modo di voler bene. Sai qual è il modo di voler bene? Che proprio in quel momento in cui quella tenerezza ti spinge a fare quel che fai, umanissimo, fai un passo indietro. Fallo davvero e chiediti: che ne sarà di loro? Questo è il modo di voler bene, perché è il senso del destino che definisce la persona, l'altro, la sua unicità e la sua oggettività: un uomo che non viva un momento con questo rispetto improvviso, con la sua donna o con i suoi figli, non ama la sua donna e i suoi figli». Più tardi avrei capito davvero questo accompagnandolo a Chieti, quando lo scorso maggio don Giussani ha tenuto la conferenza secondo me più straordinaria che io abbia mai ascoltato. Lì ho capito una cosa fantastica, che lui ha sottolineato come scoperta del «tu»: la scoperta del tu. «"Tu" significa un'altra cosa - ha detto a Chieti -, tu non sei me, perciò non posso usare di te e finalizzarti a me. Allora uno s'accorge di cosa vuol dire rispetto, adorazione, venerazione. Il Destino, l'Infinito, è questo "Tu" divino che permette questi "tu" umani. Perciò se io dico "tu" nel modo che abbiamo detto prima, è la potenza dell'umano che va al di là del fisico, del constatabile fisicamente; è una constatazione ed è un'esperienza totalizzante, in cui il fisico è una parte». Concludendo, quando c'è - lo capisco adesso molto chiaramente parlandone a voi - un'ipotesi positiva nella vita, il tempo, che per tutti è sinonimo di decadenza e di disfacimento, lavora in positivo. Quello che sono adesso è imparagonabile davvero a quel che ero un po' di anni fa, imparagonabile. E, perciò, con buona ragione, posso aspettarmi il miracolo di un cambiamento ancora maggiore. Ne vedremo delle belle! La fisica sostiene che l'orizzonte cambia variando il punto di osservazione. Se volessi trovare una metafora che descrive la mia vita, dovrei paragonarla ad una mongolfiera che si sta alzando dal suolo, e per questo l'orizzonte si allarga sempre più. Così ogni giorno che passa scopro aspetti della vita - come ad esempio la fedeltà, la pazienza, l'amicizia - che non avrei mai potuto immaginare. Il problema è uno solo (che è quello che chiedo sempre): che mi sia dato per sempre il coraggio di non sottrarmi più alla scia che l'incontro con il movimento ha lasciato nella mia vita e intorno a me.

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