giovedì 27 agosto 2009

AVVENIMENTO E CONOSCENZA IN SAN PAOLO

CARRON AL MEETING

Il 28 giugno scorso in occasione della chiusura dell’Anno Paolino, Benedetto XVI ha affermato. “L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana” . In un Meeting per l’Amicizia fra i Popoli che mette a tema la conoscenza difficilmente avremmo potuto trovare un testimone migliore di Paolo per documentare la verità del titolo scelto: La conoscenza è sempre un avvenimento. In cammino con l’Apostolo, come ci suggerisce il Papa, è possibile capire che cosa sia per lui la conoscenza come avvenimento: nel modo con cui egli ce l’ha testimoniata nella conoscenza di Gesù.




Dal punto di vista strettamente storico, nell’esistenza di san Paolo non vi è un fatto più indiscutibilmente certo della svolta che conobbe la sua vita in un momento determinato, ossia quando si trovava in cammino verso Damasco . All’inizio della lettera ai Gàlati Paolo narra il cambiamento con queste parole: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” … Il ribaltamento è consistito, secondo la testimonianza dello stesso Paolo, nel passaggio da persecutore ad apostolo di Colui che in precedenza aveva accanitamente perseguitato. Per capire la portata d’una tale svolta occorre soffermarsi un attimo per guardare, anche se sommariamente, la vita precedente dell’apostolo.


1. “La mia condotta di un tempo nel giudaismo”

Fortunatamente, Paolo ci offre sufficiente informazione per farci un’idea abbastanza chiara su questa tappa della sua vita. Nel testo citato della Lettera ai Gàlati egli ci parla della sua vita di un tempo nel giudaismo, collegando la sua persecuzione della Chiesa e il suo accanimento nel sostenere le tradizioni dei padri. Quest’ultima caratteristica ci informa dell’origine della sua passione per le tradizioni dei padri: la sua educazione farisea. Infatti, come sappiamo attraverso, tra gli altri, lo storico ebreo contemporaneo Flavio Giuseppe, i farisei avevano imposto al popolo molte leggi dalla tradizione dei padri non scritte nella legge di Mosè. Conferma di questo la troviamo anche nel Vangelo: “I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi” . Ma la cosa più significativa è il suo essere, nella difesa delle tradizioni, “molto zelante” (perissotérôs zêlôtês) fino al punto di sorpassare in questo zelo “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali”.
Nella Lettera a Filippesi Paolo ci offre una breve autobiografia prima della svolta, dove esibisce le credenziali che contraddistinguevano la sua vita nel giudaismo: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge” . Ai primi posti di questo elenco Paolo enumera i privilegi ereditati dalla sua appartenenza al popolo d’Israele (circonciso, israelita, della tribù di Beniamino, ebreo); i tre ultimi tratti sono scelte fatte da lui: fariseo, persecutore e irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Il motivo, però, di questo elenco non è meramente biografico, bensì apologetico. Infatti, l’apostolo sta difendendo i suoi fratelli della comunità di Filippo dai cattivi operai che mettono a rischio la loro fede cristiana, cercando di rispostare la loro fiducia lì dove la ponevano come ebrei, appunto nella carne. In questo contesto, Paolo insiste che se qualcuno ha dei titoli per vantarsi nella carne è proprio lui: circonciso, ebreo, fariseo, persecutore, irreprensibile nell’osservanza della legge.
Con ciò Paolo ci informa, tra l’altro, che lui era fariseo quanto alla legge, mettendo insieme, così, il suo fariseismo e la passione per legge. Lo scopo fondamentale del fariseismo era l’educazione alla legge. Non stupisce, quindi, che l’educazione farisea ravvivasse in Paolo la passione per la legge.
Il preciso significato che aveva per lui questa passione è quello che abbiamo scoperto: “accanito [estremamente zelante] com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” . Luca ci offre una autodichiarazione paolina riassuntiva di cosa significasse per un ebreo formarsi alla scuola farisea. “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi” .
Questo zelo per Dio e per la sua legge è ciò che ha portato Paolo a essere persecutore: “fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” ; “come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, … accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” .
Per capire il significato che aveva per il fariseo Saulo questo zelo per Dio che lo spingeva a perseguitare i seguaci di un condannato per blasfemia dal sinedrio (il tribunale ebraico) basta leggere questo brano di un suo contemporaneo, Filone di Alessandria, in cui si parla dell’apostasia, il reato che Saulo attribuiva ai cristiani di origine ebraica: “È un bene che tutti quelli che sono animati dallo zelo per la virtù possano infliggere le pene immediatamente e con le proprie mani, senza dover condurre il colpevole dinanzi a nessun tribunale, consiglio o magistrato, e possano dar libero sfogo ai sentimenti che li animano: l’odio verso il male e l’amore per Dio, che li spingono a infliggere la pena all’empio, senza compassiona alcuna. Devono ben sapere che l’occasione li ha convertiti in consiglieri, giurati, alti magistrati, membri dell’assemblea, accusatori, testimoni, leggi, popolo; per dirlo con una sola parola: in tutto. Di modo che senza paura né impedimenti possano difendere la santità in tutta sicurezza” .
Questo zelo aveva i suoi modelli in personaggi veterotestamentari come Pincas, che trafigge con la sua lancia un israelita che si è unito a una donna madianita ; o Elia e Ieu, che uccidono quanti hanno piegato le ginocchia a Baal . A partire dalla rivolta dei Maccabei questo zelo faceva parte dei gruppi radicali, che erano sempre pronti a usare la forza per difendere la legge. Anche se questo zelo non è esclusivo dei farisei (lo troviamo anche negli altri gruppi religiosi del tempo: sadducei, esseni, zeloti), non c`è dubbio che è questo un tratto d’identità dei farisei.
Che lo stesso Paolo non si astenne dall’uso della violenza, si evince dal verbo che usa per descrivere la sua azione contro la Chiesa. Per due volte Paolo usa il verbo porthein, “distruggere” . Fin dove può arrivare la violenza si può vedere dall’uso che di questo verbo fa lo storico ebreo Flavio Giuseppe per descrivere l’incendio di villaggi e città di Idumea da parte di Simone bar Giora . C’è chi vuole ridurre l’azione di Paolo a una forte polemica. Ma i dati offerti dallo stesso Paolo, senza nemmeno doversi appellare agli Atti degli Apostoli, parlano da sé.
Più tardi Paolo stesso dirà , in allusione agli ebrei che non hanno riconosciuto Cristo a causa del suo zelo per Dio, che questo zelo è stolto, senza vera conoscenza (ou kat’ epignôsin) .
Alla fine di questa breve descrizione della prima tappa della vita di Paolo possiamo dire che essa è totalmente determinata dalla legge. La sua formazione farisea, il suo zelo per la tradizione degli antichi, la sua attività di persecutore parlano di questa sua passione per la legge data da Dio al popolo sul Sinai e che costituiva per lui il bene più prezioso. Tutto ruota intorno alla legge.
In una situazione come quella sin qui descritta, con una convinzione così radicata, nulla poteva far sperare in un cambiamento significativo nell’esistenza di Paolo. Ma l’imprevisto accade.

2. L’avvenimento di Damasco

Infatti, nel corso di una delle sue azioni contro i cristiani di Damasco Paolo si è visto sorpreso da un avvenimento che gli ha cambiato la vita (Att 9,1-5). Anche quelli che non erano stati testimoni dell’evento non potevano evitare di trovarsi davanti al fatto di questo cambiamento che si rendeva evidente a loro nel modo con cui Paolo si muoveva e nei nuovi compagni da cui si trovava circondato. Il libro degli Atti narra in modo espressivo questo cambiamento descrivendo i nuovi rapporti di Paolo a Gerusalemme: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo”. Dopo che Barnaba narra come Paolo si è comportato a Damasco, il timore viene fugato e l’Apostolo può andare e venire “a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore”.
Rivolgendosi ai Gàlati, Paolo non testimonia soltanto il cambiamento che ha avuto luogo nella sua vita, ma anche il fatto che lo ha causato: la rivelazione del Figlio che gli è stata concessa da Dio. Come afferma categoricamente Charles Kingsley Barrett: “L’essenza della conversione di Paolo fu la rivelazione di Gesù Cristo” . Tuttavia in questo testo Paolo non ci spiega esplicitamente in che cosa sia consistita questa rivelazione. Da altri passi della Lettera sappiamo che essa si basa sull’apparizione di Cristo risorto. Nelle due occasioni in cui Paolo allude a questo fatto nella Prima Lettera ai Corinzi l’esperienza avuta sulla via di Damasco viene collocata nel contesto delle apparizioni pasquali. In 1Cor 9,1 (“Non ho veduto Gesù, Signore nostro?”), utilizza lo stesso verbo, horein, “vedere”, che ritroviamo in contesti legati alla Pasqua . E in 1Cor 15,8, Paolo cita l’apparizione di Gesù risorto di cui fu personalmente oggetto, alla fine di un elenco di apparizioni: di conseguenza la cataloga come tale. Da questi testi si può dunque arguire che “Paolo ha visto Gesù” e che “considera questa visione identica e di pari valore rispetto a quelle che hanno ricevuto come grazia Pietro, Giacomo e gli altri testimoni delle apparizioni del Risorto” .
Se “l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo umano” , per Paolo in questa esperienza dell’incontro con il Risorto diventa trasparente la realtà di Cristo. In nessun altro momento della sua vita la ragione e la libertà di Paolo furono sfidate, messe in gioco, come di fronte a questo avvenimento. In modo assolutamente imprevisto, sulla strada verso Damasco, Cristo risorto incontra Paolo, la cui ragione viene dilatata dalla grazia della fede perché sia adeguata alla realtà eccezionale che ha davanti a sé. È questa presenza di Cristo risorto – che lo precede e lo provoca, cioè lo precede chiamandolo – a sostenere l’apertura della ragione affinché Paolo possa percepire adeguatamente il significato di quell’incontro, provocando in lui l’attrazione che permette alla libertà l’adesione amorosa a quella presenza . Per questo l’Apostolo può appropriatamente definire l’avvenimento una rivelazione: in esso si rivela a Paolo la piena realtà di Cristo . Come tanti ebrei, Paolo aveva accettato il giudizio su Gesù contenuto nella sentenza del sinedrio: un bestemmiatore, contrario alle più preziose tradizioni di Israele (il Tempio e la Legge) . Credeva di sapere già chi fosse Gesù Cristo. Ora invece l’inaspettata irruzione nella sua vita di Cristo risorto gli fornisce una conoscenza su cui non poteva contare.
Se, come recita l’assioma di Jean Guitton, “‘ragionevole’ significa sottomettere la ragione all’esperienza” , Paolo si è dimostrato un uomo ragionevole, accettando di sottomettere la sua ragione, ossia ciò che pensava di Gesù, alla conoscenza della realtà di Cristo così come si era resa trasparente in quell’esperienza. J. Murphy-O’Connor ha descritto magistralmente questo processo: “Ora Paolo conosceva con la convinzione ineludibile dell’esperienza diretta che il Gesù che era stato crocifisso sotto Ponzio Pilato era vivo. La resurrezione che aveva ostinatamente rifiutato era un fatto, innegabile quanto la sua stessa realtà. Sapeva che Gesù ora esisteva su un altro piano. Questo riconoscimento era tutto quello di cui aveva bisogno per la sua conversione. [...] Gesù quindi deve essere precisamente ciò che Egli in modo implicito, e i suoi discepoli in modo esplicito, pretendevano che fosse: il Messia” . Fu la conoscenza della vera natura di Gesù Cristo, ottenuta attraverso la grazia di una rivelazione, a motivare la sua conversione. L’avvenimento di questa rivelazione trasformò il persecutore fariseo in un apostolo. Essere così semplici da riconoscere il contenuto di quella rivelazione implicava il riconoscimento di Gesù Cristo e l’immediata cessazione della sua attività persecutoria. Le persone che egli aveva perseguitato avevano ragione, egli stesso aveva torto.
Questo aiuta a capire la natura della cosiddetta ‘conversione’ di Paolo. È indubbio che a Paolo si debba applicare il concetto di conversione con molta cautela. “Siamo lontanissimi dal cliché della conversione intesa in senso moralistico. Paolo non era un peccatore penitente che ha ritrovato il cammino del bene, dopo aver percorso quello del male. Tantomeno era un agnostico che ha finito per accettare Dio e una visione religiosa della realtà” . Come ha scritto lo studioso di San Paolo, C.K. Barrett: “La conversione di Paolo non ha trasformato un uomo moralmente empio in un uomo moralmente buono; non era mai stato un uomo moralmente empio”. Egli stesso confessa che era “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6); che superava “nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali” (Gal 1,14). Si deve a questo zelo anche l’accanita persecuzione della Chiesa di Dio: lo considerava un dovere strettamente religioso, come dimostra il fatto che, dopo la rivelazione della vera natura di Cristo, abbandona la sua attività di persecutore per aderire a Lui” . Per questo, insiste G. Barbaglio, “la sua, se si può parlare di conversione, è stata una conversione a Cristo, scoperto con gli occhi della fede come chiave di volta del destino umano” .

3. Nuova conoscenza

Da quanto detto si evince che la novità dell’evento accaduto sulla via di Damasco non si limita al cambiamento di vita, da persecutore a credente in Gesù Cristo. Per Paolo questo avvenimento è stato una vera conoscenza, di cui il cambiamento di vita non è altro che una conseguenza. “Il suo incontro con Cristo gli ha rivelato la verità di tutto quello che aveva ritenuto falso, costringendolo a una nuova valutazione, che si trasformò nel nucleo cristologico e soteriologico del suo vangelo” .
Nella Seconda Lettera ai Corinzi 5,16 San Paolo ci dice esplicitamente la novità di questa conoscenza: ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne (kata sarka); e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne (kata sarka), ora non lo conosciamo più così .
Che cosa significa per Paolo questa conoscenza di Cristo “secondo la carne”? Si è discusso molto a che elemento della frase occorreva unire l’espressione “secondo la carne”: a Cristo o al verbo “conoscere” . È chiaro che qui Paolo sta mettendo a contrasto due modi di conoscere: quello del passato (“abbiamo conosciuto”), che era una conoscenza di Cristo “secondo la carne” e quello del presente (“ora però non lo conosciamo più così”). “Quando lui [Paolo] dice ‘Noi abbiamo conosciuto in altro tempo Cristo secondo la carne’ (5,16) si riferisce ovviamente alla conoscenza che aveva di Cristo quando come fariseo perseguitò i cristiani (Gal 1,13; Fil 3,6). Egli condivideva l’opinione comune tra i suoi coetanei che Gesù fosse un maestro eretico e un agitatore turbolento le cui attività l’avevano portato giustamente al patibolo. Questa – egli lo sa – è una valutazione falsa, e l’abbandona. Adesso riconosce Gesù come Salvatore” . Questo ci consente di capire il senso della conoscenza “secondo la carne”. La conoscenza di Cristo “secondo la carne” è una conoscenza di Cristo secondo la sua misura, la sua capacità umana di conoscenza, che l’aveva portato a una valutazione di Cristo che l’avvenimento di Damasco aveva mostrato falso . Leggiamo infine il testo nella nuova versione italiana: “Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così”.
Che Paolo dia alla rivelazione accaduta sulla via di Damasco il valore di conoscenza si vede nel fatto che il contenuto di questa rivelazione diventa il metro di giudizio fondamentale per valutare ogni cosa . “Cristo gli aprì gli occhi e, una volta che lo ebbe conosciuto, i suoi criteri di giudizio furono semplicemente rovesciati” . Nulla lo rende più evidente che il testo in cui egli ci fa vedere che novità si è introdotta nel giudicare questo evento: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” .
Paolo è poi obbligato a rivedere tutte le categorie fondamentali del suo pensiero, le sue vecchie convinzioni, alla luce della nuova conoscenza di Cristo . Il risultato di questa revisione e la nuova mentalità derivatane costituiscono ciò che chiamiamo teologia paolina .
“Quella rivelazione del ‘Signore della gloria’ crocifisso (1Cor 2,8) fu un avvenimento che rese Paolo, il fariseo, non soltanto un apostolo, ma anche il primo teologo cristiano” . Per questo i tentativi di spiegare la teologia paolina a partire da altri punti sorgivi diversi da quell’evento sono falliti. Secondo J. Jeremias, né l’ambiente ellenistico né l’educazione giudaica costituiscono la chiave per comprendere il pensiero e la vita di Paolo: “né la religione misterica, né il culto dell’imperatore, né la filosofia stoica né il presunto gnosticismo precristiano costituiscono l’humus originario dell’apostolo. [...] Paolo è uno di quegli uomini che hanno sperimentato una violenta rottura con il passato. La sua è una teologia radicata in una conversione repentina” .
Per questo “la finalità dell’intera teologia dell’apostolo è in ultima istanza la spiegazione della rivelazione del Figlio di Dio, che ebbe luogo sulla via di Damasco. Questa è l’origine da cui nasce il suo pensiero e da cui egli parte per elaborare la sua teologia. È chiaro che al momento della sua vocazione non era ancora cosciente della portata della rivelazione, che doveva essere il suo vangelo. Ma in nuce tutto il resto era già presente. Concretamente, la rivelazione è proprio il fatto che Gesù è il Figlio di Dio” .
Questo non vuol dire che Paolo capisse tutto fin dall’inizio. Osserva J. Fitzmyer: “Affermare il carattere decisivo di questa visione per la penetrazione del mistero di Cristo non significa che Paolo abbia compreso immediatamente tutte le implicazioni della visione che gli fu concessa. Ma gli fornì il criterio valutativo di base, che avrebbe illuminato tutto quello che doveva imparare su Gesù e la sua missione tra gli uomini, non solo nella tradizione della Chiesa primitiva, ma anche nella sua esperienza apostolica personale di predicatore del ‘Cristo crocifisso’ (Gal 3,1)” .
Con questo nuovo criterio valutativo Paolo fu costretto a rivedere tutte le sue convinzioni fondamentali: dalla legge alla storia della salvezza, dal culto alla lettura della Scrittura. Tutto è visto alla nuova luce di quest’evento. È ovvio che non possiamo rivedere ciascuno di esse. Ci soffermeremo su due esempi, ognuno portatore di una indicazione decisiva.

a. Il velo di Mosè

A nessuno risulterà a questo punto strano che il cambiamento operato in Paolo come conseguenza dell’avvenimento sulla via di Damasco abbia influenzato il suo modo di leggere la Scrittura, strumento decisivo per formulare la nuova mentalità e per spiegare il mistero di Cristo; infatti, Paolo si servì come mezzo per esprimere la novità cristiana, di cui ora partecipava, proprio le Sacre Scritture di Israele, l’Antico Testamento . Ma in che cosa consisteva la novità del suo avvicinamento alla Scrittura?
Nel corso della storia, il terzo capitolo della Seconda Lettera ai Corinzi è stato il punto di riferimento fondamentale per comprendere questa novità, quella che chiameremo l’ermeneutica paolina . Questo capitolo fa parte dell’apologia che Paolo fa del suo ministero di apostolo, confrontandolo con quello di Mosè, cui fanno appello i suoi avversari . In esso Paolo contrappone l’effimero ministero della lettera, che è ministero di morte e di condanna, al perenne ministero dello Spirito che dà vita, un ministero di giustizia . Sebbene anche il primo sia un ministero glorioso, la sua gloria non è paragonabile a quella del secondo. “Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo” .
Se il ministero apostolico di Paolo è così glorioso da risplendere tra tante tribolazioni per la sua capacità d’introdurre una novità nella vita, allora perché non viene accolto tra gli ebrei? Questa mancanza di una risposta, non è forse segno della sua inautenticità? Per controbattere a questa obiezione al proprio ministero formulata dai suoi avversari ebrei, Paolo ricorre al racconto del velo di Mosè contenuto nel libro dell’Esodo . E comincia dicendo: “Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero” . L’apostolo con il participio (katargoumenou) si riferisce al fatto che lo splendore di Mosè, che si identifica con quello dell’antica legge, sparirebbe al manifestarsi del mistero di Cristo in tutta la sua pienezza . Questa manifestazione, che ebbe luogo durante la resurrezione di Gesù, inaugura un ministero di gloria duraturo, fonte di una speranza che permette a Paolo di procedere in tutta libertà, senza la necessità di ricorrere, come Mosè, a un velo che ne occulti la scomparsa.
Subito dopo però Paolo utilizza la parola “velo” per designare un altro fatto che avviene presso una parte del popolo ebraico, quella che continua, per zelo verso i supposti diritti del Dio di Israele, a rifiutare Gesù (e con Lui il Suo vangelo, i predicatori dello stesso e quella parte degli ebrei che lo ha accolto) . “Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto” . Nelle riflessioni dell’Apostolo il velo è ciò che ricopre il cuore, ossia gli occhi dell’intelligenza di questi ebrei ostili, di modo che quando ogni sabato la legge (l’Antico Testamento) viene letta nelle loro sinagoghe, essi non vedano la realtà, ossia quello che Gesù Cristo ha rappresentato con la sua predicazione, morte e resurrezione. Finché non si toglieranno (o finché Dio non toglierà) il velo dal loro cuore, non crederanno in Gesù Cristo, e quindi non comprenderanno pienamente l’Antico Testamento . La relazione tra la fede in Cristo e la vera comprensione della Scrittura è fondata sul fatto che, come dice lo stesso Paolo all’inizio della lettera ai Romani, “il vangelo di Dio”, che è il vangelo “riguardo al Figlio suo ... Gesù Cristo” Dio lo “aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture” . Per questo possiamo dire con A. Vanhoye che “per quelli che leggono le Scritture senza riconoscere che parlano di Gesù Cristo, l’AT è un libro il cui significato rimane velato (2Cor 3,14)” .
Qui tuttavia Paolo non ci dice soltanto che l’Antico Testamento continua a essere velato per chi non crede in Cristo, ma anche come si può rimuovere il velo che ne impedisce la comprensione. Con un tratto stilistico di grande bellezza, che impiega con una certa frequenza per dire ai destinatari delle lettere come si toglierà il velo, Paolo utilizza le parole dell’Esodo in cui l’autore sacro descrive come Mosè, rivolgendosi a Dio per parlarGli, si toglieva il velo. Allo stesso modo, questi ebrei che non vedono la verità di Gesù per il velo posato sui loro cuori possono raggiungere la ricca fonte di speranza costituita dal Vangelo attraverso un’unica via: questa via consiste nel rivolgersi a Dio, perché l’unico Dio di Israele è quello che si è manifestato nella resurrezione di Gesù.
Anche se non è così immediato seguire quella che è stata denominata la “forma midrashica di argomentazione” di Paolo, perché è molto lontana dal nostro modo di ragionare, lo scopo dell’allusione al velo di Mosè in questo contesto è chiaro. Ricorrendo all’immagine del velo, Paolo vuol dire, secondo M. Thrall, che “nella vita della sinagoga rimane attivo ‘lo stesso velo’, la stessa barriera per la comprensione della finalità della Legge di Mosè, già presente come all’epoca di Mosè. [Questo velo] è ancora posto sull’AT, durante la lettura” . La barriera che ostacola la percezione del significato della Scrittura sparisce definitivamente solo con l’arrivo di Cristo . In tal caso, le critiche giudaiche al ministero di Paolo, o in senso più generale al cristianesimo, basate sulla comprensione ebraica dell’Antico Testamento mancano di fondamento . Ma, come abbiamo visto, ciò non è sufficiente. Perché Cristo sveli il significato dell’Antico Testamento si richiede, da parte di chi lo legge, di rivolgersi al Signore, ossia al Dio che si è manifestato in Gesù Cristo .
L’importanza di questo testo per l’interpretazione della Scrittura è evidente. Secondo D.-A. Koch, il passo è un testo chiave, dato che è l’unico in cui Paolo affronta esplicitamente, seppure in modo indiretto, la questione dell’ermeneutica . In esso, Paolo stabilisce le condizioni per la comprensione della Scrittura. Forse non risulterà inutile ricordare in questo contesto che coloro a cui Paolo rimprovera di leggere la Scrittura coperta da un velo che impedisce loro di comprenderne il vero significato sono giudei (e non possono essere altro che giudei) . È ben noto il complesso sistema di regole ermeneutiche generato dal giudaismo per la comprensione dell’Antico Testamento . Anche se ai tempi di Paolo questo sistema non era ancora arrivato alla complessità che più tardi sarà testimoniata dalla letteratura rabbinica, sappiamo che aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione . Nonostante questo spreco di energie e d’ingegno, Paolo sostiene che la lettura rimane velata finché non si rivolgeranno al Signore, ossia al Dio che si è manifestato durante la morte e la resurrezione di Cristo (poiché non vi altro Dio oltre quello che si è manifestato in Cristo). In questo modo Paolo stabilisce il principio fondamentale della sua ermeneutica: l’interpretazione della Scrittura non è in ultima istanza una questione tecnica, ma teologica. Tutta l’abilità e tutta la perspicacia dei rabbini non sono in grado di attraversare il sottile velo che li separa da una reale comprensione. Qualsiasi sforzo umano non basta ad attraversarlo. Paolo lo sapeva per esperienza personale. Descrivendo la fase giudaica della sua vita, non può far altro – l’abbiamo visto – che riconoscere come nel giudaismo superasse “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” . Questo zelo lo aveva portato a studiare presso uno dei rabbini più prestigiosi del suo tempo, Gamaliele. Munito di questo bagaglio, era convinto di comprendere le tradizioni meglio dei seguaci di Colui che a suo parere le metteva in pericolo, e così secondo lui era legittimo perseguitarLo. Soltanto la grazia della rivelazione del Figlio, concessagli da Dio, ha permesso la rimozione del velo e con questo il reale raggiungimento del vero significato delle tradizioni ricevute.
In tal senso – per limitarci a citare un altro esempio del rinnovato interesse che negli ultimi trent’anni ha suscitato questo capitolo come testo chiave dell’ermeneutica paolina dell’Antico Testamento – P. Stuhlmacher ha richiamato l’attenzione sul vincolo tra l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e 2Cor 3,14, testo in cui Paolo rende esplicito il fondamento della sua ermeneutica. 2Cor 3,14 mostra – secondo il professore di Tubinga – che l’esperienza di Paolo lo ha costretto a concludere che sulla lettura e l’interpretazione della legge era posto un ‘velo’ che occultava al giudeo il suo vero significato e, di conseguenza, gli impediva di giungere a una vera comprensione di Cristo. In Cristo questo velo scompare, rendendo così possibile una vera comprensione della Legge. Secondo Stuhlmacher, l’esperienza cristologica di Paolo è il punto di appoggio sia della sua visione della Legge, sia della sua ermeneutica dell’Antico Testamento . Il principio ermeneutico cristologico tuttavia non impedisce a Paolo l’utilizzo delle tecniche esegetiche del suo tempo, come dimostra anche il testo che stiamo commentando. Lo studio dell’uso dell’Antico Testamento nelle lettere rende manifesto il fatto che Paolo abbia messo al servizio di questo principio ermeneutico, ancorato alla sua esperienza, tutte le sue conoscenze di esperto rabbino. Molte citazioni dell’Antico Testamento che troviamo nelle sue lettere sono così complesse che si possono spiegare solo col fatto che Paolo aveva acquisito una totale padronanza dei metodi esegetici del suo tempo. Principio cristologico e principio razionale, ossia l’impiego di determinate tecniche di interpretazione, non sembrano dunque assolutamente contrapposti nell’uso che ne fa Paolo. Lo dimostra il fatto che l’utilizzo dei testi dell’Antico Testamento da lui citati non è assolutamente arbitrario, ma particolarmente accurato nel rendere il loro significato originale nei rispettivi contesti . Le regole ermeneutiche tuttavia non sono usate in modo neutro, ma alla luce dell’avvenimento che ha determinato la sua vita. Sottolinea M. Hooker: “La differenza fondamentale tra Paolo e i suoi contemporanei non è, dunque, una questione di metodo, dato che egli usa tecniche che ad essi erano familiari, anche quando a noi risultano estranee. [La differenza] consiste piuttosto nell’accettazione del fatto che Cristo stesso è la chiave del significato della Scrittura” . E la ragione di questa differenza si basa, secondo la studiosa, sul fatto che, avvicinandosi alla Scrittura, “Paolo parte dall’esperienza cristiana e spiega la Scrittura alla luce di questa esperienza” . In questo modo Paolo ci insegna una volta per tutte che la contemporaneità di Cristo è l’unica in grado di svelare il senso della Scrittura. Ieri come oggi.

b. La stoltezza dei Gàlati
Ma come può conoscere Cristo uno che non abbia la grazia che ha avuto Paolo di una apparizione di Cristo risorto? Come può partecipare all’avvenimento che gli consenta di fare esperienza di Cristo per poter conoscerlo? Quanto accadde nelle chiese della Galazia è altamente significativo e funge da esempio spettacolare.
I galati hanno avuto notizie di Cristo attraverso l’annuncio del vangelo grazie all’attività missionaria dell’Apostolo. L’accoglienza di questo annuncio da parte dei Galati ha consentito loro di fare l’esperienza che Paolo sintetizza meravigliosamente in queste parole: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” . E continua, poco oltre: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” . L’incorporazione in un gruppo ben preciso, la comunità cristiana, attraverso un gesto determinato, il battesimo, dopo aver accolto il Vangelo, il cui contenuto è condiviso da Paolo con gli altri apostoli, da allora ha permesso ai Gàlati di avere esperienza della novità che Cristo ha introdotto nella storia. Questa esperienza è talmente reale che Paolo si appellerà ad essa per aiutare i Galati ad affrontare una situazione in qui si sono venuti a trovare.
Infatti, poco dopo essi vengono importunati da alcuni intrusi i quali annunciano “un altro vangelo”, che per la loro salvezza insieme con la fede in Cristo richiede la circoncisione e le opere della legge . I Gàlati così si trovano davanti due versioni del ‘vangelo’, e devono prendere una decisione. Sorpreso dalla rapidità con cui essi stanno passando a un ‘vangelo’ diverso da quello che ha predicato , Paolo scrive la lettera per dimostrare che “non ce n’è un altro”, ma solo quello che ha annunciato loro e ciò che li sta ammaliando non è altro che una deformazione dell’unico Vangelo di Cristo . Per questo, nella prima parte racconta la sua storia personale: come ha conosciuto il Vangelo per rivelazione e come questo Vangelo che predica è l’unico Vangelo, corrispondente a quello degli altri apostoli, come dimostra il fatto che quando lui aveva esposto il vangelo che predicava tra i gentili direttamente alle colonne della Chiesa di Gerusalemme (cioè Pietro, Giovanni e Giacomo), non solo non gli imposero né aggiunsero nulla di nuovo , ma gli tesero la mano in segno di comunione, come riconoscimento della “grazia a me conferita” sulla via di Damasco.
Ma Paolo non si limita a questo, e nella seconda parte della lettera fornisce ai travagliati Gàlati gli argomenti con cui potersi difendere dagli attacchi che stanno ricevendo. Paolo sa per esperienza personale che fu portato a convincersi della verità di Cristo dall’esperienza del suo incontro con Lui. Tenendo conto di questo fatto, non risulta strano che l’apostolo in questa seconda parte cominci appellandosi all’esperienza dei Gàlati. Ecco il testo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo” .
In questo passo Paolo mette in primo luogo davanti agli occhi dei Gàlati il fatto che abbiano ricevuto lo Spirito, e i prodigi che questo Spirito ha operato tra loro. Come osserva acutamente Vanhoye, “nel contesto si tratta necessariamente di un fatto osservabile, constatabile. Altrimenti non potrebbe servire come argomentazione” . Proprio perché è un fatto verificabile, i Gàlati hanno potuto fare l’esperienza dello Spirito, e ciò permette a Paolo di appellarsi a questa esperienza come criterio decisivo per chiarire il dilemma che ora devono affrontare. Per questo, – ha sottolineato J. Dunn – “appellarsi all’esperienza da parte di Paolo non è un fatto periferico o casuale. È al centro della sua intenzione di trattenere i Galati all’interno del suo vangelo” .
Prima di continuare è necessario soffermarsi brevemente sul valore del verbo paschein perché sul suo significato è nata una vivace discussione. La ragione di questa discussione si basa sul fatto che il verbo è sempre usato con il significato di ‘soffrire’ . Per questo motivo commentaristi antichi e moderni hanno interpretato l’epathete di 3,4 come un’allusione ai patimenti sofferti dai Gàlati in conseguenza della loro adesione alla fede . Se ora la abbandonassero, passando a un altro ‘vangelo’, tutte queste sofferenze sarebbero state vane. Tuttavia la letteratura greca documenta anche casi in cui paschein viene usato rispetto a esperienze favorevoli, positive, prive di sofferenza . Per questo recentemente alcuni studiosi hanno interpretato il verbo in questione nel nostro testo nel senso di ‘sperimentare, fare l’esperienza di qualcosa di positivo’. A loro parere, questo è l’unico significato adeguato al contesto in cui compare il verbo nel nostro testo, in cui Paolo si sta appellando all’esperienza positiva vissuta dai Gàlati quando hanno ricevuto lo Spirito e, in seguito, ai miracoli che lo Spirito ha realizzato fra di loro . Secondo F. Mussner, “tosauta può designare unicamente i doni dello Spirito e i ‘prodigi’ che discendono da lui (cfr. 5,5). Il verbo paschein ha anche un significato positivo: ‘sperimentare’ (qualcosa di buono)” . Il fatto che Paolo non alluda in nessun altro passo della lettera a sofferenze vissute dai Gàlati – diversamente da quello che dice, per esempio, dei Tessalonicesi, che ricevettero e mantennero la loro fede fra gravi tribolazioni –, è per questi studiosi una conferma dell’uso positivo del verbo in tale contesto. Dato che il verbo paschein può avere il significato più neutro di ‘sperimentare’, e che la scelta del significato è determinata dal contesto, orientato interamente verso un tenore positivo, possiamo concludere che con esso Paolo si sta riferendo alle esperienze positive vissute dai Gàlati dal momento in cui decisero di ricevere il vangelo di Paolo. Scrive R. Longenecker “Per questo tosauta epathete deve essere interpretato con ogni probabilità come riferito all’insieme di esperienze spirituali positive” .
Ma che cosa significa ‘ricevere lo Spirito’ ? È ben noto che a partire da H. Gunkel le opinioni sono concordi e si possono sintetizzare con queste parole: “La teologia del grande apostolo è un’espressione della sua esperienza, non delle sue letture... Paolo crede nello Spirito divino, perché lo ha sperimentato” . Uno degli ultimi studi sulla questione non ha fatto altro che confermare questo convincimento: per Paolo lo Spirito era una realtà sperimentata . Ma Paolo, nella sua concisione, non ci ha facilitato: non ci fornisce una descrizione esplicita dei fatti cui si riferisce, che certamente erano noti ai Gàlati (ma non a noi). Possiamo però essere certi che non furono troppo diversi da quelli enumerati in Gal 5,22, quando Paolo fa un elenco dei frutti che lo Spirito produce in coloro che lo ricevono: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. In altre parole: il cambiamento dell’io. Inoltre, nel nostro passo troviamo l’altra espressione energôn dynameis, “colui che opera miracoli”. Si tratta di un’azione presente, lo dimostra il participio presente energôn. Come leggiamo in 1Cor, dove “il dono di far guarigioni” e “il potere dei miracoli” (energêmata dynameôn) sono attribuiti allo Spirito. Questi fatti accertabili costituiscono l’esperienza dei Gàlati. “Qui l’obiettivo è ricordare ai Gàlati un genere di esperienze sufficienti a dimostrare che essi hanno ricevuto lo Spirito escatologico” .
Dopo aver messo loro di fronte le grandi cose (tosauta epathete) di cui hanno fatto esperienza, può porre la questione decisiva: “Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge [perché siete fedeli alla legge ebraica] o perché avete creduto alla predicazione [all’annunzio cristiano]?” . Se saranno onesti e leali rispetto all’esperienza vissuta, potranno riconoscere attraverso di essa che le grandi cose successe a loro non hanno origine dall’osservanza della legge, dato che il Vangelo predicato da Paolo non la includeva come fattore determinante, ma soltanto dall’ascolto della fede. Soltanto la fede è l’origine dei frutti che vedono con i loro occhi! Questo è il motivo per cui conviene che continuino ad abbracciare il Vangelo che ha prodotto tra loro tanti frutti preziosi.
Appellandosi dunque alla loro esperienza, Paolo offre al contempo il metodo per uscire dallo stato di perplessità in cui si trovano: tutte queste esperienze positive non significano nulla per voi, quando vi trovate di fronte al dilemma se continuare con lo Spirito o tornare alla legge giudaica? . Saranno state vane? Come l’esperienza sulla via di Damasco, cui l’Apostolo ha fatto allusione all’inizio della lettera, ha permesso a Paolo di riconoscere la verità su Cristo (e quindi di scegliere ragionevolmente tra le due interpretazioni della persona di Gesù, quella degli ebrei seguaci del sinedrio e quella cristiana), così l’esperienza dei Gàlati è ciò che permette loro di decidere in modo ragionevole tra le due interpretazioni del Vangelo. Certamente Paolo è cosciente del fatto che sono esperienze di natura molto diversa. Ma questa differenza non sminuisce la loro validità. Nel caso di Paolo l’esperienza dell’incontro con Cristo risorto gli fa conoscere in modo diretto, immediato, la vera realtà di Cristo. Nel caso dei Gàlati il modo per arrivare a conoscere la realtà profonda di Cristo ha seguito un altro corso, non per questo meno adatto a giungere a una certezza. I Gàlati hanno davanti segni palpabili della Sua presenza in mezzo a loro grazie all’azione condotta dallo Spirito attraverso la predicazione, il battesimo, eccetera. Sanno bene che questi segni sono iniziati a partire dal momento in cui hanno deciso di ricevere il Vangelo di Gesù. Sono dunque segni che non possono essere spiegati ragionevolmente se non con la presenza di Cristo risorto in mezzo a loro a opera dello Spirito. Per strade diverse, tanto Paolo quanto i Gàlati ne possono essere certi. Questo dovrebbe convincerli della verità del vangelo di Paolo. La loro esperienza permette che giudichino da soli, senza dipendere né da Paolo né dagli intrusi. Qui risiede il valore dell’appellarsi di Paolo all’esperienza: è in essa che si rende trasparente la verità del Vangelo che Paolo ha predicato loro.
Tutto ciò permette di comprendere la reale portata dell’accusa di ‘stoltezza’ mossa da Paolo ai Gàlati. “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati” . Con essa – commenta Vanhoye – “quello che [Paolo] cerca è di provocare la presa di coscienza da parte dei Galati della loro ‘stoltezza’” . In che cosa consiste la loro stoltezza? Nonostante quanto si è reso evidente grazie alla loro esperienza – ossia che la loro adesione al Vangelo ricevuto da Paolo ha procurato straordinari benefici, come documenta ciò che è loro successo –, i Gàlati sono sul punto di lasciare tutto per seguire un altro ‘vangelo’. La stoltezza dei Gàlati, la loro posizione irragionevole, si basa sul non voler sottomettere la ragione all’esperienza vissuta. Se non si lasciassero ammaestrare da questa esperienza, essa risulterebbe realmente vana. Come ha acutamente notato J. Bligh, “se l’esperienza non ha insegnato loro nulla, allora è stata vana” . Invece di fornire ulteriori motivi a favore della loro adesione a ciò che hanno ricevuto, tutto quello che hanno vissuto fino a ora sarebbe paradossalmente stato inutile. “L’esperienza cristiana dimostra l’efficacia salvifica della fede senza alcun riferimento alle opere della legge. Questo fatto iniziale è fondamentale. Il seguito deve corrispondere all’inizio, deve mantenersi sullo stesso piano. I Gàlati però stanno cambiando livello. Dal livello spirituale, dove li ha posti la fede, scendono al livello carnale. È assurdo. Non sono coerenti con la loro propria esperienza. Dio, invece, è coerente, non inizia in un modo per continuare in un altro. Come ha iniziato, così continua, ossia comunica lo Spirito non attraverso le opere della legge, ma attraverso l’ascoltare/ricevere la fede” .
Ancora una volta dunque ciò che permette di discernere tra le diverse interpretazioni non è una questione tecnica, ma teologica, o meglio cristologica. È l’avvenimento di Cristo morto e risorto – che per opera dello Spirito si rende presente nella Chiesa e attraverso la Chiesa, comunicandosi alla ragione e alla libertà dell’uomo – a rendere possibile un’esperienza che permette di decidere in ogni momento rispetto alle diverse interpretazioni che possono comparire nel corso della storia umana.


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L’esperienza di Paolo e dei Gàlati ci ha mostrato qual è la condizione per conoscere Cristo: la partecipazione all’avvenimento in cui Lui si rende presente all’esperienza umana. In questo senso possiamo dire che Paolo e i Gàlati sono una documentazione che la conoscenza è sempre un avvenimento. Nessun altro metodo può darci una vera e propria conoscenza. Perché? Vediamolo nel caso di Paolo coi Gàlati.
Tanto l’uno quanto gli altri sono nati in un popolo che li ha introdotti alla realtà attraverso una cultura. A entrambi, così situati storicamente, quindi dotati della tipica precomprensione, va incontro Cristo (direttamente come nel caso di Paolo, oppure attraverso la Chiesa, come per i Gàlati) provocando in loro il dilatarsi della ragione, chiamata a riconoscere la novità che hanno davanti, come succedeva ai discepoli, la cui “capacità di credere”, dice H.U. v. Balthasar, era “completamente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù” . Avvenimento cristiano e ragione non si contrappongono nella conoscenza. Al contrario, come si vede dalla questione del velo mosaico, l’avvenimento cristiano libera la ragione dai limiti cui normalmente si conforma seguendo le usanze della propria cultura e tradizione, la restituisce al suo dinamismo più specifico, ossia all’aprirsi liberamente alla comprensione della totalità della realtà, e nella sua novità radicale, come presenza di Dio tra gli uomini, la porta gratuitamente più in là di dove arriverebbe con le sue proprie forze .
Quando la libertà di coloro che incontrano l’avvenimento cristiano non si sottrae all’attrazione che la Sua presenza provoca in essi, inevitabilmente si impegnerà a verificarne la corrispondenza con tutti gli aspetti della realtà, giungendo così alla certezza che permette la loro ragionevole adesione. Il caso dei Gàlati dimostra chiaramente che l’annuncio cristiano non viene accettato in modo acritico. Se Paolo si appella all’esperienza dei Gàlati, è precisamente perché non pretende una resa incondizionata al Vangelo – che sarebbe assolutamente indegna della loro natura razionale di uomini –, ma li invita semplicemente a sottomettere la loro ragione all’esperienza vissuta, di modo che quella non si erga a criterio di giudizio avulso da questa, rendendo così vana, inutile, la storia che hanno vissuto, e diventando così irrimediabilmente stolti. L’onestà e la lealtà verso l’esperienza vissuta permette invece di aderire in modo pienamente ragionevole e insieme pienamente libero.
Il caso di Paolo e dei Gàlati è paradigmatico in ogni momento della storia poiché, come per loro, l’avvenimento di Cristo diventa contemporaneo nella vita della Chiesa per ogni uomo, nelle sue circostanze storiche e culturali, permettendogli di vivere la stessa esperienza che consente di raggiungere la certezza sulla verità di ciò che essa annuncia. Questo è così perché, come dice H. Schlier, “il significato ultimo e peculiare di un avvenimento, e pertanto dell’avvenimento stesso nella sua verità, si apre sempre solo a un’esperienza che gli si abbandoni e in questo abbandono cerchi di interpretarlo, a un’esperienza che è vera, se è adeguata all’avvenimento in questione” .
Che questo è il metodo non soltanto dell’inizio, ma anche della continuazione della conoscenza ce lo testimonia Paolo nella Lettera ai Filippesi. Infatti l’unico modo di progredire nella conoscenza di Cristo è accettare di partecipare all’avvenimento di Cristo ora, nella potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all'eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” .
Consapevole che progredire in questa conoscenza è un dono, come è stato un dono l’inizio, Paolo invita i cristiani di Efeso a implorare Dio Padre “affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” .

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