domenica 4 marzo 2007

CARO DIRETTORE,MI DIMETTO DA GIORNALISTA


Caro direttore, mi dimetto da giornalista
Libero 2 marzo 2007
di RENATO FARINA
....Un tribunale del popolo. Mi sarebbe piaciuto esserci: acclamazione o pollice giù? Neanche un amico, uno con un dubbio piccolo piccolo, del tipo: prima sentiamo che dice. Niente.....

" Gesù Cristo oggi è l’unica risposta alle domande del cuore."

L'articolo qui sotto riporta il grido di un amico.
Un amico che con noi ha sempre camminato che ci ha sempre accompagnato.
Non possiamo non fermarci non ascoltare la sua domanda.
Non possiamo rimanere indifferenti a quanto gli sta capitando.
Che importa conoscere tutte le vicende?Facciamo si che quello sguardo d'amore e di stima che Renato ha potuto incontrare durante il periodo liceale,lo possa ancora incontrare nei volti dei suoi amici.
Gli amici siamo noi.Non lasciamolo solo ,solo dentro un abbraccio incondizionato un uomo puo' affrontare qualsiasi dolorosa vicissitudine.




Caro direttore, mi dimetto da giornalista
Libero 2 marzo 2007
di RENATO FARINA
Caro direttore, permetti che mi rivolga ai lettori di Libero, tanto tu sai tutto. Mi sono dimesso dall'Ordine dei giornalisti. Ho restituito la tessera il cui numero non ricordo: l'ho cercata nel portafoglio con quella vecchia foto di quando ero giovane, e non c'era più. L'ho messa un paio d'ore fa nelle mani del presidente. Non è bella questa sensazione. Io sono io. Ma mettetevi nei miei panni. È come se aveste restituito al direttore didattico la licenza di quinta elementare o al rettore la laurea. Voi siete quello che siete. In fondo che cos'è un pezzo di carta? Ma era roba mia. Mi ricordo la fatica di preparare l'esame. E poi l'essere arrivato primo tra i candidati lombardi, e il registratore datomi in premio con una cerimonia perché ero stato bravo e c'erano i genitori. Però mi sento anche come uno che è scampato ad un plotone di esecuzione ed ho il senso di tepore di chi è tornato a casa, con la barba lunga, ma l'odore è quello delle mie cose. Non so se ci avete capito qualcosa di quanto mi è successo. Sarò sobrio e piuttosto carico di benevolenza nei miei confronti. Sono stato indagato dalla procura di Milano per aver favorito il Sismi (il Servizio di sicurezza militare italiano, roba dello Stato democratico) nel caso del rapimento dell'imam fondamentalista Abu Omar. In tanti sono convinti che, se si frugasse in casa mia, si troverebbe il suo turbante. Non è così. Non l'ho mai visto né conosciuto. Nell'intrico di una storia che adesso sta muovendo le diplomazie internazionali e dove persino due premier nemici in tutto (Berlusconi e Prodi) sono d'accordo nel difendere il Sismi, io sono stato stritolato come un vaso di coccio tra vasi di ferro. Ho patteggiato. Ho rinunciato a difendermi in un processo che sarebbe durato tanti anni e da cui sono certo sarei uscito assolto ma morto. Pagherò una multa di 6840 euro. Ho avuto rapporti leali con il pm Armando Spataro, e sono stato ricambiato di uguale moneta. PER QUATTRO DENARI Diverso il caso dei colleghi dell'Ordine dei giornalisti. Prima mi hanno sospeso per dodici mesi con motivazioni pazzesche ("guerra personale contro l'Islam" neanche fossi il reciproco di Bin Laden). Ma ero persino contento. Quando c'è gente che ti vuole eliminare, ho scoperto che si è disposti a ringraziare chi si accontenta di rifilarti una bastonatura. E dire che avevo contribuito a salvare la vita di colleghi. I soldi? Sono quattro denari e - ora posso dirlo - non erano una retribuzione e non erano per me. Sfido il nuovo governo, il Comitato parlamentare per i servizi segreti e il direttore del Sismi nominato da Prodi, ammiraglio Branciforte, a sostenere il contrario. In cambio di questo, senza considerare le circostanze che mi hanno indotto ad infrangere le regole, sono stato e continuo a essere considerato un reietto. Siccome sono un giornalista, dovevo limitarmi a prendere appunti o dovevo dare una mano a salvare Giuliana Sgrena (e prima altri)? Invece mi è capitato di tutto. Il linciaggio dei colleghi. La mia persona e la mia famiglia oggetto di attentati e di minacce gravi e ripetute da parte del "Fronte rivoluzionario per il comunismo". Ancora nei giorni scorsi un collettivo proletario si è espresso nel senso della mia esecuzione fisica. Hanno controllato gli spostamenti di mia moglie, l'auto su cui viaggiava. Hanno descritto casa mia. I simpatici amici del Giornale hanno scritto il mio indirizzo di casa, se mai a qualche giuggiolone fosse stato ignoto: non mi è giunta una sola espressione di umana solidarietà personale o tanto meno pubblica da parte di alcun organo regionale o nazionale della categoria giornalistica. L'unico momento di buon umore è stato quando i compagni, nel comunicato dove decretavano la pena capitale, hanno descritto il mio domicilio come «un anonimo palazzone di periferia». Mi sono sentito offeso. Ragazzi, è un bel condominio. Ma dove cavolo abiteranno 'sti comunisti? Avevo deciso di difendermi dinanzi all'Ordine nazionale. Ho buoni argomenti. Poi ci ho riflettuto, con l'aiuto tuo, caro Vittorio, e della splendida avvocatessa Grazia Volo (dico avvocatessa perché si offende). Oltre che di Francesco Cossiga (Dio lo benedica), il quale mi ha detto: «Il cappio è già pronto». Lo supponevo. IL LORO BERSAGLIO Del resto c'è la campagna elettorale in corso per il rinnovo di quelle poltrone. Ero destinato a fungere da bersaglio. Il motto era: chi colpisce più forte è il miglior difensore della categoria. Il presidente Lorenzo Del Boca (il moderato), il segretario Vittorio Roidi (la sinistra), i due leader massimi, si erano già espressi lo scorso luglio. Prima ancora di ascoltarmi, incuranti del dovere dell'imparzialità e della riservatezza del giudice, mi hanno invitato alla "autoradiazione": non ho ben capito se da un albo o dalla vita civile. Poi c'è stata unanimità ribadita e ostentata da parte del Consiglio nazionale: alla mia richiesta di sospendere la sospensione (scusate), e di poter almeno scrivere in attesa della sentenza definitiva, hanno risposto al cento per cento contro. Il plenum è di 120 e rotti. Un tribunale del popolo. Mi sarebbe piaciuto esserci: acclamazione o pollice giù? Neanche un amico, uno con un dubbio piccolo piccolo, del tipo: prima sentiamo che dice. Niente. Tra l'altro, nei giorni scorsi hanno già deciso di accettare un ricorso a me avverso della Procura ge- nerale di Milano. Non esito a scriverlo: roba sgangherata nella forma e offensiva nella sostanza. Senza avermi mai visto, il sostituto procuratore generale pretende di entrare nelle mie intenzioni intime, cose sulle quali anche San Pietro, prima di spedirmi all'inferno, ascolterebbe prima qualche testimone. Questo documento per di più - qui mi appoggio a vasta dottrina giurisprudenziale - era stato depositato oltre i tempi consentiti e quindi nullo. Niente: per la congrega era buono. Ma a che serve descrivere queste torture? Hanno caricato il fucile. Non mi faccio fucilare alla schiena. Ho rinunciato a difendermi, ma anche a essere vilipeso. Ho buttato via il pezzo di carta più importante della mia vita, strapparmelo fa sanguinare il petto. Ricordo la coda alla vaccinara mangiata a Trastevere con Roberto per festeggiare la promozione. Ora recupero almeno il mio nome di libero cittadino che ha la possibilità di esprimere il suo pensiero. Non serve appellarsi alla Costituzione, qui da noi c'è un gruppo di giornalisti che se la sono intascata. Si intitola "Articolo 21". Si ispira all'omonimo passo della Costituzione che sancisce la libertà di espressione. Però, ci dev'essere un comma che ci hanno tenuto nascosto. Infatti si legge nello statuto della conventicola, nel cui sito sono stato definito «agente della Cia» (troppa grazia), che l'articolo 21 va affermato «contro ogni forma di censura e di giustizialismo di destra» (testuale). Costoro sono grossa parte del Consiglio nazionale... Mi appello allora alla dichiarazione dei diritti dell'uomo. Scherzo. Busso alla vostra stima e al vostro affetto. Adesso non si può usare la parola "onore" perché ritenuta retorica. Va bene "dignità"? Non posso più sopportare sia macchiata ancora. Dopo la radiazione ci sarebbero stati altri tre gradi di giudizio. GIÙ DAL TRENO DEI MATTI Voglio scendere da questo treno di matti e pure cattivi. Se non altro per la responsabilità che porto verso la mia famiglia, i colleghi di Libero e voi lettori che - tutti, credo! - non vi siete mai sentiti da me traditi. Mia moglie, che è una che studia e pensa, mi ha passato due citazioni. Una è di Shakespeare e lei sostiene fosse cara ad Alfred Dreyfus, considerato traditore ma non lo era: «Chi mi ruba la borsa, mi ruba un gingillo che vale qualcosa ma non è nulla, che era mio e adesso è il suo ed è stato di mille altri. Ma colui che mi froda del mio buon nome mi priva di ciò che non arricchisce lui e impoverisce me». Lo dice Iago, nel terzo atto dell'Otello. Ma almeno lui morì per una donna. La seconda citazione mi trova un po' tremante. È stata scritta da uno infinitamente più degno di me. E non c'è bisogno di spiegare a chi la dedico. «Pur restando in questo Paese non desidero più stare con voi... Portate pure il fardello di uomini grigi, fate quello che siete abilitati a fare: strangolate, perseguitate, non date tregua. Ma senza di me. Restituisco la tessera n. 1471» (Georgij Vladimov si dimette dall'Unione degli scrittori dell'Unione Sovietica). Cercherò di non farvi mancare, direttore permettendo, la mia opinione. Accetto di essere fucilato solo da te, direttore (sono lungo, scusa, ma manco da tanto); da voi, lettori. E nonostante l'euforia da funerale vi confesso che sono un po' commosso di ritrovare il mio nome in mezzo alla mia gente.


1 commento:

caggio ha detto...

Non So se e' ancora valida, ma qui c'e' la raccolta firme per revocare la sospensione di Renato Farina.

http://www.petitiononline.com/farina/petition.html