lunedì 31 maggio 2010

SCUOLA PER OPERE DI CARITA'

.......Nella Vita di san Benedetto scritta da san Gregorio Magno, si dice che san Benedetto,
desideroso di piacere solo a Dio, nei primi anni della sua vocazione si ritirò in una grotta sui monti di Subiaco e lì vi rimase tre anni, fino a quando il suo nascondiglio fu scoperto da alcuni pastori.
Questi, vedendolo così malandato nelle vesti e nell’aspetto, lo scambiarono prima per una bestia,ma quando lo udirono parlare si scoprirono loro bestiali nel cuore. Così cominciarono a frequentarlo e a portargli i loro figli, affinché li istruisse secondo la sua sapienza. Segno, questo,che quei tre anni che Benedetto passò in solitudine, non li passò senza fare niente, annoiato, non li passò per fuggire le problematiche sociali, ma per vivere più profondamente la responsabilità
personale di fronte al mistero di Cristo, per tutti gli uomini. Questo l’ha fatto aderire potentemente alla realtà, tanto è vero che san Benedetto non ha letto questo suo essere stato scoperto con la preoccupazione di proteggere un passato, ma come l’inizio di una risposta nuova davanti al Mistero presente. Che libertà!.....



10 aprile 2010 Stefano Giorgi
Come dicevamo nell’invito per la Scuola Opere di Carità di quest’anno il nostro obiettivo,con la realizzazione di una scuola, è quello di «introdurre [chiunque ne avverta il bisogno] al metodo di lavoro che caratterizza le opere di carità: metodo incentrato sulla condivisione del bisogno e sulla costruzione di luoghi di reale accoglienza».Dallo scorso anno, raccogliendo la sfida che ci fece don Carrón nell’assemblea conclusiva dell’edizione che aveva come titolo “La carità alla radice della risposta ai bisogni”, la modalità con cui procede la nostra Scuola è quella di lezioni che affrontino un tema cruciale per la vita delle opere a partire dal racconto di un’esperienza viva in atto.



Così è stato con don Eugenio, che il 24 ottobre ci ha introdotti al grande tema della libertà
come esperienza, innanzitutto per noi: «Il problema non sono gli altri», diceva. «Che la libertà
possa cominciare ad essere un’esperienza è l’unica possibilità di bene dentro il mondo. L’unica
possibilità di bene per il mondo è un uomo libero, cioè che questa esperienza di bene, di letizia,
appunto di libertà, incomincia ad entrarti nel corpo».
Ed è stato lo stesso anche con Bernhard Scholz il 10 dicembre, quando ha trattato il tema
del lavoro coniugando la libertà con un’altra grande categoria: la responsabilità: «La dinamica del
lavoro è sempre una dinamica rivolta ad uno scopo», ci ha detto raccontando di sé: «Il lavoro è sempre orientato verso, il problema è verso che cosa. La professionalità è l’usare in modo sistematico e utile gli strumenti a disposizione per raggiungere lo scopo... e lo scopo di tutto è che
emergano soggetti nuovi: le nostre opere non sono fatte per mettere tutto a posto, ma per far nascere un soggetto libero e responsabile. Chi ci lavora e chi ci viene affidato. E una vera responsabilità te la puoi assumere solo se capisci che tu sei di più di quello che fai o che dici».
Siamo oggi alla terza tappa del nostro cammino e il tema è l’aspetto economico e la sua incidenza nella vita delle opere.
È anche questa una lezione che parte dal racconto di
un’esperienza significativa, quella del monastero.
Nella nostra storia il monachesimo non ha mai rappresentato un richiamo esclusivamente“spirituale”, quanto il riferimento ideale di una ricostruzione sociale. Questa descrizione che fa il cardinale Newman dell’esperienza dei monaci ci è sembrata estremamente significativa per introdurci al lavoro di quest’oggi:
«San Benedetto trovò il mondo sociale e materiale in rovina, e la sua missione fu di rimetterlo in sesto. Non con metodi scientifici, ma con mezzi naturali. Non accanendosi con la pretesa di farlo entro un tempo determinato o facendo uso di un rimedio straordinario o per mezzo di grandi gesta, ma in modo così calmo, paziente, graduale, che ben sovente si ignorò questo lavoro fino al momento in cui lo si trovò finito. […]Uomini silenziosi si vedevano nella campagna o si scorgevano nella foresta,scavando, sterrando e costruendo, e altri uomini silenziosi, che non si vedevano, stavano seduti nel freddo del chiostro, affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti che avevano salvato. Nessuno di loro protestava su ciò che faceva. Ma, poco per volta, i boschi paludosi divenivano eremitaggio,casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola e infine città.»
John Henry Newman, Historical Studies,
Per questa ragione il monachesimo per noi rappresenta un ideale da guardare nella costruzione dell’opera. Il monastero è un esempio di quel “realismo” e di quella “prudenza” che don Giussani ha richiamato quali caratteristiche dell’opera nel discorso alla Dc lombarda del 1987, ad Assago.
«Occorre osservare che tali movimenti sono incapaci di rimanere nell’astratto.
Nonostante l’inerzia o la mancanza di intelligenza di chi li rappresenta o di chi vi
partecipa, i movimenti non riescono a rimanere nell’astratto, ma tendono a mostrare la loro verità attraverso l’affronto dei bisogni in cui si incarnano i desideri, immaginando e creando strutture operative capillari e tempestive che chiamiamo opere, “forme di vita nuova per l’uomo”, come disse Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini nel 1982, rilanciando la dottrina sociale della Chiesa. Le opere costituiscono vero apporto a una novità del tessuto e del volto sociale.

Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere:
realismo e prudenza. Il realismo è connesso con l’importanza del fatto che il fondamento della verità è l’adeguazione dell’intelletto alla realtà; mentre la prudenza che nella Summa di san Tommaso è definita come un retto criterio nelle cose che si fanno, si misura sulla verità della cosa prima che sulla moralità, sull’aspetto etico di bontà. L’opera, proprio per questa necessità di realismo e prudenza, diventa segno di immaginazione, di sacrificio e di apertura.” (Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere. Contributi da
un’esperienza, Marietti 1820, pp. 168-169)
Abbiamo invitato padre Sergio, priore del monastero della Cascinazza, perché ci racconti la sua esperienza del monastero come “opera” e per dialogare con lui su un tema che riteniamo cruciale per la concezione e lo sviluppo delle nostre opere: l’aspetto economico. Aspetto la cui centralità è resa ancora più evidente dalla crisi economica nella quale le nostre opere sono state coinvolte, sia
direttamente sia in quanto “baluardi” di carità e, per questo, chiamate ad arginare gli effetti di questa crisi.
Monica Poletto
Innanzitutto tantissime grazie a padre Sergio. Sono molto contenta che sia venuto qui tra noi. Capisco il sacrificio dell’affronto di certi temi in una vita già così piena, e per questa ragione lo ringraziamo tanto.
Abbiamo detto che il metodo della scuola è la testimonianza: per questo, la prima cosa che ti chiediamo è la tua storia e la storia della tua opera che è il monastero della Cascinazza.Nel racconto che fai ti chiedo di tenere conto di una questione che è emersa nel nostro direttivo della CdO-Opere sociali, quando abbiamo discusso di questa mattina. Uno di noi ci ha chiesto se tu fossi la persona più adeguata a parlare di soldi e crisi, in quanto in questo momento siamo tanto esposti ai problemi della gente, abbiamo file di persone che vengono a chiederci il
lavoro (evidentemente le nostre opere in questo momento fungono anche da baluardo sociale). Il monastero ci sembra invece una realtà protetta: è così? A te la parola.

Padre Sergio

Ringrazio della stima e dell’invito a partecipare a un incontro così importante come questo.Mi sentirei più di ascoltare, di imparare che di parlare: sono d’accordo anch’io con quella persona e ho pensato che forse non sono io il più indicato ad affrontare un tema così impegnativo. Ma questa è stata anche l’obiezione che ho fatto a Giorgio Vittadini, quando mi ha chiesto di partecipare a questo incontro. Gli ho detto: «Ma io non so niente di queste cose...». E lui:
«Proprio per questo è importante sentirti». Mi ha quindi liberato dalla mia ignoranza, e posso così liberamente tentare di dare una risposta.

Certamente ci è dato di vivere in un momento, quello attuale, non facile. La situazione politica, economica e sociale, non solo in Italia ma in generale, non gode di ottima salute: anzi, presenta in vari livelli delle spaccature nel sistema, oserei dire peggiori delle crepe provocate nella terra dai recenti terremoti. Queste ultime sono di carattere geologico, e si possono anche assestare col tempo. Ma le crepe del sistema che viviamo risalgono nella profondità dell’io umano, un io
sempre più devastato e in picchiata verso le profondità della propria miseria. E non abbiamo ancora toccato il fondo.

Mi ha sempre colpito, a questo proposito, una frase di don Giussani che mi ha fatto
rabbrividire la prima volta che l’ho sentita, perché non ero capace di rispondere. Diceva: «Non credo di esagerare nell’affermare che moltissima gente non sa assolutamente riconoscere i confini tra la bestia e sé, non conosce cosa sia il proprio di sé, che cosa costituisce veramente l’umano».

(L. Giussani, Uscita dalla violenza, in CL - Litterae Communionis, n. 5/1988, pp. 52-53)
Noi sappiamo che ciò che costituisce l’umano, il proprium dell’umano, è il rapporto con il Mistero. Ce lo ha detto Gesù: «Se rimanete nella mia parola siete davvero miei discepoli,conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).
La verità non è un sentimento, ma è la sua persona reale, che ci rende liberi.
Ebbene, sentite cosa dice Zapatero a Obama nel febbraio di quest’anno al National
Breakfast of Prayer, invitato a dire una preghiera: «La libertà è la verità comune, civica, che ci fa veri, autentici come persone e come cittadini perché ci permette di guardare in faccia il proprio destino e di cercare ognuno la propria verità». Quindi, secondo lui, la libertà è fare ciò che pare e piace, e questa è la verità. La libertà è questo soggettivismo pazzesco.Se ci sono cento milioni di persone che vivono così, non c’è né unità né costruzione, ma una paura e un controllo spietato l’uno dell’altro, perché ognuno potrebbe essere un terrorista.
Quindi, paradossalmente, una circostanza come questa che ora viviamo, potrebbe risultare infine positiva, perché le difficoltà ci costringono ad andare in profondità dei motivi, per prendere coscienza fino in fondo di questa situazione.
Il Papa all’Angelus del 7 marzo ha detto una cosa che mi ha colpito molto: «La possibilità di conversione esige che impariamo a leggere i fatti della vita nella prospettiva della fede. [Non a livello naturalistico, ma di spostare l’ottica sul piano della fede] In presenza di sofferenza, di lutti,di prove di vario genere, vera saggezza è lasciarsi interpellare dalla precarietà dell’esistenza e leggere la storia umana con gli occhi di Dio, il quale volendo sempre e solo il bene dei suoi figli per un destino imperscrutabile del suo amore talora permette che siamo provati dal dolore per condurli a un bene più grande». Quindi anche una situazione come quella attuale potrebbe essere ottimale per riscoprire la questione di fondo.
Il mio intervento oggi non ha la pretesa di dare la ricetta per risolvere i problemi che affliggono la società e il mondo, quanto di offrire un tentativo di esempio di come far emergere in questo mondo un modo di vivere le stesse identiche cose che vivono tutti a partire da uno sguardo di fede.
La fede sappiamo che è la conoscenza di Cristo presente che ci rende chiaro lo scopo della vita ed è capace di farcelo raggiungere. Per entrare nella domanda che mi è stata fatta, mi aggancerei a quello che ho detto fino ad adesso; e partirei da una frase che don Giussani ci ha detto vent’anni fa: «La natura dell’esperienza che ha fatto nascere la Cascinazza è proprio l’avvenimento nel mondo di un’unità di uomini, che per la visione e l’amore di Cristo bruciano per edificare il mondo; bruciano per edificare la Chiesa. Invece di edificarla come cattedrale, come potevano farla nel Medioevo, è l’edificazione della Chiesa come persona».
Il nostro lavoro, il monastero, è la riedificazione dell’io, attraverso tutto quello che si fa. E questa è l’avventura più emozionante di tutta la vita, più ancora di tutti i mestieri che uno potrebbe mettere in piedi.
Ora, l’io, non solo l’io profondo ma anche l’essere umano, il bambino, nasce quando un altro ti dice: «Tu sei mio, ti voglio, voglio che tu esista». Quando un altro ti afferma per il tuo destino, afferma il tuo essere. È allora che inizi a guardare te stesso con una tenerezza che non hai mai conosciuto, che non sapevi neanche di avere; ti guardi con la stessa tenerezza con la quale sei guardato da Cristo. L’io nasce quando sai a chi appartieni, di chi sei fino in fondo, e quando sai da
chi nasci ogni giorno, tutti gli istanti.
Questo bloccaggio ti libera da ogni egoismo, dalla schiavitù delle cose, nel senso che entri dentro tutte le cose senza paura, perché ti dà in mano tutto, ti dà la chiave di tutto: e quello che puoi offrire è Gesù Cristo stesso, che è tutto. L’allora cardinale Ratzinger, nell’omelia al funerale di don Giussani, diceva: «Se uno non offre Cristo al mondo, non offre niente».Vorrei dirvi oggi quattro passaggi sintetici, per rispondere a questa domanda sulla mia
storia, perché connessa alla mia storia c’è la storia di tutto il monastero, e più o meno le mie vicende sono le vicende dei miei confratelli, in cui sono arrivato a dire “io” con questa consapevolezza. Mi ci sono voluti 15 anni di monastero per poterlo dire.

1. Sono entrato in monastero non per fare il monaco, ma per fare la volontà di Dio, per seguire Cristo in questa forma di vita che Lui mi ha dato per il mio compimento.All’inizio mi sono abbandonato completamente al contesto di obbedienza al superiore e alla comunità, come allo stampo che ti dà la forma. È stata un’obbedienza totale, ma quasi automatica: cercavo di vivere bene tutte le cose, anche con scrupolo, ma al fondo non erano mie,mi sfuggivano.
Questo l’ho scoperto sette anni dopo, quando un giorno venne don Giussani per aiutarci a capire da dove nasce il giudizio di comunione tra di noi, ed ha esordito con queste parole, che mi hanno veramente spiazzato: «Perché ci vuole un giudizio? Perché il giudizio segna la strada conduce. Ma allora, c’è qualcosa che viene prima del giudizio, che è l’amore e la volontà alla strada: questa non è una cosa banale, perché nella misura in cui non si amasse veramente la strada,il giudizio diventa una cosa di cui a uno non importa nulla, o una ricerca del proprio amor proprio.

La strada è l’approfondirsi del nostro rapporto con il Signore». Davanti a queste parole mi sono sentito fuori, perché io avevo un giudizio su tutto ma non amavo nessuno; non avrei dato la vita per nessuno di quelli che erano lì, di quelli che erano stati chiamati con me. In quel momento mi si è reso evidente che lo scopo può essere presente, ma se non lo ami nella carne con cui si presenta, non ci sei tu, non c’è l’io. E allora come si fa a vivere così?

2. Capito questo, sono scattato sul secondo punto, commettendo l’errore opposto. L’errore è la pretesa di essere capaci di darsi un significato, di costruire noi l’unità con le nostre forze, con le nostre intenzioni: costruire un bel monastero nel nome di Gesù Cristo, per Gesù Cristo. Cosa c’è di più bello di questo? Dimenticando che l’unità non si costruisce, ma dall’unità si nasce.
Insomma, mi sono impegnato al massimo perché l’opera diventasse mia. Ma più aumentava il nostro impegno per questo scopo (eravamo tutti dentro questo orizzonte), più l’esito dello scopo sembrava allontanarsi. E più aumentava la difficoltà e lo scandalo di accettare sé e gli altri della comunità, perché i limiti diventavano un’obiezione, diventavano segno di un’incapacità, un giudizio di condanna sulla nostra incapacità di realizzare questo ideale perfetto e utopico.
Ma, come si domanda il Brand di Ibsen: «Non è dunque sufficiente tutta la volontà dell’uomo per costruire anche una sola parte di salvezza?». Questo tentativo utopico per me è durato dieci anni. Non due minuti!
Quanto più si è moralisti, tanto più ci si mette ad accorgersi degli sbagli, si insiste.

3. Terzo passaggio. Al termine di questi 15 anni, era evidente che Cristo mi aveva vinto:ero incapace di costruire l’ideale, non permetteva che io mettessi le mani sull’opera che è Sua. Ma io non volevo accettare questa sconfitta, e come un bambino capriccioso dicevo: se l’opera è sua,si arrangi. Sto qua, lavoro, ma si arrangi. Questa posizione mi ha buttato nell’assurdo: era assurdo
stare in monastero in questa posizione. Mi dibattevo nella melma del mio rifiuto, il quale faceva affiorare sempre più il mio nulla e la mia violenza.Insomma: ero completamente alla mercé di Dio. E lì diventava - e diventa tuttora - chiaro
che, o mi lascio salvare da un Altro, mi lascio costruire la faccia da un Altro, o bestemmio.A quel punto, anche volendo scegliere Dio, non avevo più la minima immagine di chi Lui fosse. Ero solo nella condizione di chi può aspettare una misericordia. Aspettare che Lui arrivasse,come e quando avesse voluto Lui. Quello è stato per me il momento della fede nuda e cruda,perché per certi versi poteva non arrivare mai: mi ha messo in una condizione di estrema mendicanza. Ma Lui, passo dopo passo, è arrivato, e questa volta non ho potuto resistergli, perché
il suo modo di farsi presente è stato di una ragionevolezza e di una bellezza sconvolgenti, più di quello che ti aspetti.
Il suo arrivo mi ha fatto comprendere che il mio io è positivo, così come sono, che il mio limite è positivo, che io non sono positivo in quanto capace di positività, ma perché Lui è la mia positività. Cristo non mi ha tolto il limite, ma con Lui si è liberi dal limite: anzi, il limite te lo tieni caro, perché diventa il modo di riconoscerLo. Il limite viene trasformato in una tensione nel rapporto.
Accettare questo è stata la massima convenienza per me, e l’occasione per rinascere e dire continuamente «io», «il mio io sei Tu che mi abbracci e mi perdoni, che prendi il mio io e mi dai il tuo, che ti sei fatto il mio niente perché io capissi quanto valgo».

Arrivati a questo punto, si incomincia per grazia a gustare ed amare le cose in modo
diverso. C’è una logica capovolta: sei tu che investi le cose di una positività, anziché aspettarti questo dalle cose. Si parte da una pienezza che c’è, che anzi ti investe sempre di più e che aumenta sempre di più.
Io anzi, fisicamente, ho percepito questo passaggio dopo 15 anni in una cosa semplicissima:un giorno ero nel cortile della casa e d’improvviso mi sono reso conto che mancava una tegola sul tetto. E mi sono preoccupato di farlo notare. Prima non m’interessava nulla. Dicevo: qualcuno la metterà su. Ma ricordo ancora fisicamente il contraccolpo di dire: manca una tegola. Lì ho capito che la casa era mia, e che mi era data senza che io lo calcolassi.


Questa rinascita dell’io ha coinciso con la nascita di un’amicizia nuova tra noi monaci, la cui parola adeguata per esprimerla è «miracolo». Il miracolo di una comunione donata,infrangibile, da cui puoi ripartire continuamente perché non l’hai fatta tu, con un gusto nuovo alla vita che investe tutta la realtà di questa certezza.

4.
Il quarto passaggio è stata la mia elezione a superiore del monastero 15 anni fa. Una chiamata a una paternità, a come sorgono le opere, a come sorge l’io nelle persone. Io per carattere sto bene anche da solo, ma il Signore mi ha rotto questa tranquillità chiamandomi a questo compito: educare gli altri alla fede educando me stesso. Tutto ciò che è stato dato a me devo viverlo come responsabilità verso gli altri. Questo non è stato facile e non lo è tuttora, perché il metro di valutazione, se dimentica la propria storia, diventa o spietato o indifferente sugli altri, esigente fino all’inverosimile. Quindi, paradossalmente, i fratelli mi sono di aiuto solo con il loro esserci, indipendentemente da quello che fanno o sono: con il loro esserci mi richiamano allamisericordia che ho ricevuto.
Il loro esserci è la correzione continua per me al motivo per cui sono in monastero. E la
frase decisiva che mi disse don Giussani nei primi anni di questo compito, che ha dato una svolta a questa mia posizione, è stata: «Guarda che tu devi guardare i tuoi fratelli come li guarda Dio. Non come li guardi tu, ma come li guarda Dio».Nel dirmi questo ho capito che non era una presunzione, ma era la vera esaltazione dell’io.

Io non sono capace di guardare gli altri come li guarda Dio: ma quanto più ammetto questa possibilità, vi assicuro che ciò diventa possibile. Lasciandoti fare da un Altro, lentamente arrivi anche tu a sorprenderti nel ragionare come quest’Altro, in modo infinito. Saltano tutti i paletti che noi poniamo nella nostra testa. Si cominciano veramente a guardare le cose come le guarda un Altro - una persona reale, non in astratto -, uno guardando il quale continuamente dici: «Ma come fa questo qui a dire così?». Con uno così, più grande nella fede, arrivi anche tu, pian piano, senza accorgerti, a guardare così.

Se le persone le guardo con il mio metro, le riduco. Ma se inizio a guardarle come le
guarda Dio, allora valorizzo tutta la positività che hanno dentro, che sono.

Monica Poletto

Per entrare nel vivo del tema di oggi, il primo argomento che volevamo porre è quello del realismo. Perché i soldi attengono al realismo. Fare le cose che si possono fare e non di più è un segno di realismo e di obbedienza al Mistero. Dato questo tema, c’è un altro tema che dialoga con esso, cioè la nostra posizione di fronte al bisogno. Infatti, ciò che ci spinge ad osare, magari spesso facendo il passo più lungo della gamba, è in molti casi l’enormità dei bisogni che incontriamo.
Perciò ti chiediamo: fare quello che si può fare obbedendo alla realtà, cioè anche al budget, in che relazione è con lo strappo che sentiamo rispetto al bisogno che incontriamo? Perché evidentemente non può essere una posizione asettica e impermeabile rispetto al bisogno, quella che ci viene richiamata. Un sottotitolo a questa domanda potrebbe essere: realismo e provvidenza.
Come l’affidarsi alla provvidenza è un aspetto di realismo e non un’imprudenza? Riducendo molto,il rischio è che si viva questa posizione: «Io rispondo al bisogno che incontro e poi Dio ci penserà ad aiutarmi».

Padre Sergio

Questa è una domanda complessa, ci vorrebbe una giornata o forse più per rispondere
adeguatamente. Provo a dire alcune cose.
Anzitutto, io mi trovo bene a mettere a fuoco il punto di partenza. Qual è il fine dell’uomo,della vita? Qual è la cosa ultima? Il fine della vita, ultimamente, non è il benessere. Il fine della vita è Gesù Cristo. Detto questo, non vuol dire che uno non deve fare niente perché fa tutto Gesù Cristo: questo è un fatalismo che produce solo miseria. Se uno ad esempio è malato, non può dire:«Non mi curo, tanto tutto è nelle mani di Dio e se devo guarire guarirò». Non deve dire così, sicapisce ragionevolmente che non è una posizione corretta.
Nello stesso tempo, mosso dal bisogno che incontro, devo aver chiaro cosa veicolo dentro questo bisogno, altrimenti illudo la gente. Proprio a questo proposito mi ha commosso il Papa; nell’omelia alla veglia pasquale ha fatto un esempio che calza proprio a pennello con questo: «Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte: da qualche parte - hanno ripetutamente pensato gli uomini - dovrebbe pur esserci l’erba medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera
fatalità - contro la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere
totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna».
È straordinario, perché a partire da qualcosa di positivo si va a finire su una posizione completamente contraria. Qui si vede che l’opera vera e propria è la fede (cfr. Gv 6,29).
Il punto non è identificare il bisogno, dire che c’è il bisogno che l’uomo viva centinaia di anni, e poi il bisogno detta la strada. Questo mi porta fuori strada, perché vedo solo un particolare della questione, e per salvare poi il particolare mi perdo.
Prima di entrare in monastero ho lavorato cinque anni come operaio nelle Ferrovie dello Stato, nel mio reparto eravamo un centinaio di operai, quasi tutti della Cgil.
Anch’io, nonostante avessi incontrato il movimento nato da don Giussani, avevo la tessera della Cgil, e condividevo le stesse battaglie, ma con un accento che mi veniva da un’altra parte, dall’incontro fatto.
Da un lato i compagni, vedendomi così baldanzoso, erano colpiti dal mio entusiasmo; e
dall’altro mi dicevano: «Se sei veramente cristiano, devi impegnarti di più con noi: vedi quanti bisogni ci sono da risolvere? Finché ci sono questi bisogni, non staremo bene».Non è che tali bisogni non ci fossero stati: ma il dirmi questo era un modo per spostare il problema. La risposta così è sempre domani, non oggi, per cui datti da fare, impegnati, quando avremo raggiunto quei bisogni staremo meglio. Ma questi bisogni sono interminabili. Mi dicevano così per distrarmi, per spostare il problema su un attivismo, perché avevano paura che, schiaffando davanti alle loro facce Gesù Cristo, mostrassi il loro autentico bisogno. Per cui, si risponde ai bisogni degli altri per non rispondere ai propri.

Ma un’opera non è cristiana neanche se la fai per Cristo, perché in nome di Cristo posso mettere in piedi un’opera che fa fuori Cristo, che di Cristo non ha niente, tranne la mia idea di Cristo. Per esempio, un grande e famoso monastero benedettino spagnolo in questi ultimi tempi ha pensato di essere missionario incidendo canti gregoriani. Sono stati travolti dal successo. Quei canti erano ai primi posti delle classifiche mondiali, li cantavano tutti, anche gli atei. A un certo punto, il monaco direttore del coro, inebriato dal successo, è fuggito con tutte le entrate che i dischi avevano fruttato... E ha provocato nel monastero un terremoto, tanto che a stento hanno salvato i pezzi. Pensate con quale contrizione poi i monaci cantavano quei canti nella liturgia! Dove è stato qui l’errore? Non è stato nell’avere inciso i dischi, ma nel fatto che il valore si è spostato sul monastero, sulle loro capacità, che hanno fatto una bella cosa per Gesù Cristo, che
sono diventati famosi, che sono entrate vocazioni... ma non sono stati fermi su ciò che veniva prima.

Un altro esempio. Un altro famoso monastero belga, tempo fa, visto che il lavoro andava bene, aveva un grande successo, ha pensato di fare cosa buona dando lavoro alla gente. Hanno detto: «Perché no? Diamo da lavorare alla gente». Per fare questo, il monastero si è ingrandito in modo tale da arrivare infine a lasciare la conduzione del lavoro alla gente di fuori, perché era troppo impegnativo: e i monaci sono rimasti senza lavoro. Fanno i mantenuti, vivono di rendita.
Pensate che noia! Ma la vita monastica in quel monastero va spegnendosi tristemente.


Un altro esempio: qualche mese fa mi telefona un amico prete chiedendomi la disponibilità di andare a predicare gli Esercizi ai seminaristi della Liguria. Questo mi dice al telefono: «Il rettore del seminario di Genova è d’accordo, anche il cardinale Bagnasco è favorevole. Ho anche sentito don Carrón e lui non è contrario»... Ecco, mi sono sentito imbottigliato. Poi, dopo questo
primo disagio, ho pensato che poteva essere un’occasione grande che giustificava un sacrificio. Allora l’ho raccontato in comunità e la comunità mi ha detto: «No, tu non vai». Allora ho chiamato Carrón, gli ho spiegato la cosa. E lui mi ha lasciato libero. Io ho deciso di non andare,perché il sacrificio di quel “no” era in realtà un “sì” alla mia comunità. Era affermare un’appartenenza. Io non posso dire di sì agli altri se dico di no a quelli che Dio mi ha messo vicino come segno della sua presenza. Questo fatto mi ha commosso, perché nel dire di no era un sì. Qui
il criterio della scelta non me lo ha dettato il bisogno, ma me lo ha dato l’esperienza di compagnia che faccio. Il bisogno mi ha fatto riconoscere di più la presenza che c’è dentro la compagnia che vivo. Per cui io sono grato a quell’invito, anche se ho detto di no: certo che avere una compagnia,una regola che ti aiuta a giudicare tutto ciò che accade, a riprendere sempre il punto originale, è
una grazia, che ti áncora alla realtà.

Per esempio, anche la campana che in monastero scandisce il nostro ritmo di vita, che
suona 15 volte al giorno per la preghiera, il mangiare, il dormire... Magari stai leggendo qualcosa di bello e sei chiamato a troncarlo per guardare qualcosa di ancora più grande. È una scocciatura per un di più. Paradossalmente, dalla scocciatura di lasciare quel lavoro per guardare Cristo, è scaturita nella vita monastica quella genialità e fecondità di opere che hanno generato l’economia
nei secoli. È pazzesco, ma è così. Dipende da cosa vuoi affermare nel gesto, nella cosa che fai.L’opera, allora, per non essere ambigua deve mettere a tema il cuore dell’esperienza: la battaglia è contro il dualismo. Spesso si dice: c’è la fede, e c’è l’opera. Non è vero, c’è solo la fede, vissuta in una comunità, che diventa giudizio sulla realtà e quindi opera. Ma l’opera non può essere fuori da questa cosa. È Dio che opera, ma lo vuole fare attraverso te, attraverso il tuo sì,
attraverso la tua libertà. Le opere degenerano quando il cuore dell’opera non è la riflessione sull’esperienza di chi le fa, ma l’operosità, i progetti. Non che questi siano male, ma dipende dove si mette il punto della questione, in che cosa si vuole crescere. La cosa più importante non è l’opera, ma la riflessione sull’esperienza che genera l’opera. Per esempio: ai monaci che lavorano nel nostro birrificio ho chiesto obbligatoriamente di incontrarsi tutte le settimane, fosse anche per
un minuto, e di chiedersi: perché stiamo insieme? Perché facciamo questo lavoro? E vi dico che è una rivoluzione, poter chiedersi anche solo una volta alla settimana questo.Cosa sta in fondo alla tentazione di scivolare sui progetti, di spostarsi sull’opera? Quando non è brutalmente un semplice voler far soldi, la tentazione è quella di voler accelerare i tempi di Dio nella trasformazione del mondo: si pone la fiducia sulle nostre capacità per dare una forma immediata, visibile a ciò che desideri. Così fai coincidere te con l’opera. Invece Cristo trasforma
le cose secondo i suoi ritmi e i suoi tempi.

Esempio: prima di entrare in monastero ho verificato questa ipotesi con don Giussani per tre anni. Era chiara già dal primo istante, e lui me l’ha
confermato, ma mi ha fatto attendere tre anni. E io sinceramente all’inizio non capivo, ma adesso lo ringrazio per tutta la vita, perché se avessi forzato i tempi, ora non sarei qui. Perché la vita monastica non è un’intuizione, è una vita, e ci vuole del tempo per vedere se sei adatto.


Dieci anni fa, per esempio, abbiamo fatto dei lavori di ampliamento del nostro monastero:se ne parlava venti anni prima, si facevano progetti e disegni, ma la cosa si è verificata solo vent’anni dopo. E si è verificata nella forma più adeguata, perché se avessimo costruito venti, trenta anni fa adesso avremmo dovuto cambiare completamente i progetti.

Allora, il problema non è la gestione della crisi o la gestione dei bisogni, perché facendocosì non si introduce nulla di nuovo in una situazione che già è fragile di per sé. Il problema è a monte: nella coscienza di vita che hai, da dove attendi il compimento della tua umanità, della tua felicità. Certo, i soldi possono fare tante cose, ma sono tutto nella vita? Qual è l’unicum necessario?
Il fatto che Cristo è l’unico bene. Bisogna arrendersi a questa evidenza. Perché uno non si arrende?
Uno lo capisce a livello intellettivo, ma poi pensa che dire così sia una riduzione quantitativa(Erode, come dicono i Vangeli, tremava quando è nato Gesù, perché aveva paura che gli portasse via il regno).
Invece non è un’alternativa quantitativa, ma indica una modalità con cui si è in rapporto con le persone e le cose: indica come usi le cose. Le usi per la costruzione del regno di Cristo, per la gloria di Cristo, o per qualcos’altro? Cristo non ti toglie nulla di quello che hai: se sei il capo di una multinazionale va bene, vai avanti, non devi lasciare quella cosa lì per farti frate. Fai quella
cosa lì. Ma il cuore Cristo te lo chiede tutto: non ti toglie niente di quello che stai facendo, ma il cuore è suo. Che Cristo sia l’unico bene non vuol dire che uno deve amare il Signore e non fare nient’altro, ma proprio perché ama Cristo comincia ad amare tutto, a fare bene tutto, ad abbracciare tutto in un certo modo. Questa è la povertà del cuore: l’appartenenza a Cristo! Questa è l’assenza della ricchezza, anche se possiedi 50 grattacieli. Allora, la domanda: «Qual è la relazione tra fare quello che si può, obbedendo alla realtà, e lo strappo che sentiamo di fronte al bisogno che incontriamo?», mi ha fatto pensare che la vita
monastica è proprio l’esemplificazione esatta di questo. Quando uno entra in monastero, sembra che sia una ritirata, una fuga davanti al bisogno dell’altro o del mondo. È così che il mondo ti guarda, come uno che fugge dai bisogni reali. Invece entrare in monastero per me è stato andare a fondo del mio bisogno e, in questo, uno porta con sé il bisogno di Cristo che hanno tutti quanti,anche se non lo sanno. È una grandezza nascosta questa, che mi gasa: gli altri non lo sanno,mentre io lo so, mi è stato dato di conoscere la profondità delle cose, dove tutto nasce. Per cui, sto
in monastero perché, amando il mio destino, amo il destino di tutti e di tutto.
Nella Vita di san Benedetto scritta da san Gregorio Magno, si dice che san Benedetto,
desideroso di piacere solo a Dio, nei primi anni della sua vocazione si ritirò in una grotta sui monti di Subiaco e lì vi rimase tre anni, fino a quando il suo nascondiglio fu scoperto da alcuni pastori.
Questi, vedendolo così malandato nelle vesti e nell’aspetto, lo scambiarono prima per una bestia,ma quando lo udirono parlare si scoprirono loro bestiali nel cuore. Così cominciarono a frequentarlo e a portargli i loro figli, affinché li istruisse secondo la sua sapienza. Segno, questo,che quei tre anni che Benedetto passò in solitudine, non li passò senza fare niente, annoiato, non li passò per fuggire le problematiche sociali, ma per vivere più profondamente la responsabilità
personale di fronte al mistero di Cristo, per tutti gli uomini. Questo l’ha fatto aderire potentemente alla realtà, tanto è vero che san Benedetto non ha letto questo suo essere stato scoperto con la preoccupazione di proteggere un passato, ma come l’inizio di una risposta nuova davanti al Mistero presente. Che libertà!


Così è nelle opere: uno fa realisticamente ciò che può, può fare anche molto, stando però attento a non ridurre la natura del bisogno. Quando l’opera ti mangia la consapevolezza del perché la fai, allora sei fuori. Questo è documentato anche nella Regola di san Benedetto. Nel capitolo 57,sugli artigiani del monastero, si dice: «Se in monastero vi sono degli artigiani, esercitino il loro mestiere con grande umiltà, purché l’abate lo permetta. Ma se uno di loro s’inorgoglisce per l’abilità nel suo mestiere, credendo di arrecare qualche vantaggio al monastero, sia allontanato da
questo mestiere, e non vi sia riammesso fino a quando, ridiventato umile, l’abate glielo permetta di nuovo. Se poi si dovesse vendere qualche prodotto degli artigiani [anche qui, perché non ci si sposti il punto originale], si guardino bene coloro dalle cui mani i prodotti devono passare, dal commettere qualche frode. Nel fissare i prezzi, poi, non s’insinui il male dell’avarizia; anzi, si venda sempre a un prezzo più basso di quanto possono fare i secolari». Dentro qui c’è la
preoccupazione di non lasciarsi trascinare dall’opera, ma di restare ancorati a ciò che viene prima.

Per quanto riguarda il rapporto tra realismo e provvidenza che avevi citato, realismo e provvidenza stanno insieme in una prospettiva di fede. Infatti, come è stato letto prima, il realismo è aderire alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, quindi anche secondo quel fattore ultimo presente nella realtà che è il mistero di Dio. Mentre la provvidenza è la presenza e l’opera di Dio
che muove la storia per il suo compimento positivo. La necessità della provvidenza nasce dalla coscienza del nostro niente, di essere totalmente
sproporzionati di fronte al significato di ciò che siamo e facciamo, e quindi di essere disponibili che un Altro faccia quello che a noi è impossibile. Io sento di essere fatto per l’infinito, ma con le mie forze non posso toccare l’infinito: solo se l’infinito si presenta a me, entro in questadimensione. Questa è la modalità. E la fiducia nella provvidenza è questo affidarsi a Uno.


Come dice don Giussani in Si può vivere così?, a pagina 278, l’esito della povertà, ciò che nasce dalla speranza è la fiducia, che è il contrario dell’essere sospesi nel vuoto: è invece l’essere sospesi sul pieno. La verità è che Cristo sostiene il peso di tutto il nostro futuro, fino ad arrivare al destino:
Colui che ha cominciato l’opera la porta anche a compimento. Questo, in fondo, è anche il senso della preghiera cristiana, contrariamente all’ansia che è la pretesa della risposta immediata secondo l’aspettativa della propria immagine. La preghiera cristiana non sa qual è la risposta, ma sa che la risposta c’è. È una sospensione sul pieno. L’impossibilità di vedere subito l’immagine di quello che viviamo ci educa all’apertura di un rapporto: io non so qual è la risposta, ma so che
essa c’è perché mi apre a un rapporto, mi mobilita affettivamente verso il donatore.


Dopo poco tempo dalla mia entrata in monastero, un giorno chiesi a uno dei primi monaci che avevano iniziato la Cascinazza: «Come mai siete venuti qui? Come mai proprio qui?». E lui mi ha risposto: «Guarda, tutto quello che abbiamo cercato non lo abbiamo trovato, ma quello che abbiamo trovato è stato meglio di quello che abbiamo cercato». Quindi la provvidenza sa fare i conti meglio di noi. Occorre essere disponibili.

Senza realismo e provvidenza, che sono secondo me legati, senza questi due aspetti non c’è progresso nella vita, perché il progresso non si muove sull’ansia di qualcosa che non c’è ancora,ma si muove su ciò che c’è. Su questo si fonda tutto il Medioevo monastico: su ciò che c’è, e da lì viene fuori tutta un’originalità e creatività impensabile.

Certamente questo argomento (realismo e provvidenza) tocca anche la dimensione
dell’opera, ha a che fare con la dimensione dell’opera. Come si fa a dire: io rispondo al bisogno che incontro e poi Dio penserà ad aiutarmi? Per noi in monastero i criteri per stare dentro questa questione sono:

- una valutazione equilibrata delle nostre possibilità, non solo economiche ma anche
soprattutto di mantenimento di ciò che si mette in piedi. Per esempio, se in questo
momento qualcuno mi desse i soldi per fare la chiesa e tutto il resto che manca al
monastero, a condizione di costruire subito, mi metterebbe in grosso imbarazzo, e
probabilmente direi di no.

Forse tra qualche anno le condizioni cambieranno e ciò sarà
possibile. Ora non abbiamo le forze per mantenere una struttura così. La dimensione
dell’opera quindi è molto importante.

- il riferimento all’autorità, a una autorità, nel caso del monastero il superiore. Potrebbe essere scontato per voi che mi ascoltate, ma non è così. Per esempio, l’economo è facilissimo che si prenda una fetta importante di potere nel monastero, manovrando i soldi o i lavori come vuole lui. Ma non può dare via cose del monastero senza riferimento al superiore, né introdurre nel menù quotidiano cibi non contemplati, per non accattivarsi la simpatia dei fratelli (è così! Siamo talmente piccoli che è così).

- tenere un legame tra ciò che si fa e la compagnia a cui si appartiene, perché l’opera,qualsiasi essa sia, è per l’edificazione comune, per far lievitare tutta la pasta, quindi ci vuole anche un giudizio comune.

E san Benedetto per questo è meraviglioso, perché nel capitolo III della Regola dice che quando si deve decidere una cosa importante, si deve convocare tutta la comunità, perché il Signore spesso rivela a uno più giovane qual è la risposta migliore.
Ci vuole uno sguardo di fede per dire che la risposta può arrivare anche dall’ultimo della comunità.

Un esempio della provvidenza in atto: quando siamo partiti per il birrificio, prima di costruire l’impianto abbiamo presentato il progetto alla Finanza. Ci hanno messo mesi per darci la risposta, finalmente ci hanno detto che potevamo costruirlo. Noi costruiamo l’impianto e, al termine, esce l’agente per il controllo. Non è d’accordo con un particolare dell’impianto, e cichiede una modifica che avrebbe comportato una bella spesa, ma soprattutto avrebbe peggiorato la
sicurezza del procedimento di fabbricazione della birra. Quindi, la situazione era: se non avessimo modificato l’impianto non ci avrebbero dato il permesso di produrre la birra. Ma modificare l’impianto significava peggiorarlo. Che fare? Ricordo che mancava qualche settimana a Natale,allora ho detto alla comunità: dobbiamo pregare il Signore, dobbiamo chiedergli cosa vuole dirci attraverso una cosa così. Cosa dobbiamo fare? Modificare l’impianto oppure non partire con la birra? Non ho mai sentito pregare così intensamente in comunità! E prima di Natale ci è arrivata la
comunicazione che questo agente lo avevano promosso da un’altra parte... Al suo posto ne è arrivato uno che non ha avuto questo problema e ci ha dato il permesso di partire.Davvero all’estremo limite della nostra pazienza, il suo segno appare.


Monica Poletto

Continuiamo con il tema del birrificio. Ci interessa molto affrontarlo rispetto a questo tipo di problematica: nella vostra esperienza - rispetto a finalità così chiare come quelle del monastero- come avete scelto le attività che vi permettessero da una parte di sostenervi economicamente e d’altra parte di continuare nelle vostre finalità, che non vi snaturassero?
Ti faccio questa domanda perché è molto sentita tra di noi: le nostre opere, soprattutto in certi momenti più complicati, spesso hanno costi di struttura importanti, dove i costi di struttura (visto che lavorano prevalentemente nel campo dei servizi alla persona) sono costi di personale. In questo periodo di crisi, tanti di noi hanno fatto di tutto per non lasciare a casa nessuno, e allo stesso tempo ci siamo interrogati su questo tema: si possono intraprendere attività solo per una
giusta tensione a coprire i costi, ma che spesso ci portano lontani dalle finalità originarie e magari anche da quello che sappiamo fare bene?
Perciò, questo era solo un esempio per la domanda, che ti ridico: nella tua esperienza,rispetto a finalità così chiare come quelle del monastero, come avete scelto le attività che vi permettessero di sostenervi economicamente e che vi consentissero di attuare queste finalità?


Padre Sergio

Quando i monaci sono arrivati nel ’71 nella Bassa milanese per impiantare il monastero, si sono adattati al contesto che hanno trovato. Non avevano nessuna idea particolare, hanno trovato una cascina, una stalla e dei campi.
Io sono entrato nel ’75, e il terzo giorno di monastero ero già al lavoro nella stalla a mungere le mucche. Ho fatto questo lavoro per sei anni, oltre a lavorare in campagna. A quel tempo pensavo che avrei fatto per tutta la vita questi lavori e sinceramente ne ero felice, nonostante la fatica non mi davano molta preoccupazione. Soprattutto per tre punti.
Primo: questo tipo di lavoro, stalla e campagna, mi aiutava molto a stare aderente alla realtà. Andare in stalla mi ha liberato da tutti i pensieri inutili che avevo all’entrata, è una situazione molto realistica.

Secondo, mi hanno aiutato a confidare molto nell’aiuto di Dio, perché se tagli l’erba per il raccolto e poi ci piove sopra ci perdi un bel po’, quindi sono lavori che ti aprono ad una misura più grande, tanto è vero che nella nostra comunità, sia all’inizio delle semine che alla fine del raccolto,
diciamo delle messe e preghiamo per questa necessità.

E terzo, questi lavori favorivano molto una comunione tra noi, favorivano la fusione della vita, l’aiuto fraterno, la condivisione delle fatiche.

Insomma, costruivano un clima di fraternità.

Io sono entrato nel ’75 e fino ai primi anni Ottanta ho fatto questo lavoro. Ma all’inizio degli anni Ottanta il prezzo del latte è precipitato, inoltre mezza comunità è andata da un’altra parte. Il lavoro era diventato massacrante: così abbiamo pensato di vendere il bestiame e di coltivare solo i campi (a mais, soia, orzo...), vendendo questi prodotti ai consorzi. Abbiamo fatto tutti i nostri conti e, visto che ci si stava dentro, abbiamo deciso per questa ipotesi, che oltretutto
dava un respiro più grande alla vita della casa. Ma, dopo dieci anni, cioè all’inizio degli anni Novanta, è riaccaduto per i campi quello che era accaduto per la stalla: i cereali venivano pagati sempre meno, in compenso le spese salivano sempre più, e nonostante questa situazione, sull’orlo tra il guadagno e la perdita, abbiamo deciso di continuare a lavorare i campi proprio per il motivo che dicevo prima, cercando di affiancare a questo lavoro qualche altro lavoro per sostenerci.

Il primo lavoro che abbiamo trovato è stato un lavoro di microelettronica: saldavamo
microchips su circuiti elettronici stampati. Era un lavoro che si adattava molto al nostro stile di vita: silenzioso, redditizio, dentro orari nostri, non dovevamo uscire, era la ditta stessa che veniva a prendere e consegnarci il lavoro. Solo che sette, otto anni dopo questo tipo di lavoro, i monaci addetti perdevano gradatamente la vista; inoltre, i ritmi incalzanti per guadagnare qualche cosa stressavano le persone. Allora, pur con dispiacere, abbiamo lasciato questo lavoro, per respirare un po’ di più. Ci siamo così adattati ad un lavoro molto banale e semplice, come imballare degli oggetti in scatole.
Dopo qualche anno, però, la ditta non ci ha più fornito il lavoro e quindi anche questo è finito. Lì è subentrato l’amico Giorgio Vittadini, che ci ha offerto la possibilità di sistemare l’archivio della CdO, un lavoro che abbiamo fatto per vari anni e che abbiamo portato a compimento di recente. A questo punto, i tempi erano maturi per chiederci se non era il caso di intraprendere un lavoro nostro: erano entrate nel monastero anche nuove vocazioni, e anziché lavorare per altri ci si
chiedeva se non valeva la pena metterci in proprio.

Abbiamo chiesto a tanti amici, e uno ci ha detto: «Perché non fate la birra?». Avevamo verificato tutte le altre ipotesi, che sono cadute una dopo l’altra, ma alla birra non ci pensava nessuno... Pensavamo alla rilegatura di codici, ad un lavoro di cartoleria, ad un’agricoltura particolare, ma per un motivo o l’altro l’ipotesi di questi lavori non si è concretizzata.
Finché, un giorno, vengono da me due confratelli chiedendomi la possibilità di verificare l’ipotesi di produrre la birra. Ricordo che subito ho pensato: «Adesso ci siamo». Ho letto cioè quella iniziativa personale come un segno di responsabilità. Li ho favoriti in tutto. Hanno fatto una lunga trafila, passando un mese in un’abbazia delle Fiandre, non solo per imparare il mestiere ma soprattutto per vedere se questo era compatibile con la vita monastica. Visto che le due cose
potevano stare insieme abbiamo deciso. La provvidenza ci ha fatto arrivare dei fondi - una misericordia incredibile -, a quel punto l’idea è diventata realtà e abbiamo iniziato. Ora, dopo due anni di produzione, ringrazio Dio per come ci abbia aperto questa strada.

Come abbiamo scelto le attività che ci hanno permesso di sostenerci?

Dico dei criteri a partire da quello che abbiamo vissuto.

Il primo è un’obbedienza alle circostanze, una povertà davanti alla realtà. È incredibile,pensavo, che tutti i suggerimenti per un nuovo lavoro ci siano venuti dall’esterno, non c’è stato nessuno di noi che abbia detto: «Facciamo questo, facciamo quello». Una povertà grande di immagini nostre, ma nello stesso tempo era quello l’atteggiamento migliore, perché è stata una obbedienza semplice alle indicazioni che ci sono venute dalla realtà.

Secondo: una disponibilità a riciclarsi nei vari lavori. Abbiamo lavorato nella stalla, nei campi, nella microelettronica, abbiamo messo dati nel computer... Una disponibilità e una umiltà a riconvertirsi nei vari lavori.


Terzo: una professionalità. Per quanto fosse semplice anche inscatolare delle penne, noi volevamo sempre diventare padroni del mestiere, farlo bene, velocemente, con ordine. Non ci va di lavorare approssimativamente, ma quel poco che si fa, ci va di farlo bene, perché è per sé.

Quarto criterio: non ce la siamo sentita di sacrificare nessuno di noi per un bene comune,per un mestiere particolare. In tante occasioni c’è stata la possibilità che qualcuno di noi facesse un lavoro un po’ particolare, ma poi si trovava solo: e questa possibilità non l’abbiamo mai assecondata, perché non era giusto che uno pagasse per tutti.

Quinto criterio: il lavoro deve permettere la vita comune della comunità secondo la regola.Non si può scegliere un lavoro che sia fuori dalla natura della nostra vocazione, non deve essere un lavoro molto complicato, così da snaturare la vita comune, deve permettere la possibilità dei momenti di silenzio, di meditazione, di preghiera, darci il tempo dei momenti comuni, non può portarci fuori dalla clausura continuamente. Quindi un lavoro che tenga presenti le nostrecaratteristiche.


Sesto: la valorizzazione dell’iniziativa personale, la valorizzazione di un rischio come possibilità di una responsabilità, anche se questo deve essere sottomesso all’obbedienza e alla vita della casa.

Settimo: il lavoro non deve essere totalmente intellettuale, ma secondo la regola nessuno è esentato dai servizi della casa, far da mangiare, fare le pulizie o tutto quello che serve.

Ottavo, che potrebbe essere il primo: cercate per prima cosa il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in più. Se cerchiamo il Signore, lui non ci lascia soli ma ha cura del nostro bisogno.


Inoltre per quanto riguarda il birrificio oltre a questi criteri che ho già detto, il punto cruciale per noi non è il guadagno. Sembrerebbe assurdo per chi guarda dal di fuori: certo, un minimo di stabilità economica è importante, soprattutto non avere debiti e cose di questo genere. Ma ciò che è più importante è che questo lavoro favorisca l’unità tra di noi. Su questo c’è la vigilanza più grande. Proprio perché è un bel mestiere, è un invito a una umiltà più grande, a vivere la vita come servizio. Per questo abbiamo fissato un numero di bottiglie oltre il quale non
andiamo, per permettere un equilibrio del lavoro con la casa. Abbiamo anche deciso di non vendere la birra nel monastero, consapevoli con questo di perdere metà del prezzo della bottiglia,salvando però la nostra vita da un continuo assalto dei compratori.

Cerchiamo di far imparare questo lavoro a più persone della comunità in modo da essere intercambiabili e poter fare dei turni.Anche questi sono criteri importanti.


Monica Poletto.

Potremmo chiederti tantissime cose, ma per ora ci fermiamo qui.
Chiuderei con una domanda che introduce un tema un po’ più ampio, che evidentemente
parte sempre dal tema del rapporto con i soldi per ampliarlo, che è questo.
In questo periodo ci stiamo richiamando, a partire dall’assemblea della CDO, al fatto che la nostra opera è per il bene di tutti, cioè che in qualche modo non è “nostra”. Questo introduce il tema del possesso. La domanda che vorremmo farti è: in che nesso stanno il possedere senza possedere e la responsabilità totale dell’opera, fin nei dettagli della responsabilità economica della stessa?

È un tema importante, perché è facile oscillare tra due posizioni, entrambe non adeguate alla natura dell’opera e di chi la fa. Le due posizioni sono, da una parte il sentirsi padroni,dall’altra la non assunzione totale di responsabilità. Quest’ultima ha un aspetto che evidentemente
è paradossale e lo uso paradossalmente: si può arrivare a dire “faccio dei debiti e qualcun altro me li deve coprire”. Non arriviamo a questi punti paradossali, però dobbiamo capire come il dire “non è mia” e il dire “è totalmente mia” stanno insieme.

Padre Sergio.

Rispondo a questa domanda con un esempio.
Per me è stata una delle cose più sconvolgenti, in cui ho imparato uno dei passi decisivi della mia vita.
Dopo una settimana dalla mia elezione a superiore della comunità, nel ‘95 mi vedo con don Giussani per confrontarmi con lui su molte questioni: cosa devo tenere presente, cosa è più urgente, ecc. L’ultima questione che gli sottopongo è se devo preoccuparmi dell’ampliamento del monastero. Lui mi dice secco: sì, si deve costruire, segui la tal persona e vai.

Ci sono voluti 3 anni per avere i permessi di edificabilità. Nel frattempo mi sono rivisto diverse volte con don Giussani per definire i particolari della costruzione. Di quanti monaci si pensa il monastero, di quanto deve essere grande la chiesa, quali criteri avere per rapportarci con gli ospiti, e tutto il resto che si poteva definire, in modo tale che il progetto tenesse presenti questi criteri.

Quindi un lavoro entusiasmante. Dopo 3 anni, ottenuti i permessi, vado da lui tutto
contento, come un bambino che va dal papà a mostrargli il compito fatto. E lui in tutta risposta mi guarda e mi dice: io ti ho detto di costruire? Non ti ho detto niente! E io: ma come? E lui: non ricordo. Sono rimasto impietrito e non capivo più nulla. Ho tentato ingenuamente di ricordargli come sono andate le cose, ma lui sembrava caduto dal pero. E ci eravamo incontrati decine e decine di volte!

Allora visto che non si poteva fare più niente, per un istante ho pensato come Giobbe: Dio dà, Dio toglie, sia benedetto Dio.

Torno a casa, racconto la cosa alla comunità, gelo totale. Nessuno diceva più niente, tutti zitti, tutti al lavoro! Questo era il clima.
Ebbene: 3 mesi dopo, inaspettatamente perché nessuno ne ha più parlato, non è più uscita una parola da quel momento, al termine della santa messa dell’Epifania sono arrivati i re magi.

Cioè la questione si è aperta e poco dopo sono arrivati i fondi per cominciare i lavori.Lì ho scoperto una delle cose più grandi della vita: ho scoperto di colpo cos’è la gratuità.La gratuità è la liberazione da un mio possesso sull’opera, è l’espropriazione del mio e l’affermazione dell’origine. Non è semplicemente una espropriazione del mio, ma perché io possa affermare l’origine. Se l’opera fosse stata mia, e uno dopo non filava come intendevo io, l’avrei ammazzato. Invece l’opera è di un altro che nello stesso tempo la dà a me perché io la custodisca
in questa gratuità.

Camminare dentro la mia casa, adesso per me, è camminare dentro la sua
gratuità, dentro la libertà. Anche i muri, vi assicuro, mi dicono che sono amato. Da un lato non è mio niente, dall’altro è mio tutto. Mi sono implicato in tutto: ma non è mio niente. È mio ciò che mi è dato.

D’altra parte anche san Benedetto dice questo nella Regola, al capitolo 31: tutti gli oggetti e i beni del monastero siano considerati come vasi sacri dell’altare, perché tutto ci è dato. È la densità del divino dentro il presente effimero, che nasce proprio da una gratuità.

Quale è il rischio da cui sono stato salvato in questa situazione?
Lo dice bene don Julian Carrón; perché siamo insieme nella stessa storia pretendo da te che tu mi dai quello di cui ho bisogno. Io ero andato da don Giussani in fondo con questa pretesa, pur ingenuamente. Io ho fatto tutto questo, adesso dammi…, contribuisci, fai. E lui ha fatto finta di non esserci per richiamare me ad un passo più grande. Diceva don Julian all’assemblea nazionale
della CDO, il 22 novembre 2009: «Essendo tutti peccatori non siamo per niente esentati dal decadere dalla gratuità e cadere nel puro calcolo, pensando che siamo preservati solo perché apparteniamo a una amicizia come la nostra. Il rischio è di arroccarci in una difesa corporativa di ciò che facciamo, magari con dentro un progetto di egemonia sempre in agguato.»

Insomma, legati e arrabbiati. L’equivoco è in una concezione sbagliata di appartenenza.Non siamo insieme per una organizzazione, ma per la conversione alla natura della nostra esperienza. Noi invece diamo per scontato che siamo arrivati, e identifichiamo le forme del nostro pensiero con una organizzazione che sospende il movimento della conversione alla natura dell’esperienza. Invece non c’è la conversione e poi c’è il cammino, c’è sempre la conversione, perché Cristo è sempre presente.

Ultimo esempio: man mano che i nostri responsabili del birrificio progredivano in questo mestiere, tanto più aumentava il divario di conoscenza in materia con il resto della comunità.
Una sera alla ricreazione ho notato che alcuni di noi facevano delle osservazioni a questi nostri confratelli che lavorano nel birrificio, osservazioni semplici e giuste. Mentre questi reagivano un po’ male.
In quel momento ho compreso come sia facile attaccarsi all’opera che si fa, così il giorno dopo ho detto a questi due confratelli: “se voi siete disponibili ad impegnarvi al massimo per produrre la birra, e poi se vi si chiede di lavorare nei campi e accettate, allora andate avanti in questo lavoro, altrimenti lasciate perdere quello che state facendo”. Il giorno dopo sono tornati e mi hanno detto: va bene, andiamo avanti come dici tu.
Hanno capito che il birrificio non deve essere la cosa principale, che non è la casa in rapporto col birrificio, ma è il contrario. Questo possedere senza possedere è proprio la verginità nel lavoro, ed è la cosa più grande perché è vivere le cose nella loro verità. Come si fa a vivere le cose nella loro verità?
La verginità non è entrata nel mondo come filosofia, è entrata come imitazione di Cristo, il quale dentro tutte le cose che viveva manifestava la vita nella sua
definitività, che è il rapporto col Padre.Vivere le cose così, per imitazione di Cristo, dà un anticipo da subito del definitivo e un gusto nel vivere le cose umanamente inimmaginabile.
Stefano Giorgi.

Un grande grazie a padre Sergio, non solo per i contenuti ma anche per il modo con cui hai risposto alle nostre domande quest’oggi.
Mentre parlavi mi sovveniva un brevearticolo di padre Pavel Florenskij sulla lezione, che descrive quello che oggi tu ci hai detto. Florenskij, grande filosofo e scienziato russo, diceva che la vera lezione deve essere come una passeggiata: dava l’immagine della gita. Nel passeggiare certo conta la meta, che deve essere presente, ma contemporaneamente conta il camminare, il respirare l’aria, l’attenzione a quello che succede. “La lezione ideale è una sorta di colloquio, di
conversazione tra persone spiritualmente prossime. La lezione non è un tragitto sul tram che ti trascina avanti in binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi,una gita, sia pure con un punto finale ben preciso…Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare […] La lezione non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l’innesco, il lievito
all’attività intellettuale [direi dare l’innesco ad un lavoro di paragone e di riflessione sull’esperienza del proprio lavoro nell’opera] Non è tanto un principio nutritivo, quanto fermentativo e la fermentazione consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto…l’aspirazione a vedere con i propri occhi e a toccare con le proprie mani”. Pavel Florenskij, Lezione o Lectio, La Nuova Europa, 2-
2010.
Quello che tu hai fatto oggi con noi è proprio questo: introdurre in noi un principio di fermentazione.
Credo che questo indichi anche il metodo di lavoro per i tempi a venire prima
dell’assemblea finale che, come avete visto dagli avvisi, si terrà il 5 di giugno, con don Eugenio.
Da quest’oggi parte un lavoro per tutti noi che vorremmo fosse di riflessione
sull’esperienza, di paragone a partire dalle risposte che padre Sergio ci ha dato, ricordandoci come“l’opera degenera quando il cuore dell’opera non è la riflessione sull’esperienza che si fa”.

Abbiamo un mese e mezzo di tempo, per cui questo tipo di lavoro è possibile liberamente,singolarmente, per gruppi di persone, all’interno di un’opera… tra gruppi di opera, tra città… tenendo presente che la lezione di oggi verrà vista e dialogata nelle 31 sedi in cui è insediata la Scuola Opere di Carità in Italia, più quella di Madrid, di Lisbona, di Tirana… per cui lanciamoci in questo lavoro di paragone raccogliendo domande, testimonianze, osservazioni. Abbiamo
costituito un apposito indirizzo mail per poter raccogliere le domande entro il 20 maggio per preparare insieme l’assemblea del 5 giugno.




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