venerdì 21 maggio 2010

E' PIU' GRANDE ODIARE O AMARE L'INFINITO?

DA TEMPI 19 Maggio 2010
di Aldo Trento
Caro don Aldo, come ti avevo accennato mi sono laureata in infermieristica. Dal mese scorso lavoro in un ospedale pediatrico. Sono in Medicina generale e vedo tanti bambini con le malattie più svariate. Anche i bambini dell’Oncologia vengono appoggiati da noi e a volte è difficile mantenere la faccia rilassata, far finta che tutto scivoli giù quando invece vorrei gridare forte: Cristo dove sei? Quando la morfina non riesce a far niente per impedire il dolore dei bambini, quando sono davvero deformati, quando sai che non riusciranno a vivere più di trent’anni con la fibrosi cistica, mi scoppia il cuore. Cristo dove sei? Io odio Dio, perché penso che mi voglia fregare. Uno che ti ama non dovrebbe comportarsi così. Un amico, una mamma non lo farebbe. Perché Dio sì, don Aldo, perché? A volte sono così giù che non vedo prospettive nel mio futuro, vedo solo buio. Forse mi sta mancando la fede o non so. Non ce la faccio ad amarlo da quando mi ha fatto soffrire così tanto un anno fa, ancora porto i segni della storia che ha visto il mio fidanzato scegliere di farsi monaco. Io odio Dio per questo, perché mi ha portato via una persona che amavo. Tutti trovano la propria strada e io no. Sono infelice, arrabbiata, mi sento scoppiare, e forse non riesco ad accettare il dolore degli altri, farmi carico del loro dolore, perché non riesco a farlo con il mio. Perché non trovo pace? Perché preferirei morire piuttosto che continuare a vivere così? Non trovo la strada. Aiutami don Aldo, perché penso che sei l’unico che mi possa aiutare adesso.
Lettera firmata

Cara amica, stavo meditando su alcuni salmi quando la segretaria mi ha portato la tua lettera, così apparentemente piena di odio verso il Signore, ma di fatto una supplica, come quella dell’Innominato dei Promessi sposi che diceva: «Dio, se ci sei, rivelati a me».


I salmi che ho tra le mani sono tre. l 63, che inizia con un grido che sale dal profondo dell’essere umano:
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.

Il cantico del profeta Osea (11, 1-4, 7-9):
Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. (…) Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira.

Il cantico di Isaia (49, 14-16):
Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me.

Le domande che poni nella prima parte della tua lettera sono le stesse che per molti anni mi sono posto io davanti al mio dolore e a quello degli altri. Già in un altro intervento ho ricordato che si tratta di domande vecchie quanto l’uomo peccatore, che hanno spinto Giobbe e milioni di uomini a sfidare l’esistenza di Dio, in particolare quella di un Dio padre. E per questo non pretendo di darti una risposta senza offrirti prima la bellezza di quei salmi e cantici in cui l’uomo in persona dialoga con la propria umanità ferita e affamata di Infinito, supplicando Dio di rivelargli il suo volto; o quelli in cui Dio stesso, con la tenerezza di una madre, cerca di convincere la libertà dell’uomo a riconoscere il suo infinito amore, domandandogli: “Cosa devo fare per te, Èfraim, perché tu riconosca l’immenso amore che ho nei tuoi riguardi? Anche se una madre può abbandonare suo figlio, io non lo abbandonerò mai”. Nei giorni scorsi sono stato a Milano, dove ho incontrato una signora gentile, nata in una famiglia presso la quale monsignor Luigi Giussani, all’età di 28 anni, era solito alloggiare quando nei fine settimana andava in quella parrocchia a compiere il suo ministero sacerdotale. Tra parentesi, questa signora mi ha donato un antico calice, che apparteneva a un lontano parente parroco del Duomo di Milano e che negli anni Cinquanta aveva offerto a monsignor Giussani, il quale con molta delicatezza aveva risposto: «Lo regalerei a un sacerdote più bisognoso di me». Immaginate la mia allegria nel ricevere, sessant’anni più tardi, questo gioiello. Ma torniamo alla questione. Sempre negli anni Cinquanta, quella famiglia aveva un figlio di nome Luigi, che si definiva ateo, e che a 19 anni morì in un incidente stradale. Un giorno – ricorda monsignor Giussani nel suo libro Il senso religioso – «è venuto a confessarsi da me spinto dalla madre. Egli in realtà non aveva fede. Abbiamo cominciato a discutere e, a un certo punto, di fronte alla valanga dei miei ragionamenti, ridendo mi dice: “Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi non vale quanto sto per dirle. Lei non può negare che la vera statura dell’uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all’inferno, ma che a Dio grida: ‘Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui. Non puoi però impedirmi di bestemmiarti, e io ti bestemmio’. Questa è la statura vera dell’uomo”. Dopo qualche secondo di impaccio ho detto con calma: “Ma non è più grande ancora amare l’infinito?”. Il ragazzo se n’è andato. Dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti perché era stato “roso come da un tarlo” per tutta l’estate da quella mia frase».
La via della Sua pietà per noi
Cara amica, non vale forse anche per te questa testimonianza, perché la tua libertà riconosca che è più corrispondente al tuo cuore il lasciarti amare dal Mistero che odiarlo? E magari nel tempo “capirai” che quei bambini, come i miei che sono in stato vegetativo qui nella clinica Divina Providencia, sono l’evidenza più potente della presenza del Mistero tra di noi.
Quando sono tornato ad Asunción dall’Italia, la prima cosa che ho fatto è stata entrare nella clinica e inginocchiarmi davanti a ciascuno, e toccando i loro corpi doloranti con le mie mani fare il segno della Santa Croce. Cosa sarei io stesso, cosa sarebbe il mondo intero, tu stessa, senza queste piccole ostie? Guardando loro ogni giorno io vedo la Presenza fisica del Mistero dell’amore di Dio, che ha sacrificato suo figlio sulla croce per salvarci. Avrebbe potuto scegliere un altro metodo, un’altra strada, ma ha scelto la più dolorosa per gridarci in faccia la Sua infinita pietà per noi. Riguardo al fatto che il tuo ragazzo rispondendo a una chiamata divina ha deciso di consacrarsi a Dio, mi permetto di dirti che «ha scelto la parte migliore – come dice san Giovanni – che mai gli sarà tolta». Dio non ti ha rubato nulla. Semplicemente e drammaticamente chiede alla tua libertà di riconoscere una cosa importante della vita: amare significa desiderare che l’altro sia felice, e uno è felice quando una decisione tanto importante come la vocazione corrisponde pienamente al suo cuore. Vale a dire al disegno che Dio ha preparato per ciascuno di noi, prima che fossimo concepiti nel ventre di nostra madre. Quel ragazzo non era tuo. Il problema è che tu sei convinta che lui fosse una tua proprietà, per questo sei carica di rabbia. Ti auguro di essere, se lo ami sul serio, autentica con il tuo cuore. E vedrai che quello che adesso è motivo di rabbia verso Dio diventerà l’inizio di una pienezza amorosa. Mi permetto di aggiungere una lettera di sorella Sonia, una giovane architetta (34 anni) che ha lasciato il Carmelo dove viveva come monaca di clausura e col permesso del Santo Padre ha scelto di venire a stare nella clinica per dividere le 24 ore del giorno con i miei bambini e i malati terminali.

L’amicizia è una gara ad aiutarsi a guardare Cristo
Caro padre Aldo, sono rimasta molto impressionata quando sei venuto alla tre giorni di Gioventù Studentesca a Rimini, durante il Triduo Pasquale

DA TEMPI 04 Maggio 2010
di Padre Aldo Trento
Caro padre Aldo, sono rimasta molto impressionata quando sei venuto alla tre giorni di Gioventù Studentesca a Rimini, durante il Triduo Pasquale, perché grazie alla testimonianza della tua amicizia con Marcos e Cleuza mi sono resa conto, toccando con mano, di ciò che significa la Resurrezione di Cristo, la sua contemporaneità, che significa che “Lui è qui”. Mi piacerebbe che mi raccontassi come vivete la vostra amicizia. Come state assieme, cosa fate, di cosa parlate. Insomma, vorrei visualizzare meglio quello che hai raccontato a Rimini.
Lucia

Grazie, cara Lucia, perché mi dai l’occasione di parlare di ciò che ho di più caro nella vita: la relazione con Cristo che si fa carne, innanzitutto, seguendo don Julián Carrón in tutto e poi con Marcos e Cleuza e quelli che (in particolare i miei amici sacerdoti con cui divido la vita quotidiana, assieme a questo popolo) formano quella cittadella della carità che è la parrocchia di San Rafael.
Non c’è nulla che mi commuova tanto, fino alle lacrime, quanto il rapporto che ho con Marcos e Cleuza. È una preferenza che cambia ogni giorno la mia vita, perché mi permette di guardare il volto di Cristo, di dire “Tu” a Lui in ogni momento, condividendo tutte le sofferenze, le gioie, i momenti di dolore e quelli di allegria di quanti Dio mette sul mio cammino. È, come direbbero san Benedetto e san Gregorio, «una gara ad aiutarsi a guardare il volto di Cristo».
Passo al punto della questione che mi hai chiesto, raccontandoti degli ultimi giorni che abbiamo passato qui ad Asunción. Io ero arrivato molto stanco dopo un lungo viaggio che mi aveva portato a Rimini, Milano, Madrid, Bogotà, Quito. Un viaggio bellissimo, perché non c’è niente di più bello di quando qualcuno ti offre la possibilità, come gli apostoli dopo la Resurrezione, di annunciare Cristo. Nonostante questo, nel tratto finale è stato un viaggio non soltanto stancante (Bogotà e Quito sono a più di 2.800 metri sul livello del mare, e per me, abituato alla pampa o al deserto del Chaco e al clima subtropicale, non è stata una cosa tanto facile), ma anche tragicomico, oltre che bello.
Bello perché ho potuto incontrare i miei amici e ho potuto parlare delle missioni dei gesuiti nelle due più importanti università di Bogotà e di Quito. Tragicomico perché non solo mi sono perso e mi hanno rubato il portafogli con quasi tutti i documenti dentro, ma per di più, prima di entrare nello spazio aereo di quel paese, il pilota dell’aereo ha avvisato i passeggeri che il volo terminava a Cali. Siamo dovuti scendere tutti, spostarci all’aeroporto nazionale e prendere un altro aereo che ci portasse a Bogotà.

Uno strano sogno
Sono rimasto senza parole, anche perché muoversi in Colombia non è come farlo ad Asunción o a Rimini, e oltretutto non avevo più con me i documenti. Una hostess, vedendo la mia preoccupazione, con un’intelligenza unica è andata a parlare col comandante di volo ed è tornata dicendomi: «Padre, per lei sarà difficile passare per la dogana e dal posto di polizia di Cali, che è uno dei più severi. Però abbiamo chiesto che la compagnia aerea ci procuri una sedia a rotelle con un’assistente di bordo, in modo tale che lei possa raggiungere su di essa l’aeroporto nazionale». E così fu. Non mi dilungo a descrivere quanto è stato comico farmi passare per disabile sulla sedia a rotelle, perché morireste dalle risate. Ma in questo modo sono arrivato a destinazione ridendo, davanti alla faccia sbigottita di quelli dell’equipaggio, che vedendomi correre sono rimasti lì a fissarmi con la bocca spalancata come clown.
Alcuni giorni dopo sono venuti a trovarci Marcos e Cleuza. Cleuza era molto preoccupata perché proprio nel giorno in cui io avevo avuto la mia avventura a Cali, lei aveva sognato che io ero malato e su una sedia a rotelle, e lei mi domandava, piangendo: «Padre Aldo, sono Cleuza, non mi riconosci?», ma io non le rispondevo, o le dicevo che no, non la riconoscevo. Preoccupata anche perché non riusciva a comunicare con me, visto che il mio cellulare non funzionava, ha fatto la valigia e assieme a Marcos e all’amico Bracco, responsabile di Comunione e Liberazione in Brasile, è venuta a trovarmi. È stata una sorpresa commovente. Sono arrivati alle 23 del 20 aprile, si sono riposati e i due giorni successivi sono stati una festa. La mattina del 21 siamo andati assieme a tutti i responsabili dell’opera alla cascina, a vedere a che punto era la Scuola di comunità, da febbraio a quel giorno. Sono state tre ore e mezza di lavoro in cui nessuno si è reso conto del tempo trascorso, dall’inizio (9.30 del mattino) fino alle 13. Tutti hanno testimoniato il loro personale percorso di fede, confrontandosi con le testimonianza di Marcos e Cleuza che guardavano ogni persona con una tenerezza possibile solo in chi Cristo è tutto.
Anche la stanchezza è vinta
Una frase di Cleuza mi sembra significativa per riassumere quello che è successo: «Ieri notte ho passato una bellissima notte di amore con mio marito». Tutti sono rimasti a bocca aperta. Che significa? Qualcuno le aveva appena chiesto il motivo per cui ogni volta che sono assieme si tengono per mano. Ma Cleuza con la sua ironia ha chiarito immediatamente: «Marcos ha avuto la diarrea e io ho dovuto assisterlo con affetto per tutta la notte. Marcos per me è il manto di Cristo, e io lo sono per lui. Così come al tempo di Gesù tutti si precipitavano a toccare il manto di Cristo per essere guariti, anch’io mi avvicino a Marcos, e lui a me, con questa certezza. La nostra tenerezza nasce solo da questa certezza, non da una emotività. Inoltre tra di noi ci sono battibecchi, litigate, come è accaduto la settimana scorsa durante una cena con alcuni politici: a un certo punto ho perso la pazienza, mi sono alzata da tavola e sono corsa in cucina, perché si trattava di una questione importante per l’associazione, e loro non volevano sentire ragioni. Poi, però, sono tornata, mi sono seduta e ho sorpreso tutti per il mio viso già diverso. E tutto si è concluso con un risultato inaspettato e positivo per l’associazione». A un ragazzo che si lamentava della sua condizione ha risposto: «La mia allegria viene solo da Cristo, e non dai comfort. Posso dormire tranquillamente sotto un ponte, perché solo Cristo è la ragione della mia vita».
«Se la mia felicità coincide con la ricchezza, allora non capisco perché non tutti i ricchi sono felici. La mia felicità è Cristo, e Cristo vive in questa compagnia. Io sono qui con voi, con Marcos abbiamo fatto quattromila chilometri di viaggio per poter stare poche ore con voi, perché in ciascuno di voi vedo Cristo, perché ciascuno di voi è per me essenziale per vivere la memoria di Cristo», ha risposto a una ragazza che le chiedeva cosa fosse la felicità.

«Perché questa amicizia è importante per me e Marcos? Perché qui è evidente la presenza di Cristo. La nostra fede è debole ed è facile che abbia una data di scadenza. Invece stando con voi la mia fede si irrobustisce. Marcos e io non siamo venuti qui per divertirci, ma perché qui ci sono amici che danno la vita per la stessa ragione per la quale viviamo noi: Cristo. Col matrimonio è la stessa cosa: nel tempo si esaurisce. Perché? Forse perché manca il cibo, o l’amore? No, ciò che manca è Cristo. Se hai Cristo, guardi tuo marito in un altro modo. Quante persone hanno case, denaro, non gli manca niente, ma non sono felici. Ciò che manca, dico sempre ai miei amici dell’Associazione, non è il cibo: è Cristo!».
Dopo di questa bellissima testimonianza ha raccontato un altro esempio spettacolare. «La differenza tra me e mia sorella sta nel fatto che lei si lamenta sempre, sia del passato, per l’aver patito la mancanza di cibo, in povertà, sia del presente. Al contrario, io ringrazio il Signore sia di tutto quello che sin da bambini abbiamo passato, sia di oggi e di quello che ora ho, perché ho incontrato Cristo. Ciò che ancora non è accaduto a mia sorella. Stanca delle sue continue lamentele, una volta le ho detto: “Ma è possibile che non ti rendi conto che ora il Signore ci dà la grazia di mangiare due volte, una per quello che per anni non abbiamo mangiato, l’altra perché adesso possiamo gustare questo ottimo cibo?”». Sua sorella ha smesso di lamentarsi.
Il dialogo è continuato non solo fino alle 13, ma praticamente fino al giorno seguente, quando sono tornati in Brasile. Per raccontare tutto avrei bisogno di molte pagine, ma la cosa più importante è che io, dopo aver passato quel giorno con loro, ho recuperato completamente. E loro sono tornati felici in Brasile, e i miei amici hanno fatto un altro passo di amore verso Cristo. Non solo. Come ripete sempre Carrón, parlando di ciò che accade dopo la Resurrezione: «Quelli che ascoltavano le parole degli apostoli si convertivano e il loro cuore si riempiva di allegria».
Prima di salutarci all’aeroporto sono tornati a ripetermi: «Padre, noi siamo venuti qui solo per imparare lo sguardo di Cristo, lo stesso sguardo che Gesù ha avuto con la Maddalena e ha per ogni uomo. Qui, padre, in questa opera, non c’è niente di esteticamente bello, perché c’è soltanto dolore. Ma quello che c’è di più bello è lo sguardo a Cristo e di Cristo». Ci siamo lasciati commossi. Sono tornato a casa mia pensando a come avevamo condiviso tutto, imparando a vivere con più intensità. In due giorni, grazie alla compagnia di Cristo presente tra i miei amici, in me era scomparso qualsiasi segno di stanchezza. Un segno evidente della vittoria di Cristo.
Una nota finale: la memoria continua di Carrón, quel che ha scritto per Pasqua sulla Repubblica, è stato un “cavallo di battaglia” in questi giorni. L’amicizia non è frutto di un progetto, è un dono che in questa casa è capitato per pura grazia, secondo ciò che Carrón da due anni a questa parte dice a tutti, indicandoci dove guardare.




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