giovedì 18 novembre 2010

INCONTRO DI “MEDICINA E PERSONA” CON DON FRANCESCO VENTORINO

....“Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta”. Era la domanda sul destino della vita, della vita
di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva dalla
esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale ad
affermare il significato di tutto......

.....È necessaria una Presenza che renda evidente che il destino della vita è buono. Ad essa, infatti,dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, anche mia madre, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: “Tu verrai alla mia festa?”. E alludeva al suo funerale.....


.....I primi quattro mesi di quest’anno li ho trascorsi per la maggior parte del tempo in ospedale per una
serie di pesanti interventi chirurgici.
C’è una premessa da fare. L’anno scorso è stato l’anno più buio della mia vita. La mancanza di ogni responsabilità sia nel movimento che in diocesi (sono divenuto “emerito” in tutte le cariche che avevo) mi faceva porre continuamente la domanda sulla utilità del mio ministero sacerdotale e in fondo della mia esistenza stessa.. Quando ad ottobre mi venne diagnosticata una stenosi grave di una valvola cardiaca artificiale che mi era stata impianta otto anni addietro e quindi mi venne suggerito di ripetere l’intervento per la sostituzione, io intuii che attraverso quello che mi stava accadendo mi veniva data una risposta alla domanda di utilità della mia vita che mi ero portato dietro tutto l’anno. Si è trattato di un intervento molto pesante cui è seguita una complicazione che mi ha costretto a stare quasi tre mesi all’ospedale di Lecco. Tornato poi a Catania ho dovuto ricoverarmi di nuovo per i controlli periodici della neoplasia vescicale, controlli che si sono trasformati in un altro intervento chirurgico.
Stando in ospedale ho capito il valore e il senso di una affermazione della scuola di comunità che prima avevo letto frettolosamente: “Se l’amore è la legge della vita, il vertice è l’offerta della propria vita”.
Ho cominciato a capire che l’offerta della propria vita nella dolorosa obbedienza che mi veniva chiesta era ciò che di più utile io potessi fare per il bene della Chiesa, del Movimento e della mia comunità. Ho preso coscienza che in me si compiva, come dice san Paolo, ciò che mancava alla passione di Cristo.
La comunione o la Messa erano il centro della giornata e il punto illuminante di essa. Mi dicevo:
se nella Messa non accade quello che io dico, nel mondo non accade nulla di significante e anche la mia sofferenza è senza senso. Ma se il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo in forza della formula consacratoria che io proferisco, tutto è assunto nella Sua morte e trova compimento nella Sua resurrezione........
Lavoriamo a contatto con persone che fanno un’esperienza spesso drammatica del limite che la vita ha dentro, e dobbiamo fare i conti anche con il nostro. La nostra vita in ospedale è piena di fatti ed incontri, eppure sembra che lavorare per noi sia come per tutti gli altri, uno scotto da pagare,un’attività spesso che non soddisfa nemmeno quando l’esperienza è positiva, costruttiva. Ma da dovenasce una concezione autentica del lavoro?


R. Voglio partire dal racconto di alcune esperienze personali.
La prima l’ho raccontata già al Meeting di Rimini nel 2007.
Ricordo ancora, dicevo a Rimini, ed erano passati quarant’anni, l’urlo di mia madre di fronte al
cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a
rischio: “Dottore, perché è morta mia figlia?”. Il medico non ha capito il significato della domanda e
le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi
analfabeta, poneva un’altra domanda: “Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un
figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta”. Era la domanda sul destino della vita, della vita
di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva dalla
esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo, esigenza clamorosa, indistruttibile e sostanziale ad
affermare il significato di tutto.
Dalla risposta a questa domanda dipende tutta la nostra esistenza, il suo peso, il suo valore, il suo
significato. È necessaria una risposta che regga di fronte all’urlo di mia madre. È necessaria una
risposta che renda accettabile la vita e la morte, la gioia e il dolore, la realtà insomma, così come
l’uomo ne fa esperienza.
È necessaria una Presenza che renda evidente che il destino della vita è buono. Ad essa, infatti,dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, anche mia madre,
sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: “Tu verrai alla mia festa?”. E alludeva al suo funerale.
La seconda mi riguarda personalmente.
Dal 1990 combatto con una neoplasia vescicale recidiva che mi costringe a sottopormi
periodicamente a controlli, interventi e cure chemioterapiche. Nel 2004 ho celebrato il 50° di
sacerdozio e il mio medico curante, un “laico” certamente non praticante, è stato invitato a partecipare
da mio cognato che è medico a sua volta e suo amico.
Dopo qualche giorno, in occasione di un mio ennesimo ricovero, durante la visita medica, davanti
ai suoi collaboratori, agli infermieri ecc.., mi disse di essersi trovato quella sera di fronte ad uno
spettacolo suggestivo, tant’è che era venuto per un momento e c’era rimasto fino alla fine (notate che
si era trattato di una Messa celebrata in un grande anfiteatro all’aperto, preceduta dalla recita del Santo
Rosario meditato), e che di fronte a tutto quel popolo aveva capito perché io avessi tanta voglia di
vivere e che lui stesso si trovava, in forza di quello che aveva visto, più motivato a fare di tutto per
conservarmi il più a lungo possibile alla mia gente.
La terza è più recente.
I primi quattro mesi di quest’anno li ho trascorsi per la maggior parte del tempo in ospedale per una
serie di pesanti interventi chirurgici.
C’è una premessa da fare. L’anno scorso è stato l’anno più buio della mia vita. La mancanza di
ogni responsabilità sia nel movimento che in diocesi (sono divenuto “emerito” in tutte le cariche che avevo) mi faceva porre continuamente la domanda sulla utilità del mio ministero sacerdotale e in fondo della mia esistenza stessa..
Quando ad ottobre mi venne diagnosticata una stenosi grave di una valvola cardiaca artificiale che mi era stata impianta otto anni addietro e quindi mi venne suggerito di ripetere l’intervento per la
sostituzione, io intuii che attraverso quello che mi stava accadendo mi veniva data una risposta alla
domanda di utilità della mia vita che mi ero portato dietro tutto l’anno. Si è trattato di un intervento
molto pesante cui è seguita una complicazione che mi ha costretto a stare quasi tre mesi all’ospedale di
Lecco. Tornato poi a Catania ho dovuto ricoverarmi di nuovo per i controlli periodici della neoplasia
vescicale, controlli che si sono trasformati in un altro intervento chirurgico.
Stando in ospedale ho capito il valore e il senso di una affermazione della scuola di comunità che prima avevo letto frettolosamente: “Se l’amore è la legge della vita, il vertice è l’offerta della propria vita”.
Ho cominciato a capire che l’offerta della propria vita nella dolorosa obbedienza che mi veniva chiesta era ciò che di più utile io potessi fare per il bene della Chiesa, del Movimento e della mia
comunità. Ho preso coscienza che in me si compiva, come dice san Paolo, ciò che mancava alla passione di Cristo.

La comunione o la Messa erano il centro della giornata e il punto illuminante di essa. Mi dicevo: se nella Messa non accade quello che io dico, nel mondo non accade nulla di significante e anche la mia sofferenza è senza senso. Ma se il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo in forza della formula consacratoria che io proferisco, tutto è assunto nella Sua morte e trova compimento nella Sua resurrezione.
Allora ho capito che l’offerta della vita sconfigge ogni impotenza. Non ci sono delle situazioni in
cui tu possa essere costretto all’impotenza. Anzi dall’offerta sgorga una fecondità misteriosa,
certamente più grande di quella che presumi che derivi dal tuo tanto darti da fare.
Dall’offerta della vita sgorga un nuovo amore verso gli altri, ma soprattutto verso te stesso. Forse
solo allora cominci ad accettarti e ad amarti per quello che sei e per quello che vali veramente.
Infine, l’offerta della vita realizza subito, nell’istante presente, lo scopo dell’esistenza stessa. Il
tempo presente, anche il più doloroso, non viene più vissuto come un tempo che si spera che passi al
più presto per andare a realizzare il tuo compito. Il presente è già pieno di fecondità eterna.
In questo lungo travaglio mi ha aiutato molto il mio amico Pietro Barcellona, un vecchio militante
comunista, che recentemente a causa di un rapporto di amicizia vissuto con me si è riaccostato al
cristianesimo. Egli mi faceva compagnia mandandomi ogni settimana un capitolo del suo nuovo libro
Incontro con Gesù, nel quale racconta come egli si fosse convertito dal comunismo al cristianesimo
quando ha capito che militando nel partito era stato costretto a vivere in funzione un compimento
futuro e utopico, mentre nel cristianesimo è possibile vivere una pienezza già fin da ora possibile, una
pienezza di vita che consiste nella partecipazione alla carità di Cristo, quella carità per la quale
Cristo offre la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini.
E su questo mi sfidava. Voleva vedere come io potessi vivere la mia condizioni con pienezza di
significato e di vita.
Ma soprattutto mi ha aiutato il rapporto con Felice Achilli. Nella sua offerta comprendevo meglio
la mia.
Dopo qualche giorno dalla dimissione dall’ospedale di Lecco gli scrivevo :
“Ho acquistato già la giusta distanza per valutare l’eccezionale esperienza che ho fatto per circa un
mese nei vari reparti di cardiologia, cardiochirurgia, terapia intensiva e cardiologia riabilitativa del
vostro ospedale. Una circostanza dolorosa si è, infatti, per me trasformata in una imprevista occasione
per godere della vostra non comune professionalità e per gustare il profondo senso dell’umano che
anima tutto il personale che là vi opera.
Dalla tua presenza, che imprime una impronta inconfondibile a tutto l’ambiente, certamente frutto
della tua fede e del dolore recentemente sofferto per la morte ingiusta del tuo ultimo figlio Andrea, da
te accolto come segno per una disponibilità sempre più grande al dolore altrui, e da quella dei medici
Vacanze M&P – Corvara, 16-20 giugno 2010
3
che vivono il loro lavoro come cura dell’uomo paziente, e non appena come mestiere da svolgere con
la giusta competenza, si sviluppa un atteggiamento che coinvolge tutti, infermieri e ausiliari.
Il sentirsi chiamare sempre per nome con giovialità e rispetto fin dall’inizio della giornata
dall’infermiere che ti viene a fare i prelievi e a misurare i parametri e poi da tutti, fino ai fisioterapisti
che cercano di farti ritrovare energie e capacità debilitate, ti dà la percezione di stare in un ambiente in
cui tu non sei un caso clinico, ma una persona”.
È vero, dunque, la vostra esperienza professionale è fatta di incontri con persone che vivono
drammaticamente la questione umana, alla quale con la vostra presenza comunque date una risposta.
Ogni persona che viene in ospedale o che viene a cercare il vostro aiuto ha dentro di sé questa
domanda, resa più acuta da quanto le sta accadendo. Nessuno si rassegna ad essere trattato come un
caso clinico e nemmeno voi, credo, che possiate sopportare di apparire ai vostri occhi soltanto come
dei guaritori dei corpi. Nel vostro lavoro è messa in gioco in modo particolare la domanda sul destino
della vostra vita e di quella del paziente che avete davanti.
Pensate che si possa stabilire un rapporto con lui, un rapporto cosiddetto professionale, che
prescinda da questa domanda? E come il porsi questa domanda modifica il rapporto
professionale? È tutta qui tutta la questione della concezione del vostro lavoro.
Ma qui vorrei sentire le vostre esperienze.
2) Nel lavoro è spesso esperienza comune quella di una solitudine, paradossalmente anche quando
si sta a contatto con persone più di 10 ore al giorno, ed anche quando si ha la grazia di lavorare con
amici, ciò non elimina questa percezione di sé. Nel nostro ambiente c’è poi paradossalmente,
l’affermazione dell’autonomia, dell’autosufficienza, anche professionale, come valore. Tale conflitto
rende spesso impossibile una condivisione reale del tempo del lavoro. Cosa rompe la crosta di questa
solitudine?
R. Concludendo un’assemblea del CLU nel 1986 don Giussani individuava la radice della
solitudine nella mancanza di percezione della realtà, cioè del suo destino, del suo peso, del suo valore.
Il paragone più chiaro – diceva – è quello del bambino: “Il bambino piccolo si butta giù dal tavolo,
rompendosi la testa, perché non ha percezione della realtà…
Ecco il mondo è un immenso brefotrofio: non c’è la percezione della realtà. Ma quando tu vedi un
compagno e capisci che non ha la percezione della realtà – perché riduce la realtà a se stesso – tu vedi
con i tuoi occhi in quale solitudine è confinato. Ed è tanto più confinato nella solitudine quanto più
magari si agita per essere (e diventa anche di fatto) centro di attenzione da parte degli altri. Ecco,
diventa un giocoliere, è un giocoliere, è un pagliaccio. «Ridi, Pagliaccio» ha un nesso profondo con
quanto stiamo dicendo, perché, nonostante l’acutezza della sua tristezza, della sua amarezza, il
pagliaccio non ha percezione della sua realtà; anzi tutto il comico e nello stesso tempo tutta l’amarezza
comica derivano proprio dal fatto che sembra, invece, tutto quanto consistere nelle reazioni, nei giochi
o nelle stupidaggini che fa e che dice” (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, Rizzoli, Milano 2010,
pp. 136-37).
Giussani fa un paragone ardito. Si chiede: “Com’è diverso questo giocare nella vita, che
normalmente è così stantio, come un pane raffermo, da quello che la Bibbia dice di Dio: Dio gioca nel
mondo, ludit in orbe terrarum, dove il “gioca” è il play del pianoforte o il termine con cui certe lingue
traducono il suonare, il far musica” (Ibid.).
E così introduce una risposta alla questione della nostra solitudine. La nostra solitudine è vinta
nella misura in cui abbiamo la coscienza della realtà, cioè la coscienza di partecipare insieme al
grande gioco di Dio.
L’amore vero – diceva Tommaso d’Aquino – ci apre a tutto ciò e a tutti quelli che sono amati
dall’amico. Chi ama Dio, cioè il senso profondo delle cose, il loro destino, è solidale con tutti quelli
che Egli ama, ed è amico di tutti quelli che amano il loro destino.
Vacanze M&P – Corvara, 16-20 giugno 2010
4
Solo la coscienza di partecipare ad un’opera comune ci fa superare quel senso di autosufficienza e
di autonomia cattiva che guida il nostro agire, anche quello professionale.
Diceva ancora don Giussani: “Per sua natura l’amore a Cristo compone il desiderio che domina la
vita, quello della felicità; ma lo compone in modo tale da farlo diventare vero, con una constatazione:
che il nostro desiderio di felicità diventa desiderio che tutti gli uomini raggiungano la felicità” (L.
Giussani, L’io, il potere e le opere, Marietti, Genova 2000, p. 68).
3) C’è uno scetticismo sottile, per cui sembra che tutto quello che si fa sia inutile. Soprattutto in
chi ha a che fare con malati cronici, o con patologie per cui non esiste la tecnica e/o il farmaco
vincenti, o in chi non si occupa direttamente dell’attività clinica, sembra smarrirsi il valore di quello
che si fa. Ciò produce un distacco da sé e dalle cose e spesso il tentativo di trovare una soddisfazione
altrove rispetto a dove si è. Cosa vince questo scetticismo rispetto all’utilità del proprio lavoro e della
realtà di ambiente dove viviamo?
R. Don Giussani citava spesso una frase di Malraux: “Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci,
perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo cosa sia la verità” (A. Malraux, La
Tentation de l’Occident, Bernard Grasset, Paris 1926, p. 216).
Ma noi sappiamo cos’è la verità! – soggiungeva – “«Io sono la verità e la vita» ha detto un uomo,
l’unico che abbia detto nella storia questa cosa. Noi conosciamo la verità, ma anche qui portiamo tutta
la nostra grettezza o tutta la nostra equivocità: è come se mancasse alla nostra vita quell’impeto –
suscitato tre volte al giorno, mattino, mezzogiorno e sera, quando si dice la preghiera (l’Angelus, per
esempio) – che a mezzogiorno ritorna a galla dal mare di nebbia, in cui è stato al mattino e alla sera
rispetto al pomeriggio” (. L. Giussani, L’io, il potere e le opere, cit. pp. 62-63).
Scusate se insisto, ma io penso che non ci sia risposta adeguata a tirarci fuori dallo scetticismo
rispetto all’utilità del nostro lavoro e della nostra vita se non quella che viene dal cristianesimo.
In un’intervista rilasciata nel 1983 ad une televisione svizzera, don Giussani tornava su questo
tema:
Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede
lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di
lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i
fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che
giustifica l’ipotesi della fede.
Bisogna riconoscere che solo nel volto di Gesù crocifisso, morto e risorto si manifesta pienamente
il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla
ragione e al cuore.
Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la
risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Cormac McCarty, uno di quegli scrittori che – come è stato detto di lui – lottano corpo a corpo con
il mistero, racconta il dialogo appassionante tra un nero e un bianco, al quale il nero ha appena salvato
la vita impedendogli, quasi involontariamente, di buttarsi sotto un treno, il Sunset Limited. Il bianco gli
chiede conto di quel gesto e il nero non trova risposta più giusta di questa: se non ci fosse Gesù, questa
«cosa eterna», non ci sarebbe motivo di stare con i piedi fermi quando passa il Sunset Limited. La
ragione che porta è impressionante.
Lui non poteva scendere sulla terra e prendere la forma di uomo se quella forma non era fatta
apposta per ospitarlo. E se dico che non c’è verso che Gesù sia un uomo senza che un uomo sia Gesù,
mi sa che la sparo grossa l’eresia. Ma pazienza. Non è mai grossa come dire che un uomo non è tanto
diverso da un sasso; perché secondo me, in pratica, è così che la vedi tu. (C. McCarthy, Sunset
Limited, Einaudi, Torino 2008, pp. 79.80).
Vacanze M&P – Corvara, 16-20 giugno 2010
5
La grandezza dell’uomo sta nell’essere stato fatto degno di ospitare Dio nella sua umanità. Allora
l’uomo raggiunge la maturità affettiva, – diceva san Bernardo – quando per amare se stesso deve
amare Dio.
E l’uomo di oggi ha bisogno più che mai di ritrovare una ragione per amare se stesso e gli altri, una
ragione per poter sperare. È solo questa che lo può liberare dal suo scetticismo.
Lo stesso McCarthy in un altro romanzo, Non è un paese per vecchi, narra con uno stile veloce e
asciutto la storia di tre uomini che nel Texas di oggi, lungo il confine con il Messico, si inseguono
spietatamente, spinti da una necessità ineluttabile, in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono,
nel senso che possono scegliere «in quale ordine abbandonare la propria vita». La storia si conclude
con le riflessioni di uno di questi, lo sceriffo, su un abbeveratoio scavato sulla pietra a colpi di martello
e sull’uomo che l’aveva fabbricato in un Paese che non aveva conosciuto mai dei lunghi periodi di
pace:
Ma quell’uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un
abbeveratoio di pietra che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In che cosa credeva
quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Uno potrebbe pensare
anche questo. Ma secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei
anche dopo essermene andato via da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve
lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo
assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore
dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva
una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo l’intenzione di mettermi a scavare un
abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa
che mi piacerebbe più di tutte (C. McCarthy, Non è un paese per vecchi, Einaudi, Torino 2007,
249-50).
Ecco la domanda che vi pongo: ha senso un lavoro che non sia un “fare quel tipo di
promessa”? Ma è possibile fare all’uomo quel tipo di promessa senza prendere posizione di
fronte alla questione di Dio, cioè al senso della vita e alla risposta che storicamente è stata data
dal cristianesimo?
4) Il tempo che viviamo, come direbbe Carrón, il primo tempo “moderno” (dopo Gesù senza Gesù,
alla Péguy) ha come caratteristica fondamentale l’aver prodotto un’idea ridotta di “persona”,
un’idea per cui la persona è riducibile ad una serie di “bisogni”. Nel nostro ambiente questa
riduzione della persona a puro fatto “biologico”, ed il lavoro medico a pura prestazione “tecnica” ha
determinato un cinismo ed una progressiva separazione tra la coscienza del proprio compito e il
“grido” che emerge evidente nella realtà quotidiana.
Ma non basta sapere come è per fare un’esperienza nuova. Da dove ripartire?
R. Luisa Muraro in un libro dal titolo affascinante, Il mercato della felicità, racconta una storia che
riguarda Giuseppe l’ebreo che i fratelli consegnarono a dei mercanti di Egitto per disfarsene. I
mercanti una volta giunti in patria lo misero in vendita al mercato degli schiavi. Prima che lo
comprasse il potente Potifar, ministro del re faraone, i compratori si misero in fila per presentare le
proprie offerte al sensale quando dalla folla si alzo la voce di una vecchia che stringeva alcuni
gomitoli di lana colorata: “Ci sono anch’io, vendi a me quel giovane, lo desidero pazzamente, ecco qui
il mio pegno” e mostrò i gomitoli, spiegando che il filo lo aveva filato lei stessa. Il sensale rise:
“Anima semplice, guarda che per questo gioiello di schiavo mi hanno offerto tesori; con il tuo filo non
puoi comprarlo”. “Lo so che in questo mercato io non lo compro” gli rispose la donna. “Mi sono
messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato”. La breve storia è stata scritta da
uno dei grandi della mistica islamica persiana, Farid al-din ‘Attar, un contemporaneo del nostro san
Francesco.
La Muraro commenta così questa storia:
Vacanze M&P – Corvara, 16-20 giugno 2010
6
L’intuizione che trapela nel nostro presente e lo congiunge con la favola della vecchia innamorata
potrebbe essere detta con queste parole: il reale non è indifferente al desiderio e non assiste
indifferente alla passione del desiderare, nonostante ci capiti spesso di fare l’esperienza di una loro
apparente, reciproca, terribile estraneità; esperienza che sopportiamo male se non capiamo quello che
essa significa: non è un invito alla moderazione, secondo la veduta sensata che citavo sopra, né alla
rinuncia rassegnata, ma alla contrattazione instancabile (restare nella fila dei compratori,) sempre
rilanciata, dalla quale usciremo tanto più guadagnanti quanto più avremo rincarato sul desiderio,
perché niente di niente ci è dato senza andare al mercato in prima persona (L. Muraro, Al mercato
della felicità. La forza del desiderio irrinunciabile, Mondadori, Milano 2009, p. 8).
Da dove ripartire, dunque? Bisogna “rincarare sul desiderio”. Continua, infatti la Muraro:
Anche noi, come la filatrice di lana, andiamo al mercato con l’enormità di un desiderio
neanche lontanamente commisurato con i nostri mezzi. Intendo: quelli per comprare è godere.
Qual è la differenza fra lei e noi? Ecco quello che penso: che lei ha l’idea di un guadagno di
essere. Si mette in fila con i donatori danarosi sapendo che non può competere con loro in quel
mercato. Lo fa perché la spinge il desiderio , com’è naturale, al quale non resiste, e perché non
la scoraggia né si vergogna di avere un desiderio che non può soddisfare (Ibid., pp. 9-10).
Il suo agire suscita in noi l’idea di un mercato dove il trovarsi a corto di mezzi potrebbe rivelarsi la
sola “moneta buona”, cioè quella che ci costringe a rimanere nella contraddizione della realtà, senza
rinunciare alla grandezza del nostro desiderio.
“Anche lei ci ha provato” diranno; era inadeguata, ma non si è tirata indietro; non poteva
farcela, ma ha provato lo stesso. È questo ce diventa il mondo, teatro e testimone di un
movimento verso l’oltre e l’altrove (Ibid., p. 11).
La nostra vita viene a scontrarsi ogni giorno con il nostro ambiente di lavoro dove l’uomo è ridotto
ai suoi bisogni.
Di fronte a tale riduzione noi reagiamo con la riduzione della nostra attesa, dell’attesa del nostro
cuore. Ciò che ci aspettiamo dalla vita e dal nostro lavoro, si riduce inevitabilmente. Nel migliore dei
casi ci si accontenta del palliativo dell’«eccellenza»: il servizio eccellente, la posizione eccellente. La
gratificazione suprema cui si pensa di poter aspirare è il sorriso compiaciuto del capo che ratifica la
«professionalità» della nostra prestazione o l’«utilità» del nostro lavoro agli scopi da lui, o da chi sta
sopra di lui, definiti. Da qui diviene quasi inevitabilmente il cinismo e la violenza con cui si manipola
tutto in funzione del potere nostro o di chi ci paga.
Questo cinismo viene spesso scambiato per realismo. Ma è più realistico il realizzabile (secondo
un’immagine ridotta che noi ci facciamo della realtà) o perseguire la grandezza dei nostri desideri.
Una volta don Giussani tenne gli Esercizi del CLU su una frase del Caligola di Albert Camus (che
sarà rappresentato quest’anno al Meeting di Rimini): “Siate realisti, domandate l’impossibile”
La prima e più grande realtà, nei confronti della quale dobbiamo avere stima e lealtà, è il nostro
“io”. Il nostro io è domanda dell'impossibile.
Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della
felicità o dell'immortalità, insomma di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo
mondo (Caligola di Camus).
Se siamo onesti con noi stessi, infatti, quella riduzione dell’attesa, di cui abbiamo parlato, non può
non essere vissuta se non come una contraddizione con quell’urgenza di significato e di compimento
che rimane in quel baluardo che è nostro cuore. Solo incoerentemente con noi stessi ci possiamo
abbandonare alla disperazione: la realtà non mantiene la sua promessa!
Il reale ci è impensabile – scrive ancora la Muraro – se non pensiamo il possibile e perfino
l’impossibile, verso cui ci orienta il desiderio (. L. Muraro, op. cit., p. 22).
Un grande mio conterraneo, Luigi Pirandello, nella sua “laica” onestà, ha drammaticamente
riconosciuto:
Vacanze M&P – Corvara, 16-20 giugno 2010
7
Spesso la grandezza mia consiste nel sentirmi infinitamente piccolo: ma piccola anche per me la
terra, e oltre i monti, oltre i mari cerco per me qualche cosa che per forza ha da esserci, altrimenti non
mi spiegherei quest’ansia che mi tiene, e mi fa sospirar le stelle... (L. Pirandello, Dialoghi tra il Gran
Me e il piccolo me, in Novelle per un anno, Mondadori, Milano 1985-1990, 3 voll., III/2, o. 977).
In questa posizione della ragione di fronte all’essere, in questa affermazione di qualcosa che
necessariamente ha da esserci, in questo desiderio e in questo riconoscimento della positività del reale
c’è tutta la conformità alla natura stessa della ragione.
È l’atteggiamento più ragionevole, ma è possibile mantenerlo? Soprattutto è possibile
mantenerlo restando da soli?
Un brav’uomo è difficile da trovare è uno dei racconti più famosi di Flannery O’’Connor. La storia
è semplice e truculenta.
Il tranquillo viaggio in automobile di una famigliola americana, nella quale spicca l’anziana e
capricciosa nonna, si converte in tragedia per l’incontro con un delinquente, un pericolosissimo evaso,
il Balordo, che essendo stato riconosciuto dalla nonna, non esiterà a uccidere tutti i membri della
famiglia, compresa la vecchia. Nella conclusione, con il dialogo tra il criminale e la vecchia, viene
richiesta, in un certo modo, la disponibilità del lettore a identificarsi con l’anziana donna che sta per
morire. Un’identificazione che pone il lettore leale alle porte della morte e di fronte alla sfida
dell’assassino. Alla nonna che balbetta “Gesù, Gesù”, il delinquente replica:
“Gesù è stato l’unico a risuscitare i morti. […] E non avrebbe dovuto farlo. Ha mandato
tutto a gambe all’aria. Se ha fatto quel che ha detto, allora non ci resta che gettar tutto e
seguirlo; se non lo ha fatto, allora non ci resta che goderci meglio che possiamo i pochi minuti
che ci avanzano: uccidendo qualcuno, bruciandogli la casa o facendogli qualche altra
cattiveria. Non c’è piacere al di fuori della cattiveria”.
E’ una sfida che spinge anche il lettore a desiderare di sapere con il Balordo la verità della
resurrezione, una volta sentita con orrore la morte:
“Io non c’ero, quindi non posso dire se non l’ha fatto o no”, rimuginò il Balordo. “E vorrei
esserci stato” […] “Se ci fossi stato avrei saputo la verità e non sarei come sono adesso” (F.
O’Connor, Un brav’uomo è difficile da trovare, in ID., La schiena di Parker, Rizzoli 1998, pp.
53-54).
Come noi, uomini di oggi, possiamo sapere la verità sulla resurrezione di Cristo?
La risposta a questa domanda è legata alla possibilità dell’incontro cristiano. L’incontro cristiano
oggi è possibile perché continua ad accadere. Contra factum non valet illatio – dicevano i logici
antichi – : contro il fatto non regge nessuna supposizione contraria. Questo avvenimento è possibile ed
accade ancora nella Chiesa. Io ne sono testimone per me stesso e per molti altri.
È possibile incontrare Cristo reso presente da uomini talmente assimilati a Lui da mostrarne tutta la
grandezza della sua divinità nella loro umanità. Uomini che suscitano il desiderio dell’imitazione e
della sequela cristiana, alla quale ti fanno comprendere essere legata la tua realizzazione umana.
Quando ero giovane, mi sono fatto prete in forza di un tale incontro e la mia vita tutta è stata
sostenuta costantemente da uomini di tale statura umana che hanno generato in me lo struggimento
dell’imitazione e la speranza di un compimento maturo della mia umanità.
“Perché c’è un nesso tra l’amore a Cristo e il nostro lavoro?” si chiedeva don Giussani. La sua
risposta era: “Perché il lavoro è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che l’uomo
ha con Dio” (L. Giussani, L’io, il potere e le opere, cit., pp. 69-70).
Quel rapporto che è possibile in tutta la sua verità solo nella conoscenza di Cristo.

Nessun commento: