giovedì 10 febbraio 2011

PER USCIRE DALL'IDEOLOGIA DELLA SOLITUDINE

Da L'Osservatore Romano del 6 febbraio 2011
Carlo Bellieni

La Giornata per la vita che si celebra in Italia è un richiamo, come sottolinea il messaggio dei vescovi, a "educare alla pienezza della vita". Nelle scuole, ma anche sui media, dove latita una buona informazione sui temi etici: si pensi al modo in cui è stato presentato il suicidio di un celebre regista italiano e allo spot televisivo dove un anziano chiede l'eutanasia come "diritto", tessendo lodi della sua vita scandita da decisioni prese in solitudine e chiedendo di concluderla nello stesso modo. Due esempi di una mentalità generale e montante, in cui la libertà è ridotta ad assenza di legami e la solitudine è vista come condizione ideale per prendere decisioni.
Ma la solitudine non è un ideale, perché sarebbe come dire che lo sono anche l'ignoranza o la schiavitù. Solitudine e tristezza schiacciano e soffocano la libertà. Nello scorso dicembre la rivista "Lancet" ha lanciato un allarme contro l'"epidemia di solitudine che colpisce gli anziani", analizzata in profondità dal documento The forgotten Age del Centre for Social Justice, pubblicato in novembre nel Regno Unito. E un preoccupato messaggio viene dall'"Australian and New Zealand Journal of Psychiatry", che nel numero di gennaio mette in evidenza l'alto tasso di suicidi tra gli adolescenti.





Eppure, la liberalizzazione di eutanasia, aborto e droga si basa proprio sul far credere che quanto decidiamo nel dolore e nella solitudine sia libertà, e sul far passare come "indegno" quello che invece è una caratteristica strutturale dell'essere umano: il dipendere dagli altri, che a volte può essere quasi totale, mai però indegno. Si è dato il nome di libertà alla solitudine, chiamandola autonomia, cioè "essere ognuno la legge di se stesso". Da qui a far credere che la perdita dell'autonomia quotidiana (camminare, parlare) renda la vita indegna il passo è breve. Ma non è così. Dipendere da una figlia o da un padre non è indegno, ed è profondamente ingiusto diffondere questa idea. La lotta alla malattia ci sta a cuore, ma non accettiamo l'idea che la vita malata e dipendente dagli altri perda significato.
Per diffondere la cultura della solitudine, i media tacciono i tanti casi di eroismo di fronte alla malattia, dando spazio ai rari esempi di coloro che rivendicano la supposta libertà di lasciarsi morire. Su questo tema si è discusso di recente, col solo errore di pensare che questo comportamento dei media nasca da una cultura della morte, la quale presuppone un'ideologia nichilista e autoritaria. Si tratta invece più banalmente di una cultura della solitudine, in realtà forse ancor più pericolosa della prima: essa mostra infatti un volto mite, che contrasta con i suoi effetti nefasti, e dissimula l'angoscia esistenziale della mentalità che la genera. Oltretutto, c'è un dato semplice e lampante che dovrebbe far riflettere: quanti vogliono vivere sono molto più numerosi di coloro che vorrebbero morire. Questo dovrebbe in primo luogo garantire un accesso proporzionale all'informazione, e soprattutto far capire che la scelta per la morte è e resta l'eccezione, perché non è ciò che i malati vogliono se le condizioni esterne non li inducono alla disperazione. Ed è compito dello Stato assicurare loro buone condizioni, non agevolare la morte.
Chi diffonde sui media un volto nobile della morte provocata, dovrebbe almeno immaginare quanto questo sia nocivo per le persone che soffrono, in particolare chi è depresso o solo. In questo modo, curare la vita del disperato o aiutarlo a farla finita appaiono due opzioni uguali, dello stesso peso. Ma è un ragionare strano, perché solitudine e disperazione sono l'antitesi della libertà e la annullano, riducendola a una ritirata forzata. Ed è pericoloso, per i rischi di emulazione: ricordo che in Italia una ventina di anni fa ci fu un breve periodo durante il quale si suicidarono molti adolescenti, e non è stato questo l'unico caso di suicidio contagioso. Bisognerebbe poi approfondire quanto influisca il peso economico nelle richieste di liberalizzazione dell'eutanasia. Nello scorso dicembre il "British Journal of Nursing" ha paventato il rischio dell'apertura all'eutanasia non per motivi "nobili", ma molto più prosaicamente per abbattere la spesa sociale. Come scrivono i vescovi italiani, la Giornata per la vita è un impulso verso "un nuovo umanesimo", per uscire dall'ideologia della solitudine e della paura. E, come ha spiegato il Papa lo scorso 17 novembre, è una spinta a ritrovare una "giustizia sanitaria", perché l'attacco alla vita viene subito dopo l'attacco alla giustizia. E cosa c'è di più ingiusto che lasciare una persona sola, o farla considerare inutile?
La paura di dover dipendere dagli altri, quasi non fosse la nostra condizione quotidiana, e il culto orgoglioso dell'autonomia, come se ogni giorno non obbedissimo a leggi universali e naturali con nostro giovamento, concorrono ad aprire all'eutanasia, ben diversa dal diritto a sospendere l'uso di medicine se inutili e intollerabili. È una cultura questa che definisce persona solo chi è in possesso di certe condizioni di indipendenza, e nasce da una società intrisa di disabilità affettiva. Una disabilità peggiore di quella fisica o mentale, perché non educa alla solidarietà verso queste ultime, ma solo all'infantile desiderio di farle sparire per magia.
Carlo Bellieni


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