Una spiritualità nuova e antica
di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 22 aprile 2011
Per una serie di concatenazioni il prete è oggi una delle questioni più spinose per il cattolicesimo romano. Costruito al Concilio di Trento con un profondo restyling della sua precedente fisionomia,esso è stato il fulcro di un potere e di un’attenzione secolare, che s’è esaurita ben prima che il calo delle vocazioni, iniziato col secolo XIX, certificasse la necessità di una metamorfosi diagnosticata
male e curata peggio. Dopo la ricerca ansiosa di una «teologia del laicato» , al fondo simmetrica e subalterna a una visione clericale della Chiesa come potere, il Vaticano II ha riportato al centro dell’ecclesiologia non la nozione, ma l’esperienza della comunione. Eppure, se si eccettuano alcuni passaggi della costituzione sulla liturgia di grande lucidità, non è riuscito a far derivare dalla teologia «eucaristica» del vescovo una figura del prete. E in Italia la pubblicità dell’ 8 per mille— studiata con finezza nel saggio Chiesa e pubblicità. Storia e analisi degli spot 8x1000 di don Dario Viganò (Rubbettino) — fornisce una radiografia affettuosa e spietata delle conseguenze che gravano sul prete, del quale si suggerisce una comprensione comunque periferica rispetto alla trasmissione della fede di cui è custode chi presiede una comunità per sacramento e non per leadership. Durante
il pontificato di Wojtyla s’è inserita in questo panorama mutevole e difficile l’idea che non più dai seminari, ma dai movimenti potesse venire un «nuovo» clero (e, se mai, un nuovo episcopato postmontiniano).Un prete meno solitario, ma per natura sua «brandizzato» : e che dunque, quando arriva a posti di potere, deve dimostrare che non sta lottando per la promozione del proprio marchio.
E al tempo stesso un prete dentro le tempeste più varie (per i Legionari di Cristo i crimini tragici del fondatore, per altri le disinvolture affaristiche dei condiscepoli) vede il proprio compito singolare compromesso da un sospetto finemente nebulizzato. Cosa accada di specifico e di sano dentro questo mondo è invece più difficile da capire. — per questo il volume, in uscita il 16 maggio,
La casa, la terra, gli amici. La Chiesa nel terzo millennio (San Paolo, pp. 136, € 13) di monsignor Massimo Camisasca, rivolto ai membri della fraternità sacerdotale San Carlo a Roma, dove vivono e lavorano tanti preti di Comunione e Liberazione, offre molti spunti. Camisasca è noto soprattutto
per la sua storia di Cl, ufficialissima nelle menzioni e nelle omissioni. Qui lo troviamo in una diversa veste: quella di formatore che spiega ai suoi fratelli il senso di una vita comune come fondamento di una spiritualità del prete nuova e antica. Le tre figure del titolo servono a illustrare le sfide e i problemi della vita interiore alla luce di un’esperienza personale e decisiva, l’amicizia e il
discepolato di don Luigi Giussani, che Camisasca capisce bene non possa essere comunicato se non tornando al nodo di fondo di quell’incontro, e cioè alla comunicazione della centralità di Cristo. È significativo che, al pari di tante esperienze spirituali del Novecento, nate insofferenti verso le forme antiche, anche in questo caso siano le strutture di fondo della spiritualità monastica latina che
tornano: quelle dell’amicitia monastica che assume il microcosmo cenobitico come prova e riprova della lotta interiore; quelle della casa dalla quale— per lungo tempo, racconta l’autore — manca una cappella perché sia netto il fatto che il Cristo può essere solo accolto, non posseduto: e che alla fine la crea per spiegare nell’adorazione che «la missione non è altro che il dilatarsi del nostro
silenzio» . Com’è ovvio, emergono almeno due nodi connessi alla parte spirituale della vicenda nata attorno a Giussani: il primo che Dio debba far parte «del nostro essere e del nostro benessere» ,chiave di volta dell’idea che l’esperienza religiosa non solo possa trovare il proprio senso sotto la croce, ma debba essere comunicata come qualcosa di disponibile alla confessione di fede; il secondo discende dall’idea che «ciò che è iniziato con Gesù non è ancora compiuto» , ma vede questo compiersi non nel mistero del cosmo e dell’umanità, ma nel destino di un vissuto cristiano solo esternamente specifico. Questioni che s’intrecciano con una visione più ampia: perché il rischio dello spiritualismo «sentimentale» , giustamente denunciato come incombente ad un cristianesimo delle affettuosità, è sempre bilanciato dal fatto che la vita cristiana non può esistere se non nel tempo e dunque «nel sacrificio di molte esperienze e di molti errori» . Solo tornando in modo lucido e limpido al fondamento che salva, perché intimo e del tutto altro rispetto ai balbettii della preghiera che non sa nemmeno cosa chiedere se non ciò che le è stato consegnato, si può dunque compiere la promessa di cui l’Evangelo è teste e pegno.