giovedì 5 luglio 2007

L'UOMO CON LE VALIGIE IN MANO


L’articolo di Francesco Agnoli comparso su il Foglio di martedì 3 luglio mi è piaciuto moltissimo.
Come giornalista è riuscito a comunicarmi e a rendermi più consapevole del perché nella mia vita mi capita di pensare sempre alla morte, pur non sentendomi pessimista.
Spesso, anche i miei figli stessi, mi dicono che parlare di morte, di provvisorietà può diventare un ricatto morale per gli altri.
Con la nascita di Giovanni mi diventa sempre più chiara la necessità di mendicanza e di abbandono. Il limite, così forte, non suo ma mio, ogni giorno riaffiora più evidente e non può che farmi piegare per rialzare la testa per domandare. Questa consapevolezza fa sì che nel quotidiano mi sia più semplice continuare a domandare la conversione. Conversione di sguardo. E’ un esercizio costante che nel tempo, lentamente mi fa cambiare. Solo chi tanto pecca più tanto ama.
Ritengo che questa sia la grazia che la presenza di Giovanni mi richiama costantemente, mi mostra con evidenza come l’amore verso l’altro può continuamente crescere e che non ci si può sentire mai arrivati e tutto dipende da una mendicanza ad un Altro.
Avere in mente questa precarietà mi aiuta ad essere più seria e non rimandare le cose ad un domani.
Proprio in qusti giorni mi sono resa conto di quanto sia importante approfondire sempre di più i rapporti con le persone che il Signore mi ha messo sulla strada.
Il marito per primo, i figli, gli amici.
La tentazione di pensare che una volta sposati i figli non ci si debba nuovamente mettere in discussione per poter afffrontare un rapporto che cambia, ma che sicuramente può crescere, è forte.
Non si vuole fare la suocera e può accadere che per non interferire lentamente nel tempo si diventa estranei.
Rischiare il nuovo rapporto è importante, perchè il rischio ora può essere che lentamente ciascuno viva di ricordi, per poi incontrarsi dopo anni non avendo più nulla da dirsi; i figli continuano nel loro percorso e i genitori vanno ad aspettare il trapasso in gabbie dorate.
Il rischio di vita su binari paralleli è forte e due strade parallele non possono più incontrarsi.
Ritengo che, proprio avendo presente la precarietà, l’avere sempre in mano le valigie può permettere di giocarsi meglio.
Certamente sono tanti i rischi di incomprensione, ma se continuamente ci si aiuta ad avere un unico traguardo, lentamente nel tempo ci si incontrerà.
E’ come fra marito e moglie, il rapporto può durare non perche' la nostra capacità di amore è più o meno gande, non perchè siano necessari sforzi titanici, ma perché in ambedue c’è la consapevolezza della diversità, del limite, ma un obiettivo comune che è il proprio Destino.

IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 3 LUGLIO 2007

di Francesco Agnoli
L’UOMO CON
LE VALIGIE IN MANO
Il problema è arrivare pronti alla partenza,
che è meglio non sia né improvvisa né subitanea



Un giornale quotidiano, di solito, se
non è un po’ particolare, è il luogo meno adatto per parlare del dopo, dell’aldilà. Il quotidiano, infatti, è il regno
del qui ed ora. E’ nato per questo: per parlare di ieri, di oggi, per influire sulla realtà, immediatamente, subito, senza indugi. La notizia ancora calda è già “compresa”, discussa, sviscerata. Se
non è più calda è scaduta, non interessa più. Durante la rivoluzione francese nascono circa cinquemila giornali in
pochi anni: ognuno vuole dire come costruire il mondo, ognuno ha una idea, una proposta, una promessa politica da fare. La buona novella è per domani, massimo dopodomani. L’importante è
rimboccarsi le maniche, agire nel breve periodo, sconfiggere il nemico, e poi gustare la vittoria, in fretta, come si gusta
un pasto veloce, al fast food. Il giornale, diceva Hegel, è la preghiera mattutina del laico: serve a tenerlo ben ben radicato nella terra, nella cronaca, nei fatti, nelle res, senza mai permettergli di spiccare il volo, di liberare lo spirito, di
alzare gli occhi al cielo.
Di novità in novità, di scoop in scoop, di affermazione in smentita, rimaniamo imbrigliati nelle contingenze, occupata
la mente e distratto il cuore. Viviamo della vita degli altri, delle vicende degli altri, di riflesso, senza penetrare nella
nostra vita e nella nostra storia, interamente fuori, aldilà di noi stessi. In fondo tutta la modernità è questa congiura:
contro la possibilità di fermarsi a pensare, di assaporare il silenzio, immagine dell’eternità, di rientrare in noi stessi
per cercare la voce di Dio, che risuona lì dove non ci sono altri rumori, altri interessi, altre preoccupazioni; che ci parla
solo nella quiete, quando i sensi sono placati, quando i desideri e le bramosie mondane sono acquietate da una volontà che si impone e che si afferma.
Oggi la “torma delle cure” ci assale
Viviamo nel culto dell’effimero, nell’ansia delle novità, e
difficilmente pensiamo a ciò che dura, che rimane, che non scade

ogni momento, e ogni istante libero è occupato da giornali, televisioni, radio, cellulari e musichette: oltre c’è l’abisso, “il vuoto a ogni gradino”, la paura di cadere, non si sa dove. L’oltre è negato, perché richiede un passo diverso. Viviamo
nel culto dell’effimero, nell’ansia delle
novità, e difficilmente possiamo pensare a ciò che dura, che rimane, che non scade. Siamo figli del primato fichtiano
dell’azione sull’essere: in principio è l’azione, non il Logos. Anche in chiesa ormai ci spiegano che l’importante non è
pregare, o andare a messa, ma “fare del bene al nostro prossimo”. Come se fosse facile, riconoscerlo, il nostro prossimo, a
volte così “fastidioso”, senza pensare all’oltre, senza andare al di là delle apparenze, senza una preghiera pronunciata,
a labbra chiuse, per chiedere quella capacità di amare che ci manca.
Figli di questo rifiuto del Logos, di questa civiltà dell’agire, non sappiamo neanche più ragionare su ciò che è essenzialmente, eternamente vero, giusto, ingiusto: si sentono le persone trattare dei massimi problemi dell’uomo, dell’essenza umana, e riferirsi non a principi, non a idee,
non ai fondamenti, non al cuore della loro esperienza, ma alle legislazioni cangianti di altri paesi, ad usi e abitudinimutevoli, a luoghi comuni. La famiglia? Non si indaga neppure cosa essa sia. Si dice semplicemente: bisogna adattarsi ai tempi… in Europa fanno così, i tempi cambiano… faccia ognuno come vuole…
Se solo la parola Verità compare sulle labbra di qualcuno, tutti si spaventano, come fosse qualcosa di troppo aspro, di
troppo duro, di troppo eterno.

Così anche la parola morte sembra eccessivamente crudele, difficile, impopolare. Personalmente, invece, mi diverto talora a scherzare sulla morte,
“sorella nostra morte corporale”, sfidando i tabù dominanti: ne parlo per vedere le reazioni, e le paure. Paure di chi abita su questa terra come cittadino di questa terra, come se fosse una dimora perenne, da addobbare e da sistemare
per sempre, da non lasciare mai
. E invece qui, su questa terra, ci stiamo poche ore. “Questa vita mortal che ’n una o ’n
due brevi e notturne ore trapassa”: così scriveva il Della Casa, l’uomo del Galateo e delle belle maniere. “La vita fugge, et non s’arresta un’ora/ et la morte
viene dietro a gran giornate,/ et le cose
presenti et le passate/ mi danno guerra,
et le future ancora”: questo invece è il
buon Francesco Petrarca, il poeta che si innamora di Laura e dell’alloro, delle cose che svaniscono, e che medita nello
stesso tempo su come “tutto al mondo passa, e quasi orma non lassa”. La nostra letteratura è piena di riflessioni
sulla morte: da “Quando t’aliegre, omo d’altura”, di Jacopone da Todi, in cui si
invita il superbo a umiliarsi, osservando un cadavere, sino a “Quid est homo?”, del Sempronio: “E’ fior, che nell’april nasce e languisce; è balen, che
nell’aria arde e trapassa; è fumo, che
nel ciel s’alza e svanisce”.

Ma non è vero che solo i cristiani
hanno sviluppato un’ampia riflessione
sulla morte, come accusavano gli illuministi, che la morte la mettevano tra parentesi, per non rovinare le loro costruzioni filosofiche, per non dover fare i
conti col mistero e col giudizio finale.
Seneca ricordava spesso che “moriamo
un poco ogni giorno” (Cotidie morimur)

La parola morte ci sembra
eccessivamente crudele, difficile,
impopolare. Gli illuministi la
mettevano tra parentesi

e che nasciamo diversi ma moriamo
uguali (Impares nascimur, pares morimur). E Orazio diceva che la morte
eguaglia gli scettri alle zappe (Sceptra
ligonibus aequat). Egualmente la letteratura e la filosofia greca ci tramandano riflessioni ed exempla sulla morte
molto significativi. Si racconta ad esempio che Diogene stesse cercando qualcosa, tutto affannato, tra un insieme di
cadaveri. Alessandro Magno gli chiese
cosa facesse e lui rispose che cercava il

teschio di suo padre, il re Filippo, ma
che non sapeva distinguerlo tra tutti gli
altri: “Mostramelo tu, se sai”.

Sì, benché oggi si preferisca ignorarlo, qui non ci staremo per sempre. Questa è la realtà, una realtà che non spaventa chi crede nel dopo. Una realtà su cui riflettere, perché il pensiero dell’aldilà è sempre stato considerato il miglior antidoto alla venerazione degli idoli del potere, della fama, della ricchezza. Idoli che ci precludono l’aldilà, che rendono corto e piccino il nostro sguardo, triste, inutile, tormentata, anche la vita su questa terra. Idoli a causa dei quali barattiamo l’infinito con il finito, l’eternità con il tempo, i piaceri con la Felicità.

Nella famosa lettera a Diogneto, in cui si descrivono le peculiarità dei cristiani, si legge: “Vivono nella loro patria,
ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini, ma sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria
loro, e ogni patria è straniera”. Sì, per credere nell’aldilà bisogna vivere un paradosso: un ottimismo incrollabile, una
fiducia assoluta, e, insieme, una chiara idea del nostro essere pellegrini, di passaggio, in esilio in una patria non nostra.
Amore per ogni patria, dunque, e desiderio intenso dell’unica patria vera. Lo
stesso paradosso di Gesù, che ci dice di
aver offerto la sua vita per il mondo, pur
non essendo del mondo. Scriveva sant’Agostino: “Nelle tenebre di questa vita,
dunque, nelle quali ci aggiriamo come
in esilio lontani dal Signore, finché camminiamo col sostegno della Fede, non di
una visione diretta, l’anima del cristiano
deve ritenersi derelitta, affinché non
cessi di pregare e di fissare l’occhio del-
la fede sulla parola delle divine e sante
scritture come su di una lampada posta

Appunti per il dopo

C’è un prima, pomposamente detto storia, origine. Un adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo che vorremmo parlare. Su un
giornale quotidiano, ma con quattordicimila battute di computer a disposizione.
Come sempre, scriverne in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia, teologia, science fiction (la
scienza esatta ne sa nulla). Offre inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del mattino recitata nella
scrittura e lettura di un giornale quotidiano? In Aristotele il tempo è “il numero
del movimento secondo il prima e il poi”, un numero. In Platone un’immagine,
“immagine mobile dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare
una pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello che sta dopo.

in un luogo tenebroso, finché non risplenda il giorno e la stella mattutina
sorga nei nostri cuori… Allora, dopo la morte, sarà la vera vita e, dopo l’abbandono, la consolazione vera: quella vita
strapperà alla morte la nostra anima, quella consolazione libererà i nostri occhi dalle lacrime… giacché là non vi sarà più l’attesa di un bene promesso, ma la contemplazione di un bene dato”.

E W. F. Schlegel, qualche centinaio di
anni più tardi: “Presso i greci la natura
umana bastava a sé stessa, non presentiva alcun vuoto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue
proprie forze possono realmente farle
conseguire. Ma quanto a noi, una più alta dottrina ci insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il
posto che gli era stato originariamente
destinato, non ha sulla terra altro fine
che di recuperarlo; al che tuttavia non

Il pensiero dell’aldilà è sempre
stato considerato il miglior antidoto
alla venerazione degli idoli del
potere, della fama, della ricchezza

può giungere, s’egli resta abbandonato a se stesso. La religione sensuale dei greci non prometteva che beni esteriori e
temporali: l’immortalità, seppur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgorante. Sotto il punto cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha dei limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e solo di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale… E perciò la poesia degli antichi era quella del godimento; la nostra è quella del desiderio; l’una si restringeva al presente, l’altra si libra tra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire”.

In esilio, dunque: cioè in attesa di
“cieli nuovi e terra nuova”, di una partenza, sempre con i bagagli pronti, con la speranza di un futuro diverso, di un completamento dei nostri desideri di Felicità, di Bene, di Giustizia, di Bellezza, così spesso conculcati su questa terra. “Tristi”, dunque, per la consapevolezza di un bene assente, ma nondisperati, come se questo bene non esistesse per nulla. Dove sta allora l’ottimismo cristiano? Per il cristiano l’uomo non è un parassita, né una semplice scimmia, né il cancro dell’universo, né materia che si trasforma, né figlio del caso, né semplice componente di una razza o di una classe sociale: qui sta il suo umanesimo. Per lui ogni momento vissuto, ogni incontro fatto, ogni azione compiuta ha una risonanza eterna, proprio a causa
dell’aldilà: cioè nulla va perso, nulla è inutile, nessuna parola buona, nessun sorriso, nessun sacrificio, nessun pianto
è sprecato. Gli alunni che ho conosciuto,
e che ho salutato a fatica, gli amici che
ho incontrato e che poi ho perso, le per-
sone con cui si sono condivise storie e
pensieri, ritorneranno tutti, in un abbraccio universale. Sulla maglietta di
una mia alunna di quinta, che forse non
rivedrò più, quaggiù, ho scritto: “Finisce
una storia, ne inizia un’altra: ma nulla si
perde di ciò che abbiamo vissuto”. Lo
può scrivere chi crede nell’aldilà: non
oso pensare cosa proverei, quale sarebbe la mia desolante malinconia, se non
fossi sicuro di questo.

Ogni mio capello è contato, ogni capello dei miei fratelli è guardato e vegliato da Dio stesso. Non c’è ottimismo
più grande, non c’è tranquillità, sere-

Solo con i piedi ben piantati
nell’aldilà, che è già qui, “ora
e non ancora”, possiamo amare
tranquillamente e per sempre

nità, certezza più splendida di questa.
Di essa hanno vissuto i santi, cittadini di
questa terra più di ogni altro, pellegrini
di passaggio, senza sandali né bisaccia,
più di ogni altro. Per questo, dopo di loro, io so che non andrà buttato nulla,
che potrò fermarmi a ricordare, tra venti o quarant’anni, le cose fatte e le per-
sone incontrate, senza che la malinconia diventi disperazione, senza che il
velo di tristezza che accompagna ogni fine, ogni evento svanito, ogni limite, diventi domanda inevasa di significato,
rabbia, rancore, senso di impotenza. Solo con i piedi ben piantati nell’aldilà,
che è già qui, “ora e non ancora”, possiamo amare tranquillamente e per
sempre i nostri genitori, i nostri amici,
nostra moglie e i nostri figli. Solo così
non dovremo mai pensarla come Zeno
Cosini, ne “La coscienza di Zeno”, quando, parlando della moglie, dice: “Essa
sapeva che tutti dovevamo morire, ma
ciò non toglieva che ormai ch’eravamo
sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava
che quando a questo mondo ci si univa,
ciò avveniva per un periodo tanto breve,
breve, breve, che non si intendeva come
si fosse arrivati a darsi del tu dopo non
essersi conosciuti per un tempo infinito
e pronti a non rivedersi mai più per un
altro infinito tempo”.

Al contrario, ragionare in termini di eternità, sapersi da sempre e per sempre nella mente e nel cuore di Dio, ridona senso alle cose e agli eventi, e nello stesso tempo li colloca tutti nella giusta prospettiva: non c’è ansia, agitazione, premura, in chi vede ogni fatto alla luce dell’eternità. Ognuno di quei problemi che attanagliano e angustiano
chi limita la sua vita a se stesso e al
tempo presente, si ridimensiona, se osservato con occhio spirituale, con la consapevolezza dell’aldilà.

L’unico grande problema che rimane è quello di essere pronti, al momento della morte. Per questo i nostri padri, che erano stati educati fin da bambini, anche nella liturgia, a considerarsi polvere, paradossalmente polvere e immortalità, pregavano come l’uomo d’oggi non farebbe più: “A improvvisa et subitanea
morte libera nos Domine”. Liberaci Signore dalla morte improvvisa e subitanea. La morte è dunque bene guardarla in faccia, prepararla, viverla sino alla fine, come un momento stesso della vita, un momento di passaggio. Solo la “morte secunda” può farci male.

L’UOMO CON
LE VALIGIE IN MANO
Il problema è arrivare pronti alla partenza,
che è meglio non sia né improvvisa né subitanea




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