martedì 10 luglio 2007

VOGLIONO RIDURRE LA MEDICINA A SEMPLICE TECNICA

Eutanasia - mar 26 giu
Intervista a Felice Achilli
di Francesco Ognibene

Chi quotidianamente lavora a contatto con la malattia e la sofferenza, non solo fisica, è costretto a misurasi tutti i giorni con la domanda circa il significato della vita. Non solo quella degli altri, ma anzitutto la propria, e con essa anche con la fatica necessaria per continuare a prendersi cura dei malati.




E’ il medico la frontiera avanzata sulla quale si decidono le grandi questioni etiche: le decisioni spettano a lui, è lui che deve confrontarsi ogni giorno con domande sempre più incalzanti. Di medicina, bioetica e professione si occuperà il quarto convegno internazionale dell’associazione «Medicina e Persona» da oggi a sabato nell’aula magna dell’Università statale di Milano. Ne parliamo con il presidente, Felice Achilli.

Fino a qualche tempo fa il vostro tema («La nuova medicina: cura della persona o utopia dell’uomo perfetto?») sarebbe stato rubricato tra le domande oziose: era ovvio che il medico e la medicina avessero senso per prendersi cura della persona. Perché, oggi, così ovvio non lo è più?
L’enorme avanzamento delle biotecnologie ha reso possibile l’offerta di prestazioni mediche fino a poco tempo fa impensabili. Ciò ha determinato un cambiamento culturale nella concezione del rapporto fra medico e paziente: il primo spesso crede che il suo compito sia solo "tecnico" cioè quello di correggere "difetti biologici", l’altro si aspetta dalla medicina l’infallibilità. Newsweek del 4 giugno scorso titolava Playing God, accusando cioè il mondo medico-scientifico di Giocare a fare Dio. Il problema pertanto non è solo nostro ed è molto serio. Il convegno non vuole genericamente richiamare alla necessità di una umanizzazione della medicina, ma ribadire che solo accettando integralmente la sfida della cura, e il mistero della persona, si può usare correttamente la tecnologia.

Tra i medici italiani prende corpo una domanda etica sul proprio agire, o anche nella sua categoria si avverte la tentazione di ricorrere ai facili schemi culturali che vengono propagandati dall’ideologia dei "diritti civili"?
Chi quotidianamente lavora a contatto con la malattia e la sofferenza, non solo fisica, è costretto a misurasi tutti i giorni con la domanda circa il significato della vita. Non solo quella degli altri, ma anzitutto la propria, e con essa anche con la fatica necessaria per continuare a prendersi cura dei malati. Il "dibattito bioetico" appassiona soprattutto politici, filosofi e bioeticisti. Frequentando corsie di ospedali costoro si accorgerebbero che la realtà è molto più complessa, e che la prima domanda del paziente è di essere accolto, assistito, curato al meglio e non abbandonato in un percorso difficile. Tale cammino non è garantito da nessuna legge. Il "consenso informato" è uno strumento sufficiente, ma deve esserci un rapporto di cura autentico. Non c’è bisogno di altro.

Mai come in questi anni le questioni dell’inizio e della fine della vita hanno coinvolto anche l’opinione pubblica. Da medici, come valutate questa estensione delle conoscenze e del dibattito?
L’allargamento di questo dibattito ha dentro un grosso rischio: la banalizzazione e la generalizzazione. Inoltre, risente di un contesto ideologico che poco ha a che fare con la pratica clinica quotidiana. I medici e gli infermieri hanno ben chiaro di non essere i "padroni della vita" né ambiscono a diventarlo. Né più né più meno di qualsiasi altro uomo. Alle persone occorre la certezza di incontrare professionisti che hanno scelto, come direbbe il mio amico Mario Melazzini, la strada della "presa in cura integrale". Senza questo, più che trasparenza si rischia di produrre confusione».

Si è andata consolidando l’idea che a decidere del destino di un paziente sia la sua "qualità della vita". Dal punto di vista del medico, che significato ha questa espressione?
Bisogna anzitutto fare chiarezza: la qualità della vita non è un parametro standard né assoluto. Si può essere, come testimoniano moltissimi malati, pieni di problemi, ma felici. La qualità della vita dipende dal significato che riconosciamo a essa, e il senso della vita non dipende ultimamente da noi. Si può essere sanissimi, pieni di diritti, ed essere drammaticamente soli. Che la vita abbia una qualità dipende dal fatto che sia amata, non che sia priva di difficoltà o difetti.

Per affinità tematica: perché negare a una coppia che desidera legittimamente un figlio sano la possibilità di selezionarlo prima della nascita?
Per quello che ho detto prima, il senso, l’avventura della vita non è nelle nostre mani. Il più grande musicista del mondo, Beethoven, era sordo; uno dei più grandi pittori era malato di mente. Non è l’assenza di difetti biologici alla nascita che garantisce una vita "piena".

Altra idea ricorrente è l’autodeterminazione del paziente, cioè la sua libertà di decidere di se stesso, dalle terapie da accettare o rifiutare alla stessa vita cui poter mettere termine quando lo si reputi opportuno. Che estensione può avere questa libertà? Non è vero – come si sente dire – che ognuno è libero di disporre della propria vita?
È esperienza comune che anche la libertà del singolo non è senza limiti. Se affermo che ho diritto di porre fine alla mia vita, pongo l’altro, in questo caso il medico, nell’obbligo di farmi morire. Chi ha il diritto di far morire un altro uomo? È schizofrenico combattere a favore della moratoria contro la pena di morte e nel contempo auspicare l’autodeterminazione come valore assoluto. Prima della libertà viene il valore della vita, come bene prezioso da affermare. Se l’autodeterminazione è un diritto assoluto (come asserisce Micromega non si può non ammettere il suicidio volontario. Mi sembra un’orizzonte irrealistico e disumano.

È vero che il testamento biologico non sarebbe altro che la prosecuzione del consenso informato, e dunque che non è il caso di fare tante storie per una legge?
Il testamento biologico è ideologico e astratto. Con esso si introduce un vulnus nella natura autentica della professione medica, che è connessa sia allo stato delle conoscenze che al rapporto con il malato. Qualsiasi dichiarazione anticipata è astratta perché non tiene conto di questi due fattori che evolvono nel tempo. Inoltre di fatto introduce la possibilità che il medico possa somministrare morte: non abbiamo studiato per questo. Né si può pensare ideologicamente alla scappatoia dell’obiezione di coscienza: non esistono due verità una per il medico obiettore e una per il non obiettore. La natura dell’atto medico è identica per tutti.

Si è detto che i medici hanno ecceduto in "paternalismo" con i pazienti. Adesso qualcuno inizia a lamentare il rischio opposto, cioè che il paziente detti al medico cosa fare. È vero che tra i suoi colleghi si fa largo l’idea che sia meglio scaricare la responsabilità delle scelte sul paziente e sulla sua famiglia?
Di recente a una mia paziente cui è stata fatta una diagnosi di tumore al seno è stato posto questo quesito: ci sono tre possibilità di terapia con probabilità di sopravvivenza diverse e con diversi effetti collaterali, scelga lei. Questa non è medicina, è tecnicismo cinico.

A sentire qualche vostro collega, pare che sulla scena dell’etica medica ci siano i medici cattolici che dicono un no dietro l’altro e i medici laici che sono per i diritti e la libertà. È così?
Assolutamente no. La grandissima parte dei medici percepisce che il problema del farsi carico dei pazienti non è ideologico, né dipende dall’apparteneza religiosa. È un problema di sensibilità umana e responsabilità. Non a caso la ricerca del medico "risolutore" nel caso Welby ha richiesto molti mesi: nessuno si è prestato a questo omicidio di consenziente.



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