venerdì 6 novembre 2009

UN LETTORE HA CHIESTO:MA CHI E' CONGON?

Ma in che senso si può parlare dell’arte di Congdon come di una «avventura dello sguardo»? Ovviamente lo spazio non mi consente di trattare l’argomento in tutta la sua vastità.


.......Cosa guarda lo sguardo dell’artista?

La risposta di Bill era sempre categorica: «Io guardo quello che c’è». Non le proprie reazioni, non le immaginazioni, i sogni, le concezioni della realtà, ma la realtà tout court. Certo, l’occhio dell’artista non è una pellicola fotografica che registra passivamente ciò che la impressiona. L’occhio dell’artista è spinto a cogliere il segreto della realtà cui si trova di fronte, a tentare di svelare il mistero del suo stesso esserci invece che essere niente. Per questo nei quadri di Bill troviamo sempre degli oggetti (anche nelle opere apparentemente astratte), ma quegli oggetti sono trasfigurati in immagini, cioè in qualche modo mostrati nella loro struttura ultima, nel loro essere eterno.......


A dieci anni dalla morte di William Congdon, “l’avventura dello sguardo”

di Pigi Colognesi

La vicenda artistica di William Cogdon (1912-1988) può essere sinteticamente definita (sono parole spesso usate da lui stesso) una «avventura dello sguardo». Ed è proprio questo il titolo che la Fondazione a lui intitolata e il Centro Culturale di Milano hanno scelto per l’incontro di questa sera (Milano, Salone d’Onore della Triennale, ore 18.15) a dieci anni dalla scomparsa del grande pittore americano.

Non si tratta di una commemorazione. A Congdon non sarebbe piaciuta; niente era più lontano dalla sua sensibilità della celebrazione esteriore, della patinata superficialità degli «eventi» che caratterizzano troppo spesso il mondo dell’arte. Per questo gli organizzatori hanno voluto che si parlasse di lui dal di dentro del fare artistico oggi. A questo scopo hanno invitato Claudio Olivieri, un artista che presenterà il suo proprio cammino nella pittura, con la quale, come ha scritto, «le apparenze si mutano in apparizioni. È così che ci viene restituito il nostro presente, l’assolutamente unico ma imprevedibile presente». Ci saranno poi Elena Pontiggia, docente di storia dell’arte all’Accademia di Brera e Rodolfo Balzarotti, direttore scientifico della The William Congdon Foundation, chiamati ad illustrare il significato dell’esperienza artistica contemporanea e di quella di Congdon in particolare. I partecipanti potranno anche vedere due brevi filmati su Olivieri e Congdon e, soprattutto, alcune loro opere.



Ma in che senso si può parlare dell’arte di Congdon come di una «avventura dello sguardo»? Ovviamente lo spazio non mi consente di trattare l’argomento in tutta la sua vastità. Forse potranno essere utili alcuni cenni.

Anzitutto è fondamentale chiarire che per Congdon l’arte fu solo avventura dello sguardo. Nel senso che nella sua lunga «carriera» (dagli inizi newyorkesi al fianco di artisti diventati celeberrimi come Pollock o Rothko, allo stabilirsi in Italia dove ha ritrovato la fede cristiana da tempo abbandonata, all’ultimo fecondissimo periodo trascorso nella Bassa milanese) Bill non ha avuto in mente altro che l’approfondirsi del proprio occhio di artista, che l’ubbidienza a ciò che l’occhio gli consentiva di vedere e il dono artistico di trasfigurare sulla tavola. Così, per lui il successo commerciale, l’encomio o il rifiuto dei critici, la comprensione e l’apprezzamento degli amici sono venuti sempre un istante dopo il suo dedicarsi totale a quella avventura. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ricorda bene l’intensità e l’ostinazione con cui tornava sempre e solo su quel punto, sul dono artistico e le innumerevoli epifanie che di esso realizzava nei quadri.



Cosa guarda lo sguardo dell’artista?

La risposta di Bill era sempre categorica: «Io guardo quello che c’è». Non le proprie reazioni, non le immaginazioni, i sogni, le concezioni della realtà, ma la realtà tout court. Certo, l’occhio dell’artista non è una pellicola fotografica che registra passivamente ciò che la impressiona. L’occhio dell’artista è spinto a cogliere il segreto della realtà cui si trova di fronte, a tentare di svelare il mistero del suo stesso esserci invece che essere niente. Per questo nei quadri di Bill troviamo sempre degli oggetti (anche nelle opere apparentemente astratte), ma quegli oggetti sono trasfigurati in immagini, cioè in qualche modo mostrati nella loro struttura ultima, nel loro essere eterno.




Un’ultima parola va detta sul termine «avventura». Anche biograficamente la vita di Congdon è stata un’avventura: ha girato i posti più belli e sperduti del mondo, ha «dato la caccia» all’immagine a New York come a Venezia, nel Sahara come nella foresta cambogiana, a Parigi e a Bombay e in moltissimi altri luoghi. Ma non è tanto questa l’avventura. O meglio: questa è la superficie. Sotto stava quell’altra drammaticissima avventura della purificazione dello sguardo, dell’illimpidirsi dell’occhio, del liberarsi della mano da ogni violenza che si impone alla materia e del cuore da ogni tentazione di possedere l’immagine. È stata, questa, un’avventura che ha raggiunto dei risultati strabilianti nel periodo della Bassa, ma che ha caratterizzato tutto il lungo fare artistico di Congdon. Avventura sempre aperta a nuove scoperte, a nuovi tentativi, a cadute e riprese continue. Fino agli ultimi giorni di vita, dieci anni fa

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