martedì 9 febbraio 2010

MIO FIGLIO ALL'INFERNO

Percorrere il girone caraibico di Haiti per trovare il bambino adottato a distanza. E scoprire che non basta la solidarietà a portartelo vicino
www.tempi.it

di Luigi Amicone
“Sos, morts all’interieur”. “Usa navy, help us”.
Scritte su resti di case di Port-au-Prince
Sulle prime, dopo tre giorni passati viaggiando giorno e notte per cielo e per terra, coprendo distanze di almeno 16 mila chilometri, dentro la testa frullata dai fusi orari restano solo domande idiote. Perché sulla stessa isola, qualunque cosa butti nella parte ispanica feconda la terra, in quella francofona crescono solo rovine? Perché la Repubblica Dominicana è un purgatorio di musica a tutto volume e spiagge da favola, Haiti è il posto dove un angelo sterminatore sembra abbia segnato la porta di ogni casa con la croce delle catastrofi politiche e naturali, colpi di stato, cicloni, inondazioni e, da ultimo, buon ultimo, quindici anni di inutile governo Onu? E adesso questo terremoto.





Che ha fatto venire giù il mondo. E ha fatto mobilitare i popoli dal Qatar al Togo, dalla Sicilia all’Alaska, nella missione impossibile di spegnere il fuoco all’inferno. Chiuso dagli americani l’aereoporto haitiano e chiuso Santo Domingo ai voli che non siano quelli umanitari, giustamente buttati fuori da Haiti dalla macchina militare e logistica imperiale, non ci resta che sbarcare a Punta Cana. Che è un po’ come atterrare in un villaggio Valtur.
Con la banda che suona e balla il merengue, le pin up locali che fanno da pastorelle alla mandria di pallidi buoi, europei dalla pelle albina, scesi da un volo proveniente da Zurigo. Punta Cana, Veron, La Romana, San Pedro de Macoris, Santo Domingo, Barahona, Cabral, Lago Enriquello, Jmani. E sono solo i primi 591 chilometri di Caribe, al passo di taxi sgangherati e un pick up a pianale scoperto, coprendo i due punti più distanti in Repubblica Domenicana. Poi, superati gli sgangherati cancelli di una frontiera surreale, guadagnamo Malpasse, costeggiamo lo stagno Sumatra, attraversiamo valli antidiluviane e borghi da preistoria dove l’uomo vive come poteva viverci duemila o due milioni di anni fa.
Fino a Fonds-Verettes. Un posto così remoto tra le montagne di questo stravagante inferno dantesco caraibico, che nemmeno gli haitiani credono esista davvero. Non c’è segnaletica stradale e l’unica indicazione, in lingua creola, incisa su uno striscione che penzola appeso a due alberi di magnolia, avverte che in effetti “Fonds-Verettes ekziste, fok li viv”. Non ho capito la seconda parte della scritta, però nella prima si capisce a cosa alludano certe casupole aggrappate a una collina che spunta al di là delle gole e di vallate impervie. Miracolo: sul cucuzzolo che nemmeno la jeep riesce a raggiungere sorge una cattedrale cattolica spettacolare. Dentro ci sono centinaia di bambini e ragazzi, vestiti in divise scolastiche di un arancione rubato all’aurora caraibica. Tre preti haitiani concelebrano una messa in suffragio delle vittime del terremoto. Non mi sono portato dietro niente. Non un registratore, un pc portatile, una macchina fotografica, un telefono satellitare. Niente. Eppure altri hanno fotografato, compulsato carte topografiche e trovato il passaggio verso il bambino che siamo venuti a cercare in questo nugolo di polvere e zattere africane alla deriva nel mar dei Caraibi. Di questa compagnia è don Leonardo Grasso, venuto da Caracas per essere presenza tra i suoi amici di Santo Domingo e fuoco di contatti ad Haiti. E poi il contabile venezuelano Juan Carlos Cavalieri (autore delle foto di queste pagine), il cooperante spagnolo David Pizarro e il generoso Jordi Bach, l’uomo della Ong Cesal di stanza ad Haiti.

La paura e quella forza infinita
Jordi sarà decisivo per trovare quello che sto cercando, tra un pisolo in uno dei pochi appartamenti rimasti in piedi sulle colline di Pietonville (mentre non c’è un haitiano che sia rientrato in casa e non viva per strada) e il brivido di una scossa del quinto grado, acqua fresca si intende, eppure con il potere di farti correre a gambe levate e riguardare con un occhio diverso la sterminata folla dei 437 campi profughi che abbracciano Port-au-Prince. Jordi ci strappa a un capannello di trenta quaranta persone. «Potrebbe diventare pericoloso». Lo studente indigeno di ingegneria civile con cui avevo iniziato la conversazione capisce e ha un’espressione delusa dal nostro approccio difensivo. «Tranquillo, stiamo solo parlando». Il fatto è, come succede ovunque a Port-au-Prince quando c’è di mezzo un bianco che potrebbe essere un salvatore della patria o semplicemente uno che porta dollari addosso, che se attacchi la conversazione con uno, dopo cinque minuti te ne trovi intorno cento. Diciamo la verità: non ci sono pericoli tra gli haitiani. Girovagando tra i barri e i campi dei senza tetto abbiamo trovato sempre e soltanto occhi curiosi, pazienza infinita, bisogno di raccontare a qualcuno la propria storia. E ascolto. Ecco, colpisce che tanti ragazzi (sono quasi solo giovani gli haitiani) che hanno perso tutto ma che (per il momento) hanno risolto qualche problema di sopravvivenza (quello dell’acqua e di un posto dove dormire), pendano dalle tue labbra. Capisco però che il primo impatto con Port-au-Prince può mozzarti il fiato. So che ci sono scene che non dimenticherò. La donna vista in ginocchio, ai bordi della strada, con i polsi legati dietro la schiena, piegata a bere il rivolo di schiuma e i rifiuti che scorre sotto il marciapiede. O l’immagine dominante in ogni angolo della città, di famiglie che vivono ammassate tra le masserizie, sempre nello stesso punto, riconquistato ogni mattina prima che sorga l’alba, senza niente con cui lavarsi, niente da godere, niente per distrarsi.
Eppure ci dev’essere una forza infinita se queste donne riescono a vestirsi ancora con panni lindi e colori sgargianti dimenticati dai falsi scialli etnici che rivestono i nostri figli griffati. Ci dev’essere un mistero più grande di tutte le nostre disponibilità materiali e supposte ricchezze spirituali, se dall’ultima bolgia del Tartaro le donne tirano fuori il paradiso di sguardi che ti sanno vedere, attraversare, domandare; bambini vestiti per bene, con occhi ridenti, mai disperati, belli anche se attraversati dal velo delle lacrime e dal terrore di quello che potrebbe ancora accadere. Certo, i bambini che camminano senza una meta, il cimitero dentro e fuori la Cattedrale, le decine e decine di ragazzi del coro seppelliti mentre stavano provando il loro repertorio di canti, questa tomba dell’arcivescovo di Haiti, del suo vicario episcopale, dei suoi seminaristi, le rovine di Del Mas e della collina dirimpetto a Ruelle Dieubon (Diobuono), polverizzata con le sue case venute giù come castelli di carta, fanno ammutolire ogni cosa in cielo e in terra. Ma la disperazione, la violenza, la furia che potremmo avere noi, noi che al minimo disagio siamo stati abituati a protestare, a inveire contro Dio e a invocare la giustizia di un tribunale terreno, qui a Porta-au-Prince non si vedono nemmeno nelle bidonville più marcescenti. I nostri poveri schemi chiamano tutto ciò sottocultura, miseria, rassegnazione.

L’attivismo onusiano cambierà il mondo?
E invece quello che si vede all’inferno è la forza della natura originale dell’uomo. Niente a che vedere, si intende, con lo sguardo distratto, il sentimento mutevole, la sicumera scettica e bolsa dei cresciuti nel miglior mondo possibile dei Voltaire, nel paradiso dei diritti umani. Non mi sono portato dietro niente. E ho riscritto mentalmente cento volte questa storia. Niente da fare. Alla fine butti via tutto, riscrivi tutto da capo, capisci che la storia che ti sei venuto a cercare consiste nell’affetto che principalmente ti sostiene. Per questo non scandalizza chi in questi giorni continua a sbarcare dall’altra parte dell’isola per trovarsi una donna e via. Per questo sembra che non centri il bersaglio il diario della cooperante che ricusa le nostre certezze borghesi. A parte il fatto che senza le nostre certezze borghesi i cooperanti farebbero né più e né meno la fame dei loro assistiti, c’è da domandarsi cosa succederebbe e cosa cambierebbe il mondo. Gli apostoli della solidarietà internazionale? Raramente si impara quel che si crede di sapere. Dunque, eccoci nel caotico festival dell’attivismo onusiano che esigerebbe ben altro. Per esempio il tanto vituperato approccio americano. Elementare, rozzo quanto volete. Gli americani ad Haiti sono una macchina che schiaccia tutte le altre quanto volete. Ma intanto le loro centurie stanno aprendo un varco in Babilonia, stanno prendendo posizione e mettendo in sicurezza le strade. E questo succede a quasi due settimane dal sisma, dopo settimane di anarchia e di spontaneismo, competente e solidale, certo, ma che non è riuscito sbrigare altro che i primi soccorsi.
Quante false storie di gang in machete e fiumi di armi e droga. Siamo stati nei campi tra Citè Soleil e Citè Militare, i famosi suburbi della criminalità organizzata. La verità è che su Haiti adesso piovono troppi soldi e troppe richieste di bambini per non scatenare la fame assassina e il contrabbando di carne umana. La verità è che in certe zone di Port-au-Prince l’Unicef ha distribuito le tende dimenticandosi di distribuire i pali che le sorreggono. La verità è che l’Onu passeggia con i suoi bianchi blindati e non sa nemmeno da che parte cominciare nel coordinare gli aiuti. La verità è che dopo la straordinaria ondata di volontari, medici, giornalisti, cooperanti, benefattori venuti da ogni dove, se Obama non ci metteva la sua massa critica di marines, nemmeno il signor Bertolaso avrebbe potuto sfilare in diretta Rai con la sua scintillante divisa di protettore civile e angelo della ricostruzione. La verità è che Haiti dovrebbe buttare definitivamente a mare la sua classe dirigente e chiedere l’annessione agli Stati Uniti d’America.

Ti ho trovato, Pierre
Insomma, fatto sta che ti ho trovato mio caro Pierre Frandgin, otto anni, orfanello di Marie Polinice, 27 anni, contadina. Eri solo una foto di bambino negro e triste appesa a una porta di frigorifero blu. La foto di un bambino a cui, per tramite di un’organizzazione umanitaria, una delle tantissime famiglie italiane che praticano l’adozione a distanza devolveva da sei anni, da quel 24 maggio 2004 in cui il ciclone si era portato via la madre e, a dirla tutta, quasi tutte le madri contadine di Fonds-Verettes, una modesta somma annuale. Fatto sta che eri solo una fotografia penzolante tra i memo della spesa e gli scarabocchi di un fratellino dalla pelle bianca. Adesso sei di fronte a noi, con il tuo papà Pierre Dunol e la tua sorellina Piernadeishe. Ognuno ha ciò che desidera. Io ho desiderato trovarti e scrivere questa storia in mezzo a milioni di storie di uomini, donne e bambini travolti dall’apocalisse. E ti ho trovato. Ti ho trovato con lo stesso sguardo e nemmeno l’ombra di un sorriso, come sul frigorifero blu. Chissà qual è il tuo mistero, Pierre Frandgin, e come si dispiegherà di qui all’eternità. La tua sorellina abbozza un sorriso. Tu, invece, resti serio e senza parole. Forse perché vivi sperduto in capo al mondo, solo con tua sorellina e tuo papà, agricoltore e pastore che ogni mattino sale sull’alta montagna e fa ritorno a sera, in questa casupola di due metri per tre che sorge solitaria in mezzo al campo. Dove non c’è strada, non c’è acqua corrente, elettricità e, pensa, nemmeno la televisione. Più a valle belle ragazze si lavano nude e nascondono i loro turgidi seni all’esploratore venuto dal vecchio mondo.
Più a valle ragazzi, donne e bambini carichi di sacchi di terra rubata alla montagna e portata a valle, bagnata con innaffiatoi di fortuna, rovesciata sulle pietre e spianata per essere piantumata con sementi che verranno portate via dalle prime piogge, si caricano il giogo di una vita dura. Oppure si rovesciano sui camion e attraversano la frontiera per andare a vendere le loro braccia nei campi della Repubblica Dominicana. Cammina l’uomo quando sa bene dove andare. Sapevo dove andare e ora anche tuo padre che non legge e non scrive lo sa. O forse lo sapeva già prima di me, benché i suoi trentun anni siano passati in una parte del mondo che nemmeno la nostra più bella immaginazione della luna renderebbe confortevole il pensiero della luna. Per questo tuo padre mi abbraccia e mi dice salutandomi: «Fratello, pregherò per te».
La vera maledizione di un paese ostaggio di superstizione e voudou
di Rodolfo Casadei
All’indomani del terremoto l’anziano telepredicatore evangelico americano Pat Robertson ne ha sconvolto più di uno dichiarando che Haiti è vittima da sempre di catastrofi politiche e/o naturali perché gli antenati degli haitiani, gli schiavi africani che due secoli fa si liberarono del giogo francese con una sanguinosa rivolta, avrebbero stretto un patto col diavolo per conquistare l’indipendenza dell’isola. Le sue affermazioni hanno suscitato, giustamente, irrisione e indignazione. Le persone religiose hanno fatto osservare che dall’elenco delle vittime di disgrazie improvvise è impossibile desumere un paradigma di punizioni/retribuzioni divine o diaboliche: quattro anni fa l’uragano Katrina ha distrutto molte più chiese evangeliche che casinò, e molti orrendi dittatori vivono lunghe vite, mentre molti adorabili missionari cristiani muoiono giovani. Terzomondisti, anticapitalisti e fustigatori dell’Occidente hanno esaltato le cause politiche del sottosviluppo di Haiti: lo sfruttamento al tempo della colonia francese, lo svuotamento del tesoro pubblico per pagare a Parigi l’indennizzo delle proprietà sottratte agli schiavisti dal nuovo stato, il sostegno politico di Washington a Duvalier padre e figlio, i due dittatori che hanno sprofondato le fortune dell’isola fra il 1957 e il 1986. Tutto vero, ma anche tutto un po’ troppo economicistico e politicistico. Nell’unico paese delle Americhe abitato per il 100 per cento da popolazione di colore non sarebbe male dare un’occhiata anche ai fattori culturali. E fra questi al più importante, cioè la religione tradizionale, che spesso si sovrappone all’ufficiale pratica religiosa cattolica: il voudou. Non è questione di spilloni nelle bamboline per colpire inconsapevoli nemici o di zombie manovrati da società segrete (anche se l’isteria attorno alle storie di morti viventi è talmente radicata che l’articolo 246 del codice penale haitiano punisce «l’uso di sostanze che non uccidono una persona ma la riducono a uno stato letargico più o meno prolungato... se in seguito allo stato di letargia la persona viene sepolta, il fatto sarà considerato un omicidio»). La questione è quanto le radici voudou abbiano contribuito e contribuiscano all’attuale miseria di Haiti, il più povero e violento dei paesi dell’emisfero occidentale, dove il 72 per cento della popolazione vive sotto la linea della povertà e l’85 per cento dei capi di Stato che si sono succeduti dal 1804 ad oggi sono stati assassinati o costretti alla fuga mentre erano in carica.
Tanto per cominciare, il voudou è stato il catalizzatore dell’insurrezione degli schiavi contro i loro padroni: le centinaia di ribelli che nella notte fra il 21 e il 22 agosto 1791 nel nord di Haiti massacrarono i padroni bianchi (uomini, donne e bambini) delle piantagioni in cui lavoravano e bruciarono le loro case erano reduci da una cerimonia voudou nel corso della quale avevano bevuto il sangue di un maiale nero per diventare invulnerabili. Quello fu il primo atto della rivolta, che poi proseguì sotto la guida di personalità più “moderne” come Toussaint L’Ouverture e Jean-Jacques Dessalines. Appartenenti a tribù diverse ma tutti provenienti dal Golfo di Guinea, gli schiavi trovarono nella pratica del voudou, a quel tempo diffuso lungo tutta la costa africana coperta da foreste di mangrovie, un decisivo fattore di coesione. Furono i tamburi delle cerimonie voudou a trasmettere le comunicazioni fra i vari gruppi di insorti anche al momento delle battaglia decisive del 1802-03. Tuttavia già niente meno che Hegel eccepiva che il voudou «con le sue relazioni di potere intransitive fra le divinità è incline a produrre anche intransitività politica». ll filosofo si riferiva alla dottrina teologica centrale del voudou per spiegare la forma tirannica di potere inaugurata da Dessalines e poi rimasta tale fin quasi ai giorni nostri.

Un cronico sottosviluppo
Nel voudou il mondo è stato creato da Dio (Bondye nel creolo di Haiti), ma costui si è ritirato dagli affari terreni, che competono a divinità minori: i loas, divisi in 21 “nazioni” e “famiglie” spesso in contrasto fra loro. Gli esseri umani si attirano i favori di queste divinità attraverso i riti e gli incantesimi, che servono tanto a catalizzare energie positive (quando gli spiriti si impossessano del credente) quanto a respingere quelle negative (degli spiriti che provocano malattie). Questa visione magica del mondo implica anche la credenza nella pratica della magia nera, cioè nell’esistenza di “stregoni” capaci di causare malattia e morte attraverso la negromanzia. Quanto una visione del mondo come questa sia controproducente per lo sviluppo umano non ha bisogno di molte spiegazioni: la superstizione, il fatalismo, la paura e il sospetto in tutti i rapporti sociali sono la logica conseguenza della fede nel mondo degli spiriti. A ciò si aggiunga che il voudou è per sua natura particolarista e anti-gerarchico: dei benefici dei riti possono appropriarsi solo i parenti di sangue di colui che viene posseduto dalla divinità. Bode nasyonal, un’organizzazione di sacerdoti voudou, sostiene che i primi haitiani «iniziarono la loro vita collettiva a immagine dei loas, i primi fondatori di città e stati, disdegnando di stabilire un potere definito. In questo nostro Stato che è il più vecchio del mondo svilupparono un’organizzazione politica senza potere centrale». Bode Nasyonal raccoglie seguaci del voudou associati alle fortune della famiglia Duvalier, i primi governanti di Haiti a dichiararsi apertamente fedeli della religione africana. Fino ad allora le élites, mulatte, avevano combattuto il voudou come fattore di sottosviluppo ma senza poterlo sradicare per una semplice ragione: esse stesse hanno gestito o hanno lasciato che lo stato fosse gestito in modo patrimonialistico da chi deteneva il potere. I loro successori populisti di sinistra, capeggiati da Jean-Bertrand Aristide, non hanno saputo fare altro che attizzare l’odio di classe, nuova versione del dualismo fra élites modernizzanti e popolo immerso nel voudou. La vera maledizione di Haiti è questa.

 

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