venerdì 26 febbraio 2010

SCUOLA DI COMINITA' DI DON CARRON 24 FEBBRAIO

..... «“Osservate” è solo il secondo livello; il primo è
quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il
suo essere, il suo amare, precede il nostro agire […]. L’etica è conseguenza dell’essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo
obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere. Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere,attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita […], ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui [e quanto continua a fare] […]: la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come ho detto, il nuovo agire». Bello! Questa è la questione: se noi seguiamo, cioè rimaniamo con tutto
noi stessi, a un certo momento si comunica questo nuovo essere, che emerge non perché quel giorno io faccio il proposito, ma perché Lui rende possibile agli altri di riconoscerlo in noi.......

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 24 febbraio 2010
Testi di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 321-337 e J.
Carrón, «Carità, dono di sé commosso», Tracce, n. 2, febbraio 2010.
• Canto “Favola”
• Canto “Negra Sombra”

Davanti ad alcune delle lettere e delle domande che mi avete mandato mi sono ricordato di quel pezzo della Scuola di comunità sull’amicizia («Il vero seguire è amicizia»), dove il don Gius ci diceva: «Ed io, che sono chi ti sta davanti, te lo dico, ma capisco di dirtelo male e perciò ti dico: “Vieni ancora domani, eh!”. Perché domani cercherò di dirtelo meglio, e dopodomani cercherò di dirtelo meglio, e poi, insomma, tutti i giorni dobbiamo dircelo, perché così ce lo diciamo meglio, e
dopo tanti anni e tanti giorni, diventa come una cosa fluente, come guardarsi negli occhi: ci si guarda negli occhi e ci si capisce». Mi veniva in mente questo, perché la prima domanda da cuivolevo cominciare ne riprende una della volta scorsa, con la risposta che io avevo dato.

«Ti scrivo in merito alla prima domanda che è stata fatta all’ultima Scuola di comunità. Io forse ho inteso male il significato di “concreto”, comunque credo che la ragazza, con questa parola, intendesse “reale”, quindi che ci sono certi amori che le danno l’impressione di essere più reali dell’amore di Gesù. Io credo che in questa domanda ci sia una divisione già all’inizio, dato che l’amore di Gesù passa
realmente attraverso persone reali; a me però la tua risposta non ha convinto fino in fondo quando dici: “Come mai poi lo si confonde con altri amori? Lo si può confondere con altri amori soltanto per una cosa, perché si è dimenticato di che è mancanza questa mancanza; se noi riduciamo la nostra mancanza, se noi non prendiamo consapevolezza fino in fondo di essa, allora ci sembra che qualsiasi cosa ci corrisponda”. Io credo che potenzialmente ogni cosa ci corrisponda proprio perché
la realtà, invece, è Cristo; di conseguenza non è un problema essere attratti dalle persone, dalle cose, da altri amori; piuttosto penso che la sfida interessante consista nel riconoscere in questi la presenza del Mistero; guardare a questi amori come segno della Sua presenza che si degna di passare dove e quando vuole. Che commozione pensare che si degna di passare anche attraverso di me. Altrimenti
tutto rischia di rimanere diviso, e l’amore di Gesù rischia di essere vissuto come una frustrante mancanza: “Ah, non posso avere quella cosa lì, però tanto c’è Gesù!”. Il lavoro che sto portando avanti da un po’ di tempo è mendicare la Sua presenza e la grazia della semplicità di poterLo riconoscere, ma attraverso la forza del reale, attraverso anche le cose, le persone da cui in generale non mi aspetto nulla; sennò come potrò mai riconoscere che Lui, il Suo amore, è ancora di più di tutto questo? Però magari mi sbaglio, questa è stata la mia impressione, magari non ho capito bene
quello di cui hai parlato, tu che ne dici?».

Io rispondo con altre lettere che mi sono arrivate. Don Giussani all’inizio della spiegazione dellacarità in Si può (veramente?!) vivere così? dice che la prima carità è andare fino in fondo di questa mancanza, di questa insoddisfazione che ci costituisce, perché questa è la prima carità con noi stessi, potere capire il mistero del nostro essere, poter riconoscere quello che non mi basta – lo
ripete venti volte in quel testo –; e questo lo si vede quando poi possono succedere – si diceva nel primo intervento della volta scorsa – altri amori; non capendo veramente quello che ha incontrato, uno è come travolto da un altro amore. Mi scrive uno: «Premetto che ho incontrato il movimento nel settembre del 1985. Nel 1993 mi sono laureato, poi ho conosciuto mia moglie e ho vissuto
questi quindici anni travolto dalla carriera, totalmente dedito alla famiglia, niente più partecipazione alla vita del movimento, niente più messa, niente più gesti di alcun tipo». Come è possibile? È possibile. Appare un altro amore e uno è travolto da questo; lui dice che ha vissuto tutti i quindici anni soltanto pensando a lei, tanto era bello vivere quel rapporto... A un certo punto sua moglie
muore in pochissimo tempo: «Ha dovuto morire lei per spalancarmi il cuore e la mente a delle verità così semplici ma vere che io avevo incontrato, per farmi cogliere una serie di evidenze che non potranno mai più farmi vivere come ho vissuto fino a ora; è incredibile il metodo del Mistero che, sottraendomi la carne del rapporto sacramentale, ha aumentato la mia consapevolezza. Il giorno in cui è morta mi sono reso tragicamente conto che il dirci reciprocamente che il nostro stare
insieme non sarebbe dovuto essere un guardarsi l’un l’altro (come se fossimo noi la ragione del nostro agire), ma l’accompagnarsi verso un destino personale, era stato un discorso; quel giorno mi sono reso conto che mia moglie era la ragione per la quale vivevo. Poi, a un certo punto, sorgeva davanti alla morte l’esigenza di una ragione che permettesse di andare avanti, tanto è vero che era inesorabile che lei non poteva essere la ragione della mia vita». Fin quando lui si rende conto, si
arrende a questo fatto, e il giorno del funerale davanti alla bara di sua moglie, davanti alle parole dell’omelia del prete, accetta questo, «e in quell’istante mi è scesa una serenità del cuore fino a farmi essere lieto». Può capitare, non dobbiamo spaventarci di questo, anche se uno Lo ha incontrato può capitare, può succedere che altri amori prendano il sopravvento, ma perché prendono il sopravvento? Perché pensiamo che essi ci possano riempire, e questo può capitare, come vedete,
nella vita di sposati o può capitare a uno che ha la vocazione (come mi scriveva una del Gruppo Adulto, sconvolta per uno che se ne era andato; e poi un giorno trova un’amica, anche lei prima del Gruppo Adulto, che si era sposata e aveva la sua famiglia, che le chiede di andare insieme alla Scuola di comunità perché il marito e il bambino non le bastano: «Una sera dopo la Scuola di comunità è scoppiata a piangere per la nostalgia che prova verso la vocazione che Gesù le ha
dato»). Può prendere il sopravvento per un altro amore, altroché. Allora, è vero – come dice l’amica della prima lettera – che potenzialmente ogni cosa ci corrisponde perché la realtà è Cristo; la questione è che noi, proprio per questa esigenza che abbiamo dentro, per questa mancanza, per questo inizio di provocazione che la realtà suscita in noi, attraverso questa forza del reale siamo lanciati verso qualcosa d’altro, ed è soltanto se abbiamo questa consapevolezza che non ci fermiamo al segno. Mi viene in mente quello che abbiamo detto alla Giornata d’inizio anno –
occorre che andiate a riprenderlo –, quando Giussani, parlando della compagnia cristiana, diceva: «“Ma come mai son così questi qui?”. [...] Dunque, tu incominci questa strada trovando un compagno, una compagna, oppure vedendo un gruppetto, che ha qualcosa di interessante e gli vai dietro. E senti questi qui che dicono che quello che d’interessante hanno è perché “C’è il Signore”;
e gli vai dietro un po’ incuriosita, ma senza essere definita da quella cosa lì, senza essere determinata da quella cosa lì. A un certo punto, però, questo richiamo ingrossa, [...] sei colpita di più da quell’idea, da quella parola; e sei più colpita dal fatto che la gente ti dice: “Guarda che noi siamo insieme per quello lì [il Signore]”. Questo è un salto qualitativo rispetto all’impressione
iniziale; allora tu incominci a prendere sul serio quello lì: [...] più tu segui con continuità questa evoluzione, tanto più Gesù diventa più importante delle facce messe insieme [questo è il nocciolo della questione: che Gesù – Gesù! – diventa più importante delle facce messe insieme]. Anzi, diventa così importante che capisci che senza di quello [Gesù] le facce scomparirebbero e tu ti “stufiresti”».
Senza mancanza io mi fermo alle facce; ma se manca Lui, le facce scomparirebbero, come succede tante volte nei rapporti, nella vita di matrimonio della coppia: colei che più ti ha commosso, a un certo momento, non ti dice più niente. Come mai? Perché senza di “quello” noi non siamo in grado di tenere desto, di tenere fresco, giovane, come all’inizio; senza Gesù, senza che Lui si comunichi alla radice di questo rapporto, «le facce scomparirebbero e tu ti “stufiresti”», non ti basta, ti stufi, te ne vai. È chiaro?
Stavo entrando in classe il giorno dopo il terremoto a Haiti, e nel corridoio mi ha sorpreso questa domanda (dico mi ha sorpreso perché non stavo assolutamente pensando a quello che era capitato la sera prima): «Cosa c’entra questo fatto così grande con l’istante a cui io sto andando incontro?». E siccome mi ha sorpreso e mi ha anche colto abbastanza impreparata, ho deciso che la lezione sarebbe partita da lì; allora ho chiesto ai miei ragazzi: «Ma vi siete accorti di che cosa è successo?», e sono sorte un po’ di affermazioni molto diverse tra di loro: «No, sono lontani»,
oppure: «Si tratta di una tragedia perché erano già disgraziati, adesso sono più disgraziati di prima». Poi un ragazzo dice: «Prof, a me interessa sapere come è stato per lei», e io, ancora impreparata, ho raccontato quello che, guardando le immagini e guardando il volto di mio marito che mi aveva detto cos’era capitato, mi è successo: «A me hanno colpito: primo, il limite delle cose; secondo, mi rendo conto che queste mi richiamano a un rapporto sempre più grande». Poi la settimana dopo me l’hanno richiesto e un ragazzino, rispetto a questa seconda cosa che avevo
detto, mi dice: «Prof, a me colpisce questo, che lei racconta del terremoto di Haiti in questi termini,ma in realtà è ciò che io vedo quando lei lavora». A me ha colpito tanto, per la lealtà di un ragazzo di undici anni (perché lui è stato leale con l’esperienza che stava facendo in quel momento, con l’esperienza totale che stava vivendo in quel momento e questa era la ragione che gli faceva dire con così grande sicurezza questa cosa); inoltre mi ha colpito perché io ero in un periodo che avevo
l’amaro in bocca, stavo facendo un lavoro con loro e non riusciva, l’esito era sempre negativo ed ero arrivata al punto di dire: «Va bene, lo abbandono, fa niente, vuol dire che io non dovevo andare lì», molto cinicamente. E invece questa sua affermazione mi ha fatto dire: «Vedi che la tua incapacità, la tua incoerenza, non è sufficiente a cancellare che Lui ti ha preso in un rapporto visibile». Quel fatto lì ha come spostato il problema da me, quindi dalla mia incapacità, al fatto che
un Altro mi aveva preso.
Che cosa c’entra questo con la carità?
Perché la cosa che mi sollecita è l’iniziativa di Lui su di me, tant’è che questa cosa non mi ha potuto far mettere via cinicamente e senza dramma il rapporto con Lui, ma l’ha come acuito, ha come riapprofondito: «Guarda che in realtà sono Io che ho preso te, non sei prima tu che devi amare Me». Sono io che sono stata presa.

Guardate che questo è fondamentale per quella transizione tra la prima parte della carità e la seconda perché: quel che stupisce del ragazzo è che scopre in lei quella novità che porta, che è più grande di tutte le nostre incoerenze. E questo è importante da capire: da dove nasce questo nuovo essere che si rende presente in come opero? Non perché io faccio il proposito. Da questo punto di vista, il Papa ha detto delle cose bellissime in un dialogo che ha avuto con i seminaristi di Roma il
12 febbraio: «“Rimanete [nel mio amore]” e “Osservateimieicomandamenti”. “Osservate” è soloil secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico», che è quella convivenza di cui parlavamo all’inizio la volta scorsa: come per osmosi, stando a mollo all’interno di un luogo come il nostro, se noi ci immedesimiamo sempre di più con questo cammino, pian piano diventa
nostro e questo “rimanere” (che non è un rimanere meccanico scaldando la sedia, perché allora non si comunica niente: siamo degli uomini, non siamo dei meccanismi!); immedesimandoci con quello che il don Gius ci testimonia, ci genera (perché questa è la generazione che, a cinque anni dalla morte, continua a donarci). Continua il Papa: «“Osservate” è solo il secondo livello; il primo è
quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo
se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande
frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta
dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il
suo essere, il suo amare, precede il nostro agire […]. L’etica è conseguenza dell’essere: prima il
Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere
poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella
nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo
obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova
identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del
nuovo essere. Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto
dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere,
attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il
dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita […], ma anche qui la
vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui [e quanto continua a
fare] […]: la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come
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ho detto, il nuovo agire». Bello! Questa è la questione: se noi seguiamo, cioè rimaniamo con tutto
noi stessi, a un certo momento si comunica questo nuovo essere, che emerge non perché quel giorno
io faccio il proposito, ma perché Lui rende possibile agli altri di riconoscerlo in noi.
Io l’altra volta sono andato a casa avendo spostato il punto di partenza su quello che dice la
Scuola di comunità: la scoperta di quella Presenza che il cuore riconosce. Queste due settimane
per me sono state dominate da questa cosa e dalla frase di Geremia che don Giussani riporta: «Ti
ho amato di un amore eterno, perciò ti ho attratto a me, avendo pietà del tuo niente», e mi ha
colpito come don Giussani in quel punto lì ci racconta come se fosse sua tutta la commozione di
Dio verso l’uomo e io questa cosa qua, questa commozione la capisco; mi sono capitati dei
momenti precisi nella vita (giorno, ora, posto, fatti), per cui è stato evidente per me entrare nella
realtà con questa commozione, perché il cuore sobbalza perché sei lieto, sei libero, perché è
diverso. Tutto questo io non lo metto in discussione minimamente, però è come se poi dicessi:
«Tutta questa commozione che vedo a me capita a intermittenza»; allora volevo un aiuto su questo,
perché non posso mettere in discussione quello che mi è capitato, è un fatto, è un’evidenza, nessuno
me lo può contestare, però…
Bello! La prima questione è che a volte, come vediamo, davanti a questa intermittenza è come se
prevalesse quello che manca (che è ancora intermittente), non il fatto che già c’è, non il fatto che tu
sai in certi momenti con un’evidenza che non ti puoi togliere di dosso (neanche l’intermittenza può)
che c’è. La questione è che in noi, per quello che ancora manca, quasi prevale come sentimento di
noi stessi quello che manca invece di quello che c’è, e così un istante dopo, anche se stiamo facendo
la strada, siamo bloccati. Per questo facevo altre volte questo esempio: immaginate che uno abbia
avuto un incidente, è tutto paralizzato, non reagisce; se un giorno incomincia a muovere una gamba,
siamo tutti gasati; e se uno ci dice: «Ma muove soltanto una gamba...», rispondiamo: «Sei matto?
Tu non capisci un cavolo, prima non reagiva a nulla, ora muove una gamba!». Che cosa prevale?
Quello che manca ancora o quello che comincia a muoversi? Questo inghippo è frequentissimo tra
di noi, perché è come se prevalesse quello che manca, ma chi è più realista? Chi incomincia a
riconoscere questo con la speranza che possa poi allargarsi a tutto il resto, o chi per un’ottusità
minimizza? Come dicevamo l’anno scorso rispetto al germoglio: uno vede tutto il tronco secco e
dice: «Soltanto un germoglio!»… Ma se c’è, da lì può risuscitare tutto! Seconda questione: tu parli
di momenti che sono evidenti, e questo è fondamentale perché è come un punto di non ritorno:
momenti che segnano la vita, che prendono una forma tale, che ci plasmano in un modo così
potente che sono un punto di non ritorno. Ma capisco il tuo desiderio che questo diventi sempre più
abituale, normale, ma quello su cui voglio insistere è che questa intermittenza non vuol dire lasciar
perdere tutto il positivo che è venuto fuori nel fatto di aver riconosciuto, in quei momenti,
un’evidenza di questa Presenza che mi riempie di commozione. «Ti ho amato di un amore eterno»:
è come se ogni volta che vengo fuori da questa intermittenza, quando il Signore per grazia mi
prende per i capelli, mi tira via dalla distrazione, me lo fa riconoscere ancora; ed è una festa: «Meno
male che c’è ancora e che mi riprende». E questo è quello che deve pian piano – perché succede
pian piano – diventare abituale. Don Giussani ha parlato molto bene di questo in un testo che ho
usato per il ritiro del Gruppo Adulto questo fine settimana; a don Giussani fanno questa domanda:
ma che cosa vuol dire la coscienza di una Presenza in tutti gli istanti della vita (cioè senza questa
intermittenza)? E don Giussani risponde che è impossibile che avvenga in ogni azione, ma che non
è neanche necessario. Ciò che è importante non è il numero di volte, bensì è il valore tendenziale:
c’è un’amorosità che pian piano accade in noi e questa ripetizione, anche intermittente, tende a
diventare abituale: «È come se la memoria, lentamente, diventasse come un profumo, una
freschezza che si comunica alla base del tuo essere [diventa tuo, come dicevamo prima, diventa
tuo], che si comunica ad ogni iniziativa che tu prendi per agire […] e diventa stabile e ti rende più
facile moltiplicare il ricordo». Questo livello si vive esistenzialmente, è esattamente quel
“rimanere” che dice il Papa. Questa è la grazia del carisma: che quella verità che il Papa ci ha detto
in modo così bello, il don Gius ce la rende possibile come esperienza, introducendoci a un metodo
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che ci fa fare i passi secondo una strada così umana che (senza diventare isterici per la misura, per il
numero) diventa sempre più abituale. Dice: «Improvvisamente la vecchiezza diventa più giovanile
della gioventù. Perché giungi ad un certo punto in cui ti trovi ad aver fatto diventare facile la non
distrazione, ovvia la memoria, familiare il senso d’appoggio a Cristo presente […] È esattamente la
traiettoria che uno che si innamorasse – veramente però, e questo è difficile! – avendo lì la donna,
vive con quella donna: prima la memoria è a pezzetti (la memoria è un notes con tanti punti, e il
meglio è nei punti che son vuoti); col tempo, quanto più uno è abituato a scrivere sugli appunti della
memoria, tanto più quella memoria diventa permanente. E dapprima diventa permanente come
bisogno – se lei va via… Oddio, che stringimento! –; dopo, vada o stia, sarà più doloroso o più
gioioso, ma è lo stesso [perché è diventata dimensione dell’io, non può dire io senza che ci sia lei
nell’essere, nel fondo dell’essere come coscienza]. Nell’essere esistenza siamo una cosa, una. Così
come se uno, venendo lì di soppiatto, improvvisamente ti dicesse: “A cosa pensi?”, “Ah, sto
pensando al lavoro”; un’altra volta, vedendoti lì un po’ assorto, ti dice: “Cosa pensi?”, stai pensando
a lei. Sostituire questo “lei” con “Lui”, prima di tutto investe tutti i “lei” – tutti –, li investe secondo
la gerarchia che il tuo cuore esige, secondo la predestinazione di vicinanza, di prossimità che Iddio
ha stabilito, con una ricchezza di varietà quindi, con una verità di rispetto delle proporzioni delle
cose. […] E quanto più tu moltiplichi l’abitudine di questi gesti, tanto più essi diventano
permanenti, come un substrato permanente, come la freschezza permanente di tutte le tue azioni.
Finché diventa proprio il contenuto preciso, obiettivo, del tuo pensiero e del tuo cuore, e non
vorresti mai andar via di lì. [È così che diventa nostro, che si comunica alla radice del nostro essere]
[…] Allora è un altro mondo sconosciuto a chiunque». La realtà è più grande della nostra filosofia e
così, pian piano, quella intermittenza è riempita e diventa più stabile non per il numero, ma per il
“valore tendenziale”, per questa amorosità che si esprime così.
Io parto dalla provocazione dell’altra volta, quando dicevi che la carità fa pensare
automaticamente a fare la carità agli altri. Di primo acchito, ho detto: «C’ha azzeccato, è giusto,
sono così»; in realtà, con dentro questa provocazione, guardando quello che succede non è così; ti
faccio un esempio: mi capita per una situazione familiare di assistere una persona e quando faccio
quel gesto io sono riempita di una tenerezza così profonda, che percepisco al fondo di me che sono
io l’oggetto di un gesto di carità e questo è proprio quel prima che accade.
Grazie.
Ti racconto una storia brutta, antipatica e poco originale, così faccio un po’ di autocritica. Vengo
da dieci-dodici mesi di corsa perché ho fatto tre documentari contemporaneamente, perché sono
arrivate tre richieste e ci sono stati dei bei risultati (mi hanno pagato tutto, i committenti sono
supersoddisfatti, gli estranei sono molto colpiti). La parte brutta è questa, che io ho conquistato il
mondo, però ho perso me stesso; perché? Perché ho considerato ogni momento di memoria come
una perdita di tempo. In ogni singola giornata di questi dieci-dodici mesi c’era sempre qualcosa di
più importante e io dicevo: «Cavolo, i cinque minuti che dice Carrón!», però c’era sempre
qualcosa di più importante da fare.
Vedi come vincono altri amori? C’è sempre qualcosa di più importante, è un giudizio.
Io vedevo proprio l’umiliazione di me, nel senso che sentivo il cuore ingrugnito, le cose che mi
facevano piangere prima non mi facevano più piangere.
Questa è la questione, amici, che possiamo aver fatto un’esperienza così, e a un certo momento,
dice il don Gius, certe cose che ci hanno veramente commosso fino al midollo, se ci lasciamo
andare, non ci dicono più niente.
Mi piacerebbe esser qua a dirti che ho vinto l’Oscar... Poi mi è successo che io (ogni tanto, per i
pensieri non dormo una notte e lavoro) mi sono immaginato di incontrare Maria Maddalena: «Ma
scusa, Lui è risorto, e ti ha detto: “Non Mi toccare”, mentre lo stavi per abbracciare. Perché gli
hai obbedito? Ce L’avevi davanti!». E dopo ho capito che io mi sarei stretto a Lui proprio perché
non ce L’ho davanti, mentre lei non ne aveva bisogno.
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Perché c’è un modo di possedere più intenso che l’abbraccio; non è che non c’è l’abbraccio, non è
che non sia veramente un rapporto, ma che c’è una intensità, quel mondo sconosciuto è una
intensità più grande di quello che noi abbiamo in testa: si chiama “verginità”.
Io ho una grande paura, perché sento che se le cose vanno bene, io sono finito.
No! Tu sarai finito non perché le cose andranno bene, ma se ti dimenticherai di chi sei. Guardate
ancora l’inizio della Scuola di comunità: se tu dimentichi di che mancanza è quella mancanza, se tu
dimentichi chi sei, tu vai dietro come giudizio a una cosa che per sua natura non ti può riempire, e
per questo tu senti che ti perdi. In questi momenti si capisce che razza di carità occorre per essere
così veri con se stessi, per riconoscere questa mancanza: è quel che ti rende sempre più consapevole
che quella memoria è ciò che ti fa respirare, perché altrimenti tu ti perdi. Una volta mi han fatto la
domanda: «Come riesco io a far memoria in mezzo a questa situazione?» (era analoga a quella che
hai testimoniato tu adesso). Ho risposto: «E come riesci a vivere in questo caos senza fare
memoria? Soltanto perdendoti».
Cioè: noi barattiamo la nostra primogenitura, che abbiamo avuto, per un piatto di lenticchie…
E perché facciamo questo? Per un problema di giudizio, perché non capiamo che le lenticchie,
anche se fossero lenticchie “alla Oscar”, non basterebbero. Più siamo consapevoli di questo, più non
andiamo dietro ad altri amori; e allora uno capisce che la vera carità è quello che corrisponde a
questa attesa del cuore, perché senza questo, anche con tutto il successo dell’universo, io vado in
crisi. Questa è la questione, che uno incominci a rendersi conto di questo, che cominci a
domandarlo: non è un problema di minutaggio, ma è il valore tendenziale!
Per finire vi leggo un testo per documentare che cos’è questo “dono di sé, commosso” che è la
carità; è un testo che mi ha fatto avere una nostra amica sulla pianista russa Maria Judina, quella che
aveva commosso perfino Stalin; racconta questo: «Proprio nel mio gruppo c’era un rompiscatole, un
ragazzino di otto-nove anni, praticamente senza famiglia, che viveva presso parenti che non amava
e da cui non era amato, di nome Akinfa; era indisponente, stuzzicava tutti, prendeva in giro i
bambini ebrei, si azzuffava e così via. Noi tutti, e soprattutto io che ne avevo la responsabilità, lo
esortavamo con la parola e con l’esempio, ma una volta Akinfa passò tutti i limiti: picchiò uno dei
compagni, prese a male parole gli adulti, commise un furtarello e così fu decretata la sua espulsione.
Quando venne il momento di eseguire la condanna, il momento del distacco io, non so come,
scoppiai a piangere, e a questo punto avvenne la seconda nascita di Akinfa: scoppiò a piangere
anche lui, chiese perdono a tutti, rese la refurtiva e da quel momento mi seguiva sempre ovunque
nel campo come un fedele cagnolino, spiegava a tutti che in vita sua non aveva mai visto che una
maestra piangesse per un suo alunno, che piangesse, per dirlo con le sue parole, “sull’anima e sulla
vita di un monello”; proprio questo era il senso del suo stupore e del desiderio di rimettersi sulla
strada». Questo è quello che fa Cristo: questo dono di Sé fino alla commozione per il nostro destino.
Questa è la carità che si può anche vedere nella commozione di una maestra davanti a un bambino.
Mi colpisce perché questa è la commozione di Dio, del Mistero per ciascuno di noi, qualsiasi cosa
sia successa.
La prossima volta continuiamo con Si può vivere così? alle pagine 337-342.
Voglio dire due parole su questo momento delle elezioni regionali italiane. Abbiamo una percezione
della fede, così come ce l’ha trasmessa don Giussani, per cui l’avvenimento che ci è capitato
riguarda tutto, ha a che vedere con tutto, con tutti i fattori del reale, perfino con la politica. Per
questo le elezioni sono una verifica: se noi non percepiamo questo, allora incomincia a staccarsi un
pezzo del reale, e via via se ne staccheranno altri: domani sarà la moglie e dopodomani sarà il
lavoro. Perché? Perché la realtà è una. Per questo aiutarci a capire che per noi le elezioni hanno a
che vedere con tutto il cammino che stiamo facendo, hanno a che vedere con la fede, hanno a che
vedere con questa modalità di vivere il nostro rapporto con la politica, è fondamentale. Ci sono già
dei segnali che quando questo non è vissuto in connessione organica con un’esperienza totale,
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incominciano a vincere il disinteresse e l’indifferenza; lo vediamo dappertutto, in tanti altri che se
ne infischiano e non si interessano più; e siccome anche i giornali alimentano non poco questo
atteggiamento, allora andiamo dietro a questo pensiero alienante. Ma il nostro modo di agire non
nasce da quello che dicono i giornali, bensì da quella Presenza a causa della quale ci interessiamo a
tutto, anche a questa realtà che è la politica. Noi, come ci siamo detti sempre, non ci aspettiamo la
risposta dalla politica; noi ci aspettiamo la risposta dalla fede, da quello che ci è capitato; ma
chiediamo alla politica, e per questo ci interessa partecipare, di difendere e garantire lo spazio per
fare un’esperienza del vivere che sia un bene per noi e per gli altri. Infatti quando noi viviamo autenticamente la fede, essa si comunica a tutti e diventa un bene per tutti. Per questo le elezioni sono un’occasione educativa di “primo livello”, una verifica della nostra educazione, perché noi vogliamo che la nostra fede non rimanga soltanto nella “pietà” (come un’ispirazione devota), ma
che sia in grado di esprimersi nella totalità del nostro io fino a generare in noi la passione per la “cosa pubblica”, per il bene di tutti.
Il volantone di Pasqua sarà in distribuzione nei prossimi giorni: il dipinto di Marc Chagall Le fils prodigue (il figliol prodigo) con un testo del Papa e uno di don Giussani.
• Veni Sancte Spiritus

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