lunedì 18 gennaio 2010

APPUNTI SCUOLA DI COMUNITA' DON CARRON 13 GENNAIO 2010

.....Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande da cui tutti rimanevano colpiti, più ancora che le gambe raddrizzate o la cecità guarita, era uno sguardo senza paragoni; e il segno che Cristo non è una teoria o un insieme di regole è quello sguardo che non posso creare io (cercando di essere coerente con le regole). Il Vangelo è pieno del Suo modo di trattare l’umano, di entrare in rapporto con coloro che trovava sulla Sua strada. Ma non solo: quel che mi stupisce è che anche questo fascino del Suo sguardo nel Vangelo non lo avremmo colto, se don Giussani non ci avesse educato testimoniandolo......


Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 289-318.
• Canto “Como busca”
• Canto “Give me Jesus”
Sul volantone di Natale mi ha colpito la frase di Giussani che diceva che non si può rimanere nell’amore a sé se Cristo non è una presenza ora – ora – come la madre per il figlio.


A me ha colpito questo perché sono capitati dei fatti faticosi durante questo mese, dove mi sono riscoperto a entrare con una modalità diversa, non più – dicevo a un amico – in apnea, per cui uno entra alla mattina turandosi il naso e spera di uscire il più in fretta possibile. È come se fosse stato inesorabile riconoscere che inevitabilmente questa Presenza c’era. E la sera mi capitava di andare
a letto in pace per questa cosa. Capisco che il riconoscere questo per me è decisivo, perché è come se tutte le volte fosse iniziata una festa; e tutte le volte il mio cuore aveva voglia che questa festa potesse continuare. Dopo le vacanze ho ripreso in mano l’articolo che hai fatto per Natale, e mi ha colpito un passaggio che dice: «Il cristianesimo ha bisogno di trovare l’uomo che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa». A me ha colpito questo, perché è come se avessi riconosciuto che se non fossi stato così, tutto quello che mi era capitato non poteva essere una festa.

Cristo ha bisogno di trovare l’umano. In che misura tu hai visto accadere questo in te?

Innanzitutto per la pace con cui andavo a letto, come ho detto prima, e poi perché riconoscevo che le situazioni cambiavano inesorabilmente, e dovevo solo riconoscerlo.
Volevo raccontarti un fatto semplice che c’entra – credo – con l’articolo sul Natale. Molto brevemente, una sera bisticcio ferocemente con mia moglie che mi ha proprio fatto arrabbiare. Però quella sera – sottolineo questo particolare – avevo ragione io, e più ci pensavo e più dicevo: «Ho proprio ragione io! E stavolta non mollo, assolutamente non mollo!”. Sono andato a letto dicendo: «Non mollo, domani mattina manco la saluto, perché ho ragione io». La mattina mi avevano invitato degli amici ad andare a fare una passeggiata; già nell’alzarsi uno si chiede a cosa
va incontro – e quindi già si era introdotta per certi versi una novità –, però quando sono arrivato al paesello dove mi aspettavano, vedere la loro faccia, come loro han guardato me, non so che riverbero han visto però mi è tornato addosso e io lì ho detto: «Tu» (non riesco a spiegarlo in modo diverso). Ma la cosa che mi ha colpito è che per questa cosa che è entrata ho dovuto resistere qualche secondo, poi ho mandato un messaggio a mia moglie chiedendo scusa per il giorno prima (perché la cosa era stata abbastanza forte) e augurandole buona giornata. Non che il problema in
sé sia stato risolto, nel senso che ne stiamo anche parlando e lo affronteremo, però l’entrata di questa novità mi ha “sciolto” in dieci secondi.

Questo dice molto bene qual è la situazione in cui ci veniamo a trovare quando ci incastriamo: può essere con la moglie, sul lavoro, può essere che mi arrabbio con la vita (ciascuno di noi può documentarlo con tantissimi esempi); e tante volte noi pensiamo che si risolva attraverso un tentativo nostro, un nostro progetto di perfezione. Invece, quello che il tuo intervento descrive è un’altra cosa: quel che t’ha cambiato è lasciare entrare un’altra cosa, lasciare entrare una Presenza
che ha fatto saltare la tua misura. Questo è importante, perché inevitabilmente – ciascuno di noi lo può riconoscere nella propria vita – ci si trova davanti a queste due possibilità in qualsiasi momento della giornata. E qui sta la sfida di don Giussani: entrare nel reale con una mentalità diversa.
Come il Signore ci insegna, qual è questa mentalità diversa? Non facendo una lezione, ma facendolo accadere. Il contenuto e il metodo nel cristianesimo coincidono. Facendo accadere una Presenza risolve, ci “scioglie”. Per questo la vera questione non è tanto se io riesco o non riesco: non riesco!Posso magari farcela parzialmente, ma è diverso: un conto è mandare un messaggino di malavoglia,
un’altra cosa è mandare un messaggino liberati e contenti. Le azioni possono essere quasi le stesse, ma l’esperienza umana che uno vive è totalmente diversa. Uno è veramente liberato: non è che deve cedere dando ragione alla moglie, ma deve cedere a quella Presenza! La vera moralità è cedere o non cedere a questa Presenza; per questo quando ci troviamo incastrati – il che è inevitabile, per un motivo o per un altro la vita non ci viene risparmiata –, che dinamica si genera in noi? Abbozziamo
un tentativo nostro (e poi ci arrabbiamo perché non ci riusciamo) oppure lasciamo entrare una Presenza? Nel rapporto con Dio non ci sono misure, sarebbe moralismo; non è una misura, ma uno sguardo amoroso quello di cui abbiamo bisogno. È questo sguardo amoroso che rintraccia il mio io così arrabbiato, così incastrato, affinché il Mistero possa “sciogliermi” e dire: «Guarda chi sono Io!» (perché questo tu non lo puoi fare). Ma è tutto diverso dal progetto di perfezione il guardare in
faccia Cristo. Questa è una documentazione palese di cosa sia la diversità del cristianesimo, che è un avvenimento, è qualcosa che accade.



Quando è uscito l’articolo di Natale l’ho trattato come qualcosa di già saputo. Finché l’altro giorno un amico mi fa: «Ma l’hai letto?». Mi sono incuriosito per come lui me lo diceva e allora l’ho riletto, ma mi sono fermato alla terza riga, quando mi sono sentito addosso la domanda: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Mi sono detto: «Io dico tutti i giorni: “Gesù”. Ma chi sei Tu veramente per
me? Cosa provo io quando punto il dito e Ti indico nella mia giornata? Cosa mi accade, come faccio io a essere certo che sei Tu, senza illusioni?». Mi sono venute in mente, senza tanti ragionamenti, due cose. La prima è che attraverso di Lui passa qualcosa che non passa da nessun’altra parte, cioè una cosa quasi impossibile. La seconda: in questi giorni con alcuni amici siamo andati in Kazakhstan a trovare alcuni amici e vedendo la loro faccia mi son detto: «Io una letizia così non la posso ricostruire, una letizia che li investe così nella difficoltà, in centomila
condizioni diverse dalle mie, non la posso ricostruire, non ho gli strumenti per poterla ricostruire». E allora chiedo: posso dire: «Tu» perché mi investe in un modo impossibile ad altri?

Tu cosa dici?

Io dico di sì: gli Apostoli cosa avranno visto che io non ho ancora visto?
La modalità con cui Lui si rende presente è qualcosa di impossibile all’uomo, infatti quando la gente vedeva certi miracoli e si trovava davanti a quello sguardo unico, subito doveva pensare a Dio. Perché quello che vedevano non era possibile all’esperienza che loro facevano della vita, non era possibile generarlo da loro stessi. Analogamente, certi fatti eccezionali o certi testimoni sono così al di là della nostra misura che uno è il primo a sorprendersi di essere davanti al Mistero
presente. La settimana scorsa a Dublino parlavo con un amico che era andato per lavoro in un carcere e, sapendo che una persona che conosceva era rinchiusa lì, ha chiesto di poterla vedere. Quando l’ha incontrato, l’altro non è riuscito a guardarlo tanta era la vergogna che sentiva su di sé per la situazione a causa della quale era stato messo in carcere. Il mio amico, invece, era stupito perché lui, sì, aveva potuto guardarlo. Mi sarebbe piaciuto che tutti quanti voi foste stati lì per
vederlo raccontare questo episodio, perché non si capacitava, tanto era lui stesso sorpreso di questa cosa: non era qualcosa che poteva attribuire all’esito di un allenamento o di un moralismo o di una coerenza («Dobbiamo guardare così»). E io che ero lì a guardarlo raccontare ero tutto stupito, tutto
commosso del suo tentativo di dare ragione di questo: in quello sguardo c’era dentro qualcosa più grande. Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande da cui tutti rimanevano colpiti, più ancora che le gambe raddrizzate o la cecità guarita, era uno sguardo senza paragoni; e il segno che Cristo non è una teoria o un insieme di regole è quello sguardo che non posso creare io (cercando di essere coerente con le regole). Il Vangelo è pieno del Suo modo di trattare l’umano, di entrare in rapporto con coloro che trovava sulla Sua strada. Ma non solo: quel che mi stupisce è che anche questo fascino del Suo sguardo nel Vangelo non lo avremmo colto, se don Giussani non ci avesse educato testimoniandolo.
Amici, questo è il segno del divino nel carisma! Perché una cosa
così è impossibile che sia generata non dico da noi, ma nemmeno da lui (pur con tutta la sua bravura e statura umane). Allora, come io, un europeo colto del nostro tempo, posso credere questo? Non come l’esito di un discorso, non come l’esito di una logica, ma perché – educato da un padre – vedo questi fatti con tutta la profondità che hanno: «Guardate che la ragione ultima di questa diversità è
che Io sono Dio». Questa è l’unica spiegazione adeguata a questa esperienza. Perciò – rispetto alla domanda di Dostoevskij – il problema è che senza quell’uso pieno della ragione che un europeo colto dei nostri giorni ha, quando è fedele alla grande tradizione che lo precede, noi la fede, in un clima culturale come quello in cui viviamo, non riusciamo a sostenerla in maniera adeguata, con consapevolezza e profondità. Perciò non dobbiamo far fuori tutta un’educazione o tutta una cultura;
dobbiamo, anzi, usarla secondo la sua vera natura. Questa è l’unica modalità adeguata della fede oggi, altrimenti il vento ci porta via tutto, come vediamo. E questo è il lavoro che siamo costretti a fare davanti alla domanda che faceva il nostro amico: è un’illusione o è qualcosa che io sono costretto a riconoscere? Come abbiamo letto a pagina 272, «la ragione non può percepirlo come si concepisce che sei qui tu, è chiaro? Però non posso non ammettere che [quella Presenza] c’è.
Perché? Perché c’è un fattore [...] così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro non dò ragione dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori». Cioè: per credere oggi non basta che accada, occorre che io usi la ragione secondo la sua vera natura per cogliere quel fattore ultimo senza il quale non dò ragione
dell’esperienza. E queste cose noi abbiamo la grazia di vederle, fatti di questo tipo ne vediamo in continuazione; la questione è se noi rimaniamo soltanto all’impatto sentimentale che ci provocano,dopodiché tutto svanisce, o se non ci fermiamo, fino al punto di riconoscere, di dare ragione totale dell’esperienza che facciamo.


Avevo due esempi e una domanda. Da ottobre, quando è ricominciata la Scuola di comunità,seguivo le cose che dicevi e qualcosa mi faceva dire: «Il metodo che dice è giusto, mi fa rendere ragione dell’esperienza che faccio, però mi sembra artificioso, ma io lo applico perché so che seguendo Carrón nella mia vita l’esperienza poi l’ho fatta». E questi due fatti che mi sono capitati
mi hanno fatto sorprendere invece del fatto che il metodo non è artificioso proprio per niente. Il primo fatto è questo: il 4 dicembre di tredici anni fa è morta mia mamma, e quest’anno, come ogni anno, quel giorno io vado a Messa. Ero sola, perché chi si ricorda più che mia mamma è morta? Non ho fratelli, mio papà è morto, quindi ero sola ed ero veramente triste, pur essendo a Messa di fronte a Cristo io ero proprio triste, ero proprio desolata nel senso che pensavo: «Della vita di mia
madre, del destino di mia madre, di quello che lei è stata, di questa promessa di eterno, a chi importa? Sono qua io, ma che ne è di lei? Cenere». Ed ero a Messa proprio scettica (figurati nella vita)!

Dove era lo sbaglio lì?

Che non ero di fronte a Cristo.
Il problema non è che gli altri si dimenticano, che mistero è che la debolezza sia debole? Il problema è che la nostra speranza non è che si ricordino gli altri, ma che si ricordi Uno. Se voi vi dimenticate di me, ma se ne ricorda Cristo, questo mi basta. Infatti il punto è che io, ribadisco, pur essendo a Messa non ero di fronte a Cristo.Questo ci costringe ad andare fino al fondo di questo, perché altrimenti poggiamo sempre su qualcosa che ha tutta la sua fragilità.
Però la tenerezza di Cristo è stata così sovrabbondante che al momento del segno della pace mi volto e vedo una persona che era intervenuta qualche giorno prima qui alla Scuola di comunità, e vedere lui e pensare a cosa era stata la Scuola di comunità qui con te mi ha sorpreso e mi ha commosso, perché in quell’istante è come se avessi inteso che ancora c’era un destino buono per me e per mia mamma. Io non so come, perché non è stato un pensiero mio o un ragionamento artificioso, ma è stato una sorpresa del fatto che ero in ginocchio davanti a Lui. E lì ho visto una
storia di momenti, di persone che hanno accompagnato mia madre, che sono…
E che continuano a esserci.

Esatto.

A volte ci lasciamo prendere dall’apparenza di essere da soli; ma quando tu sei a Messa sei ontologicamente insieme a tutta la comunità cristiana. A volte ci sconcertiamo di questo metodo,che sembra artificioso: «E adesso che cosa faccio, che non vedo nessuno qua?». Ma se uno non va al fondo di questo, se uno non usa l’arma che ha, la ragione, per rendersi consapevole di tutto quanto sta accadendo lì, rimane bloccato; invece se non si lascia prendere da quella misura, dal
dispiacere, e va fino in fondo, questo gli consente poi di recuperare tutto.


L’altro esempio è che quest’anno mia figlia ha iniziato la prima elementare e ho pensato di fare la rappresentante di classe perché è un compito: sto vicino alle mamme, sono più dentro la scuola (una serie di pensieri buoni). Poi proprio le cose che tu hai detto in tutti questi mesi mi hanno provocato, perché alla fine non mi bastavano queste buone azioni, questi buoni ragionamenti, tanto è vero che dopo la terza riunione ti stufi, dopo la terza colletta di soldi ti stufi; e allora mi sono
costretta a rendere ragione del perché ho iniziato questa cosa, e l’unica risposta adeguata è:perché voglio bene a mia figlia, in qualche modo voglio essere a servizio di questa esperienza che sta facendo. E cosa è capitato? Che all’uscita della scuola c’era una mamma africana che non sa ancora bene l’italiano, e io ero reduce dalla Scuola di comunità della sera prima e per la prima volta l’ho guardata in modo diverso, ho guardato il viso di questa donna senza avere un progetto
mio, ascoltando semplicemente dei racconti di una quotidianità assolutamente banale, però ho avuto la percezione di chiedermi: «Cristo, chissà Tu attraverso questo volto dove mi conduci?», tanto che il volto di questa mamma rispetto a quelle che sono anche più amiche è diventato preferito per me, quando io la vedo fuori dall’uscita della scuola, magari non parliamo, ma per me è un richiamo della mendicanza a Cristo, e anche questa è stata una sorpresa, perché le cose che tu ci dici non sono artificiose.

Questo secondo me è fondamentale: partecipando a un luogo che ci introduce a una nuova conoscenza lei (reduce della Scuola di comunità) si è sorpresa a guardare in un altro modo. Questa novità nello sguardo è il valore conoscitivo dell’incontro: chi mi allarga la ragione è Cristo, che mi introduce a un modo di guardare le persone, di guardare il reale con tutta la misteriosità che c’è dentro. Dice in fondo a pagina 292: «La nostra vita appartiene a qualcosa d’Altro – diciamo così per
abbreviare l’intendimento – di strano in sé, di enigmatico, di misterioso; noi siamo abituati a
chiamarlo Dio, ma non possiamo neanche chiamarlo Dio, non abbiamo il diritto di chiamarlo Dio [perché pensiamo che Dio sia un “già saputo”] se non lo percepiamo nella sua inafferrabile misteriosità». Poi più avanti continua: «Per questo la vita dell’uomo è drammatica, […] è fatta di un’umanità, in cui l’io riconosce che tutto ciò che è appartiene a Te, anche se questo Te sfuma in
qualcosa di enigmatico, si oscura in qualcosa di enigmatico, di misterioso». Noi sappiamo che il Mistero è presente perché introduce questa misteriosità nella vita, allarga la ragione, allarga la capacità di vedere tutta la profondità della realtà che abbiamo davanti quando uno guarda l’altro.
Sono stato a Londra nel fine settimana e un amico cui è stato diagnosticato un cancro mi ha detto di
percepirlo come una preferenza del Mistero, ma non in termini banali, dandolo per scontato, bensì come fatto che gli fa scoprire veramente che la vita non gli appartiene, che non la può possedere, che non la può controllare, che non è nelle sue mani. In questo senso è una preferenza – perché tutti siamo condannati a morire, cancro o non cancro –, perché introduce una profondità nella coscienza di me che mi rende più vero, mi rende più consapevole di che cosa sono io, di qual è il Mistero cui appartengo. Don Giussani afferma due cose quando parla del tempo: che il tempo non ci appartiene (cioè che la vita non ci appartiene) e che questo Mistero a cui appartiene la vita ci ha donato un luogo che ci rende più consapevoli di Lui. «E invece siamo stretti, stretti d’attorno, stretti proprio ai fianchi da una compagnia che ci richiama continuamente al destino, al Mistero che fa le cose per il
nostro bene, per un nostro destino di felicità. Questo Mistero è bene, questo Tu enigmatico è buono»; ci dà un luogo come questo perché possiamo guardare così l’altro, la malattia, la circostanza, la moglie, gli amici, tutto, con questa densità enigmatica, misteriosa. È la differenza tra qualcosa di piatto e qualcosa di tridimensionale! Questo è quello che introduce Cristo, questa profondità nello sguardo del quotidiano, di quello che succede nella vita. E questo lo fa accadere in
noi in certi momenti precisi, affinché poi questa sia la nostra modalità sempre più quotidiana,familiare, di entrare in rapporto con il reale. Allora tutto ci parla con un’intensità che prima non ci sognavamo.
Adesso la domanda.
Dopo tutte queste cose che ho visto, che ho sperimentato ancora una volta, in questi giorni sto leggendo gli Esercizi del Clu. E quando si parla del volantino sulla questione dei crocifissi mi sono proprio vergognata perché anch’io difenderei la croce per il significato culturale. Poi invece tu introduci il fatto del chiedersi chi è l’Uomo appeso alla croce per me. Io lì sono rimasta davvero pietrificata, perché a me sembrava di avere messo in azione il massimo delle…

L’aspetto culturale non è sbagliato. È un aspetto, ma non è questo che ci salva! Infatti non dà ragione della tua esperienza.

Infatti, in quei due fatti che mi sono capitati, la nostalgia che io provo nel raccontarteli pensando a quella mamma africana, che è il modo in cui io vorrei guardare mio marito tutti i giorni, cioè non conoscendolo, non è che la faccio fuori dicendo: «È una questione culturale o un’integrazione razziale».
Questo è quello su cui insite quel volantino.
Però è bestiale: uno ti vuole seguire, però poi è sempre un’altra cosa.

E come ti corregge la Scuola di comunità?

Qui parla della vergogna, ma la riconduce subito al dolore, perché la vergogna è ancora tutta centrata su di te che non sei stata in grado, e questo ti produce la vergogna. Ma la vera questione non è la vergogna, che t’importa della tua vergogna? La vergogna non ti serve a nulla. Qui la questione è, carissima, che c’è un luogo che ti riprende sempre: a un certo momento, prende il sopravvento un’altra cosa, sei più contenta e più travolta dal fatto che ci sia un luogo che ti riprende sempre che non dalla vergogna che ti provoca il non essere riuscita. È lo spostamento affettivo. Se questo non prevale, siamo come gli altri, in fondo ci
aspettiamo dalla nostra capacità di performance la soluzione: siamo poveracci. Per questo non è che, a un certo momento, noi possiamo possedere il discorso o possedere il cristianesimo: non lo possediamo, abbiamo sempre bisogno di questa contemporaneità di Cristo presente, che ci spalanca costantemente, che – come dicevamo prima – rompe costantemente la misura, perché quello che
prevale è che Lui c’è, c’è e continua a essere presente per te oggi. E pian piano uno è sempre più commosso di questa spropositata affezione nei nostri confronti, e tutta la nostra affezione è calamitata da Lui. Altro che: «Lo so già»! No, uno si stupisce sempre di più che continui a non stancarsi (perché noi con gli altri ci stanchiamo subito...). E cominciamo a percepire con costanza questa diversità, la cui unica spiegazione è il divino: è un Tu che domina, e così ci rende sempre più
Suoi.


In questo ultimo periodo ho preso coscienza della difficoltà del momento che sto attraversando,infatti da un paio di mesi ho improvvisamente ricominciato a non riuscire più a gestire come prima la normalità della vita quotidiana. Io sono sposata e ho cinque figli; sempre più spesso arrivavo a fine giornata senza essere riuscita a completare le quotidiane incombenze domestiche, non riuscivo
a stare dietro alle esigenze di una normale vita di famiglia (i figli, la scuola, le visite mediche), cominciavo anche a dimenticarmi una cosa dietro l’altra e a perdere un sacco di colpi. La ragione che mi sono data di tutto questo era che fosse la naturale conseguenza della morte di mio papà, avvenuta lo scorso mese di agosto, e in particolare la conseguenza dello stress psicologico e fisico dei sei mesi di malattia precedenti, resi ancora più faticosi dall’impegno richiestomi
contemporaneamente dalla mia ultima figlia, che allora era neonata. Era come se mi fossi ritrovata improvvisamente svuotata di tutte le energie usate in quel periodo, avevo anche preso la decisione dopo la morte di mio papà di riprendere a lavorare, avevo pensato a un tipo di lavoro nuovo (io sono medico) che mi sembrava ben conciliabile con il mio impegno di madre di famiglia e che pure
mi piaceva, ma finora non ho ricevuto nessuna offerta. Mi trovavo per la prima volta in vita mia in una situazione di grande debolezza, che nettamente strideva con la persona che ero sempre stata, certamente non modello perfetto di organizzazione domestica e di successo professionale, ma pur sempre autonoma, ben decisa. La naturale ragione di questo cedimento e la prospettiva che il tempo avrebbe migliorato la situazione non mi bastavano, io non mi riconoscevo, così incapace,
inconcludente e non mi piaceva vedermi così; poi ho visto l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera e, leggendolo e rileggendolo, ho cominciato a provare una crescente tenerezza nei confronti di me stessa; il mio limite, la mia incapacità e la mia conseguente insoddisfazione erano il segno più eclatante di quella che è la mia vera natura, il buon Dio mi metteva dentro questa “depressione” perché potessi chiedere, con la stessa insistenza che avevo già usato in altri momenti, che Lui
riaccadesse nella mia giornata e che io Lo potessi riconoscere, certa dell’aver sperimentato io stessa, e dell’averLo visto testimoniato abbondantemente anche intorno a me, che è solo questo che riempie il desiderio del mio cuore. Ero sì più affannata, ma in un certo senso ero più sincera e più vera nel vedermi così bisognosa piuttosto che infallibilmente organizzata. Ho smesso quindi di
riporre le aspettative di un possibile cambiamento nei miei goffi propositi del tipo: siccome non riesco a fare le cose, mi alzo presto la mattina così esco di casa che almeno ho già fatto qualcosa. Oppure: in casa mia non esce nessuno finché tutti non hanno fatto il loro letto, non hanno sistemato la colazione, non hanno sistemato la stanza. Oppure: mi iscrivo in palestra perché dopo cinque figli mi rimetto in forma così mi piaccio di più, cresce l’autostima. Non che di per sé tutte queste cose
fossero sbagliate – perché è meglio che i figli escano avendo rifatto il letto ed è meglio fare ginnastica che non farla –, ma perché io guardavo a queste cose come al rimedio a una ferita che invece era più vero che rimanesse aperta; mi porto dentro la certezza che il punto non sono le cose che mi succedono, specie quando non corrispondono a quello che vorrei o addirittura mi sembrano
ingiuste, ma l’uso che faccio di queste cose: se queste diventano l’occasione per cui mi trovo a domandare con più sincerità e più insistenza che il Mistero si renda presente. Ben venga anche questo, perché quando mi troverò faccia a faccia con il Mistero, Gesù non mi chiederà conto di quanto sono stata capace o come mi sono mantenuta in forma, ma mi chiederà: «Tu quanto Mi hai amato?».

Guardate che in tutte queste vicende umane, umanissime, si ripete quello che dicevamo all’inizio: il cristianesimo ha bisogno di trovare l’umano che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa. Tante volte noi siamo tentati – dico nell’articolo – di pensare che l’umano invece di un aiuto sia un ostacolo, una complicazione, un intralcio e cerchiamo anzitutto di “sistemarlo”; ma facendo così noi mostriamo già un giudizio su che cosa è l’origine del disagio che
ci troviamo addosso. Tanto è vero che i tentativi che facciamo (i propositi, la palestra, l’autostima eccetera) implicano uno sguardo su quel disagio. Cercando di riassumere: tante volte tutto questo lo prendiamo come i sintomi di una malattia o di qualcosa che non va e che dobbiamo cercare di rimettere a posto (con le modalità che ci vengono in testa), non come i segni della nostra grandezza, del mistero che c’è in noi. In questo giudizio che diamo c’è, poi, tutta la modalità con cui cerchiamo di rispondere: perché se riduci le esigenze, riduci anche la risposta. Come hai detto benissimo, ti sei spostata a cercare la risposta a questa tua ferita altrove, in un rapporto con Lui. Quando ci sei riuscita? Quando – rileggendo l’articolo – hai sentito tutta la tenerezza su te stessa: è il bisogno non
ridotto, l’umano non ridotto. Allora si capisce che queste difficoltà sono sintomi di qualcosa d’altro, di un bisogno più grande. Il problema è che per noi, tante volte, questa è l’ultima spiaggia: dopo avere fatto la ginnastica, il proposito e la visita medica, alla fine, se resta qualcosa di irrisolto – e resta sempre, grazie a Dio! –, pensiamo a Cristo... E allora scopriamo che avevamo, sì, giudicato,
ma in modo incompleto. E quando capiamo che è incompleto? Quando cominciamo a sentire una tenerezza che risponde di più al tuo bisogno che neanche tutti i tuoi pensieri: allora capisci qual è la natura del disagio. Senza questo, Cristo non può manifestare Chi è, e perciò non abbiamo le ragioni della fede. Invece, quando tu Lo vedi all’opera allora capisci: «Se non ci fossi Tu, Cristo mio, sarei
creatura finita». Allora prende di nuovo il sopravvento il fatto che Lui ci sia e che ti venga incontro in una modalità sorprendente anche in mezzo a tutte le riduzioni che hai fatto, rispondendo più adeguatamente al tuo disagio. Dobbiamo mettercelo bene in testa: una delle modalità più abituali con cui la mentalità comune entra in noi è questa riduzione dell’io ai fattori antecedenti.

Mi colpiva una frase molto semplice, a pagina 309: «Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza in una Presenza sperimentabile», perché è successo che il giorno dopo Natale abbiamo saputo che mio papà si era ammalato di un tumore ai polmoni; non sapevo come fare a far compagnia a mio papà. In realtà ho capito dopo che non era tanto far compagnia a mio papà: io avevo bisogno di compagnia. Ho avvertito subito un paio di miei amici più cari i quali, amorosamente, hanno subito cercato di farmi alzare la testa. Di solito io ho sempre, rispetto alla realtà, una facilità di approccio, sono sempre abbastanza determinato ad appassionarmi a quello
che c’è da affrontare. In questo frangente, invece, ho capito che bisognava piegare le ginocchia e chiedere tutto. Allora ho mandato una mail ai miei amici, dicendo: «Guardate, io non mi nascondo dietro a un dito, io non ci sto capendo niente; bisogna che pieghiamo le ginocchia e chiediamo tutto». E tutti questi amici della Fraternità in maniera molto amorevole hanno cominciato a invitarmi a casa loro a mangiare, a telefonarmi alla mattina e poi a fare una cosa molto bella:
hanno fatto dire ai loro figli, in tutto quasi una trentina di bambini, delle preghiere per mio papà. Ecco, questo era un bene certo: la loro amicizia dava voce alla preghiera che non ero capace di dire. Allora ho chiamato i miei bambini, ho spiegato loro che cosa era successo al nonno e ho detto se per piacere andavano ogni tanto a trovare il nonno a chiedergli come andava, poi la mattina ho aperto la porta di mio papà e ho cominciato ad andare lì ogni giorno a vedere come andava. Sto
imparando che ho bisogno di fare esperienza del volto di Cristo, di qualcuno che in certi momenti porti il tuo desiderio, la tua domanda, quando non sei capace neanche di chiedere. Qualcuno che ti ricorda che quel “sì” è possibile.

Ti ringrazio, perché questo introduce la vera questione del prossimo capitolo della Scuola di
comunità. Tante volte, come ha detto lui, la prima questione che ci viene in mente è rispondere al problema altrui (del suo papà), ma ci rendiamo conto che siamo noi i primi bisognosi e che soltanto se noi troviamo risposta, allora della sovrabbondanza di quello che trabocca da noi possono profittare gli altri. Tanto è vero che tu hai cominciato a poter guardare tuo papà, a parlare ai tuoi figli. Questo dice molto chiaramente qual è la natura del nostro bisogno: per parlare della carità non
possiamo che essere consapevoli di questo bisogno. Questo esempio tuo fa capire a tutti che le cose non funzionano dicendo: «Adesso ho capito tutto, e devo avere carità con mio padre, accompagnandolo nella malattia». Perché noi non possiamo dimenticare mai, qualsiasi sia il punto della strada, qual è la natura bisognosa del nostro io. Per questo il Papa nella Deus caritas est afferma che la carità (l’amore proprio di Dio) «è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». E quello che è apparso benissimo nel tuo intervento è che tu, proprio lì, ti sei reso conto di chi sei tu, cioè che per poter rispondere a tuo papà il passaggio non lo puoi fare direttamente: rispondere a tuo papà necessita di un passo previo, per potere rispondere tu hai bisogno di qualcosa d’altro, che qualcuno risponda al tuo bisogno. Questo ci consente di capire come noi non possiamo fare come facciamo di solito: parlare della carità occupandoci subito di quello che dobbiamo fare agli altri. È quello che a te è venuto spontaneo (la prima immagine che ci viene è questa): dimenticarti di te e cercare di occuparti di tuo papà. Noi
possiamo fare compagnia all’altro, se prima di tutto c’è Uno che fa compagnia a noi. Questo è quello che don Giussani sottolinea in un modo molto efficace in tutta la prima parte di questo capitolo sulla carità: la vera carità è che il Signore ha avuto pietà del nostro niente. Questa precedenza della mossa di Cristo verso di noi ci aiuta a non ridurre, di nuovo, il cristianesimo a un’etica. La prima carità è quella sconfinata del Mistero nei nostri confronti. Per questo la Bibbia
parla sempre di questo “prima”: è Dio che ci ha amato per primo, noi siamo quelli che prima di tutto hanno conosciuto l’amore di Dio e poi, per questo, abbiamo creduto. E questo è quello che ci consente di capire l’altra domanda suggerita dal Papa: chi è Dio? Perché anche questo lo diamo per scontato, siamo così abituati a parlare di Dio, a sentire parlare dell’amore di Dio che lo diamo per scontato. Ma noi dobbiamo capire tutta la novità che introduce Cristo. Dobbiamo renderci
consapevoli che per le religioni antiche Dio non poteva amare, perché l’unica cosa che esse capivano dell’amore è che esso è desiderio, eros, l’amore cui manca qualcosa; perciò riconoscere che gli dei avevano desideri sarebbe stato contraddittorio rispetto al concetto di divinità. Il cristianesimo, avendo avuto un’esperienza di Dio tutta diversa, ha dovuto insistere non sull’eros, ma sull’agape, ha sottolineato con un’altra parola greca la natura nuova di questo amore, che nasce proprio non dalla mancanza, ma dalla sovrabbondanza della Trinità, dalla sovrabbondanza di ciò che Essa vive in Sé e vuole condividere con l’essere umano. Si svela così qual è la natura del Mistero. Per questo don Giussani ci dice che tutto il percorso che abbiamo fatto attraverso la fede e la speranza ci porta, con la carità, all’intimità di quella Presenza; e ci fa capire perché Giovanni e
Andrea sono stati affascinati da quell’Uomo il cui cuore è carità sterminata, tenerezza che rispondeva al vero bisogno. Il poeta Mario Luzi si chiede: «Di che è mancanza questa mancanza?». Soltanto se noi abbiamo consapevolezza di questa mancanza possiamo capire veramente la natura di Dio; e la natura di Dio a sua volta ci rende consapevoli di che mancanza è questa mancanza. Questa è la prospettiva entusiasmante con cui incominciamo questa nuova parte della Scuola di comunità.
La prossima volta ci troviamo avendo lavorato sulle pagine 321-337. Nel frattempo vi invito a leggere anche il libretto degli ultimi Esercizi del Clu, allegato a Tracce di gennaio. Lì trovate, molto più sviluppato, quanto contiene il mio articolo sul Natale pubblicato dal Corrieredella Sera e da El Mundo. Penso che possa accompagnare utilmente il nostro lavoro di Scuola di comunità.• Gloria

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