martedì 23 marzo 2010

CARCERI? SONO FABBRICHE DI MAGGIORE INSICUREZZA

......E invece?
“Invece è anche un problema “di qualità”, della perdita di senso del vivere e del lavorare”.

Certo, in carcere quel senso è merce rara…
“In realtà la crisi che c’è dentro al carcere è la stessa che c’è fuori, magari solo un po’ accentuata da depressioni e isolamento. E la crisi attuale non è economica, ma è perdita del valore della persona, del lavoro. Per sentirsi in prigione non occorre andare in carcere”......


Pubblicato da Socialmente
20-03-2010

L'INTERVISTA. Nicola Boscoletto, Coop Giotto. Nata vent'anni fa con un gruppo di laureati "verdi". "Sintomi della crisi: s'è perso il senso della vita del lavoro, della persona".

Un altro suicidio in carcere, già il secondo dall’inizio dell’anno.
Nicola Boscoletto, cosa succede?




“Potrei rispondere che è un problema “di quantità”, ovvero che ci sono troppi detenuti in poco spazio, il classico sovraffollamento, a fronte di troppo pochi assistenti, agenti, psichiatri e via dicendo”.


E invece?
“Invece è anche un problema “di qualità”, della perdita di senso del vivere e del lavorare”.

Certo, in carcere quel senso è merce rara…
“In realtà la crisi che c’è dentro al carcere è la stessa che c’è fuori, magari solo un po’ accentuata da depressioni e isolamento. E la crisi attuale non è economica, ma è perdita del valore della persona, del lavoro. Per sentirsi in prigione non occorre andare in carcere”.


Ognuno ha la prigione che si crea?
“Basta guardare le facce della gente il lunedì mattina, per alcuni già la domenica pomeriggio, gente intristita perché vive il lavoro come una prigione, e pensa di uscire libera solo il venerdì sera. E’ il senso di vivere e lavorare che s’è perso”.

Boscoletto, lei ha una laurea in Scienze forestali. Com’è finito in carcere?
“L’idea nacque tra un gruppo di amici. Avevamo vissuto negli anni dell’università una bella esperienza, tutti insieme, sostanziata anche dall’incontro con l’esperienza di Cl di don Giussani. E avevamo visto quelli più grandi di noi iniziare un’avventura di lavoro”.

Quindi?
“Noi stavamo per finire gli studi ed eravamo al bivio: bisognava cominciare a concorrere a competere, era matematico che il gruppo di amici si sarebbe dissolto. Ed invece volevamo andare avanti insieme”.

E andaste dal notaio.
“Nel luglio del 1986 ci trovammo in nove davanti al notaio, dove piantammo questo semino: una cooperativa allora “normale”, vocata alla gestione del verde. Eravamo tutti laureati in Agraria o Scienze Forestali”.

Perché una cooperativa?
“Perché metteva tutti noi sullo stesso piano, senza scopi di lucro, e teneva al centro l’aspetto societario inteso come risorsa umana”.

Bene. E dopo l’atto formale?
“La cosa rimase così per quattro, cinque anni. Nel 1991 incrociammo due grandi realtà sociali, il carcere e la disabilità. Partecipammo alla gara per il recupero delle aree verdi del carcere nuovo, il Due Palazzi, che era già finito da alcuni anni, ma rimaneva sigillato sotto sequestro”.

Come mai?
“Era uno dei famosi “carceri d’oro” dell’allora ministro Nicolazzi, di fatto in degrado totale, proprio mentre si doveva organizzare il trasloco dal vecchio carcere di piazza Castello. L’appalto per cui concorremmo riguardava il recupero dell’area verde, un appalto per circa 30 milioni delle vecchie lire, per noi una cifra”.

Otteneste l’appalto?
“L’amministrazione penitenziaria tardava a dare l’esito della gara. Il tempo passava. A quel punto lanciammo un’idea: in carcere vivevano 700 persone che non facevano niente dalla mattina alla sera. Possibile non riuscire farli lavorare?

Una provocazione?
“Che però ebbe successo. La gara d’appalto venne soppressa, e noi organizzammo un corso di giardinaggio per venti detenuti, che partì nel ’91. Oggi siamo arrivati alla diciannovesima edizione, con un totale di 380 detenuti formati”.

Formati e avviati al lavoro?
“Sono stati selezionati per lavorare all’interno, poi all’esterno in misure alternative: escono a lavorare e rientrano per la notte”.

Mai avuto spiacevoli sorprese?
“Nel 2001, dopo dieci anni, abbiamo tirato una riga: tra tutte le persone che con noi sono passate al lavoro all’esterno, contrariamente alla media reale nazionale della recidiva che s’attesta sul 90%, questi tornavano a delinquere con una media tra il 15 e il 18%. Avevamo dato loro un’alternativa”.

Parliamo di gente senza altre particolari capacità professionali?
“In carcere nove su dieci non hanno un curriculum lavorativo, non sanno nemmeno cosa sia lavorare. Più che una rieducazione, la nostra è una educazione”.

Nessuna modifica nella vostra coop iniziale?
“Nei primi anni Novanta, con la nuova legge, la nostra cooperativa divenne “sociale”, per l’inserimento lavorativo di fasce svantaggiate e deboli, disabili, tossicodipendenti, detenuti, alcolisti, invalidi, sensoriali, psichiatrici”.

Diventò poi possibile anche il lavoro interno?
“Nel 2001 arrivò la normativa per far ritornare appetibile il lavoro all’interno delle carceri.
Padova del resto è un pezzetto di storia, con i palloni di Vallesport, le bici Atala e via dicendo”.

Però le carceri furono abbandonate dalle imprese.
“A metà degli anni Ottanta c’era stato l’abbandono totale dell’attività manifatturiera in carcere, per battaglie sindacali rivelatesi poi sbagliate. Le imprese fuggirono via, e fino al 2001 nelle carceri fu il deserto, e l’inedia più totale”.

Un guaio?
“Quando non si fa nulla, il carcere è solo l’università del crimine.
Entrano ladruncoli, escono criminali professionisti. In realtà, proprio oggi, quando si chiede più sicurezza, il carcere, avendo perso il suo fine vero, sostanzialmente invece di produrre bene, produce male. Si chiede sicurezza, creiamo il contrario. Per di più con costi elevatissimi”.

Tipo?
“Se un disabile psichiatrico gravissimo costa alla collettività 54 mila euro all’anno, un detenuto mediamente ne costa 100 mila.
Quindi spendiamo miliardi di euro per farci del male”.

E allora cosa si deve fare?
“Vanno bene tante carceri, costruite bene, che diano dignità al “vivere minimo”, ma bisogna chiederci “qual è la funzione?”. In realtà se c’è redenzione c’è sicurezza, altrimenti no. Arrestare in fretta tutti coloro che commettono un reato, processarli subito, metterli in galera con una pena certa, sono solo enunciati ipocriti, se non si aggiunge a tutto ciò anche il recupero. Si produce esattamente il contrario di quel che si vorrebbe”.

Solo pena, niente rieducazione?
“La filiera della sicurezza o si porta fino all’ultimo stadio, cioè il recupero, oppure resta opera morta”.

E’ un problema economico?
“No, è falso. Bisogna vedere
Come si spendono i soldi che ci sono. Solo se si verifica che non bastano si può dire che ne servono altri, come per qualsiasi altra attività. Oggi la "redditività" di un detenuto è zero, ed invece potrebbe arrivare almeno a coprire il 50% dei suoi costi".

Voi come cercate di intervenire?
"Noi abbiamo lavorato in primis per noi stessi, dovevamo mantenerci, pensare alle nostre famiglie, quindi abbiamo vissuto la nostra esperienza come un modo serio e bello per stare insieme, ma senza tirare in ballo buonismo o pietismo, nessuna fissa sui diritti umani e via dicendo...".

Ma come, e i carcerati, il sociale?
"Nel fare bene il nostro lavoro, con noi poteva essere chiunque, detenuto, disabile o altri ancora.
Questo abbiamo fatto: impresa sociale. E fummo anche molto combattuti".

Da chi?
"Dal terzo settore, il "volontariato" organizzato, perché noi avevamo messo davanti al sociale la vicenda professionale, della qualità. Ci imputavano di fare impresa, quasi la distinzione fosse profit e non profit, quando invece è evidente che anche un imprenditore profit può fare carità".

Come voi?

"Nel nostro caso abbiamo affrontato il lavoro in maniera imprenditorialmente seria e qualificata per dare un'opportunità a persone con handicap di varia natura.
Non credo abbia senso parlare di profit e non profit: alla fine, chi aiuta di più chi?".

L'etica, comunque, resta ferma nel dna della vostra coop?
"Certo, se un'impresa "normale" dà 100 io devo 101, non 99.
Siamo in gioco noi, in prima persona. Come cooperativa sociale siamo onlus di diritto, ma non bisogna confondere il tutto col no agli utili, no alla professionalità".

Quindi, l'utile non è "peccato".
"Il problema semmai è come fare profitto: la strada scelta per fare profitto è all'origine della crisi di oggi. Il profitto è una cosa buona se rispetta la natura dell'uomo e della collettività, altrimenti...".


Intanto però è crisi per tutti.
"Per noi la crisi è un dato positivo: ha costretto a riflettere sul valore delle cose, su quel che si fa, sulle persone, sul recupero dell'essenziale, del buono".

Una cosa buona, si dice da più parti, sarebbe la certezza della pena.
"La pena certa è un non problema: in Italia la pena è già certa, rispetto alle leggi che ci sono. Si può discutere semmai su come è impostato il sistema. Ma va tenuto presente che anche le misure alternative sono solo modi diversi di "pagare".

Ma si intendono diversamente.
"E' stato creato l'automatismo reato-carcere, così che alla fine non si distingue tra omicidio e rissa, furto e sequestro, tutti allo stesso modo in carcere, anche se per tempi diversi. Qualsiasi altra modalità sembra una non punizione, ma non è affatto così".

Si pensa alla pena "vera".
"In realtà la vera pena non la si sconta in carcere, dove si sta nascosti in una cella, riparati dalla società, addirittura vittime per i diritti calpestati, trasformati da chi dovrebbe risarcire la collettività a chi dev'essere risarcito".

E l'indulto?
"L'indulto, fatto per l'emergenza, non come segnale di speranza, paradossalmente è comunque servito. Va detto che il detenuto prima esce meglio è".

Mi sembra un concetto discutibile.
"Faccio un esempio. Diciamo che ho un panno sporco e lo ficco in una lavatrice che però non è il massimo della vita, per di più senza nessun detersivo, e dove già ci sono parecchi altri panni ancora più sporchi. Il risultato sarà che il mio panno non uscirà bello ripulito, ma più sporco di prima. Oggi insomma la scelta è il male minore".

C'è però il problema delle recidive.
"La prova del nove è che l'indulto ha creato una recidiva inferiore di quella che si sarebbe registrata se i detenuti avessero scontato tutta la pena".

Voi sareste quel detersivo?
"Su una popolazione carceraria attuale in Italia di 66 mila persone, solo 700 hanno un lavoro vero, secondo le regole del mercato, e di questi 100 sono qui a Padova".

E tra costoro che lavorano che recidiva si registra?
"Fino al 2001 avevamo inserito carcerati solo al lavoro esterno, in misura alternativa. Dal 2001 in poi abbiamo iniziato il lavoro interno. E da allora fino al 2008 per chi aveva iniziato a lavorare dentro il carcere, poi in misura alternativa ed era arrivato così a fine pena, la recidiva è scesa all'1%".

Nessun commento: