martedì 23 marzo 2010

COSI' I COMUNISTI UCCISERO POPIELUSZKO

.....Uno nascente, pieno di fervore e di desiderio di libertà, capace di pregare, voler bene e lottare. Un altro mondo accanto ma lontanissimo, bravo solo nell'odio, e perciò morente e killer nello stesso tempo. I verbali ci restituiscono gente che in nome dell'umanesimo marxista si siede a tavolino per discutere se buttare un prete dal treno sia meglio che rapirlo, che nasconde 40 chili di grosse pietre nell'armadio per schiacciarvi sotto la testa del prete, che lo picchia selvaggiamente fino a ucciderlo e poi cerca di farne sparire il corpo, che dalla Vistola finì nel lago ghiacciato vicino a Varsavia, ed è così certa della sua impunità da non preoccuparsi di lasciare le proprie tracce.
Be’, noi le abbiamo trovate, e sappiamo ancora riconoscerle.....


Il Giornale 20 ottobre 2009
È un buon momento per ricordare don Jerzy Popieluszko. Il film proiettato a Roma alla presenza di Lech Walesa non è stato solo cinema, ma la comunicazione di una verità umana e storica. Anzi due. 1) Il comunismo fa schifo, ammazza i più buoni e li calunnia. 2) Il desiderio di libertà e di giustizia però è più forte. Queste due cose non bisogna mai smettere di ricordarle. Specialmente ora che i fantasmi del comunismo e dei suoi metodi di sangue e di para-giustizia riaffiorano e fanno proseliti, e trovano chi è pronto a giurare sulla sincerità dei loro propugnatori.


Guai.
La memoria va, per me, a venticinque anni fa. Giusto 25 anni fa. Sono le nozze d'argento con il suo martirio. Arrivarono le foto. Uno strazio. Non era lui, non poteva essere don Jerzy, ce lo ricordavamo biondo, era così bello. Invece le foto di questo annegato pescato dal lago artificiale ce lo restituivano come un sacco d'ossa spezzate. Il corpo gonfio, il volto devastato, gli occhi tumefatti. Arrivarono quelle immagini in Italia, uno scoop, a noi giornalisti di neanche trent'anni. Mi ricordo c'era scritto sulla busta, e ce la facemmo tradurre: è il nostro martire.
Uno scoop? Ma alla stampa e all’intellighenzia filocomuniste imperanti allora come oggi sarebbe parso una sciocchezza reazionaria. Avevamo un canale privilegiato con la Polonia. Il settimanale Il Sabato aveva il miglior inviato laggiù, Luigi Geninazzi, e il primo lettore polacco a Roma, Karol Wojtyla. Solidarnosc e i suoi dirigenti sapevano di questo privilegio e lo usavano. Interviste, documenti originali, notizie esclusive arrivavano tramite Geninazzi, detto Gez. Il quale si prendeva i suoi rischi, era uno di loro, andava ad esempio alle messe per la Patria celebrate da padre Jerzy Popieluszko, obiettivo privilegiato di retate. Le aveva raccontate. Ci aveva parlato di questo sacerdote coraggioso, fermato dalla polizia e dai servizi segreti, amatissimo dagli operai. Una spina nel piede del leone comunista. Poi quelle foto tremende. Era sparito nella notte, abbrancato da dei figuri violenti. Il suo autista, un gigante dall'aria del Garrone di Cuore, era riuscito a sfuggire all'agguato. Stavano dalle parti di Torun, girava sempre questo sacerdote, dove ci fosse bisogno. Era il 19 ottobre 1984: la loro auto fu bloccata. Si seppe poi che erano stati tre agenti dei servizi segreti a rapire il prete. Fu ritrovato dopo qualche giorno. Lo avevano massacrato di botte e poi gettato nella Vistola. Per fortuna l'autista Waldemar Chrostowski si era messo in salvo. Per fortuna: non solo perché così ebbe salva la vita, ma poté anche raccontare la verità. Il popolo si sollevò. Un prete non si tocca in Polonia, specie uno così, uno di noi, un ragazzo quasi. Aveva 37 anni.
Il regime cercò prima di negare, poi consegnò i tre uomini dei servizi nelle mani della Giustizia. Giustizia si fa per dire. Un capitano confessò con goduria: «L'ho ucciso io, con le mie mani». Il prete disse solo due frasi mentre lo torturavano alla morte: «Perché mi fate questo? Abbiate pietà». Dopo qualche giorno alla fine il cadavere fu pescato. Il Papa era in dubbio se fosse opportuno pubblicare quelle foto - così ci era stato detto - perché temeva una ribellione e il successivo massacro. Non ricordo se le pubblicammo, so che le vidi. L'unica foto ammessa fu quella di padre Jerzy nella bara per i funerali. Con la casula di sacerdote rossa del martire, un crocifisso sul petto. Invano la sua faccia era stata trattata da mani delicate per renderla presentabile; risultava deformata, viola, come di uno di cui era stato spezzato ogni osso con sistematicità. È il comunismo ragazzi. Ma il peggio doveva ancora arrivare. E si chiamava processo. Un processo non dei tempi di Stalin ma di quelli di Andropov e Jaruzelski, che tutti elogiano come difensore della Patria.
Per sopravvivere alla ribellione aveva consegnato i tre agenti ai magistrati, ma il Pm imbastì un processo non contro gli assassini ma contro Popieluszko, la Chiesa e Solidarnosc, dicendo esplicitamente che se l'era cercata. Era la prima volta che uno stato comunista portava alla sbarra dei suoi agenti per un lavoro fatto per il regime. Il pm Pietrasinski nella sua requisitoria difende i tre assassini, dice che hanno eliminato un prete perché la Chiesa non aveva saputo fermarlo, certo avevano esagerato, andavano puniti, «sono andati oltre la legge», ma il prete era un poco di buono, un estremista.
Il ministro dei rapporti tra Stato e Chiesa, Adam Lopatka, aggiunse la sua voce: «È morto perché siamo stati troppo buoni e non l'abbiamo sbattuto in carcere a suo tempo».
Gli atti del processo ci restituiscono l'immagine di due mondi. Uno nascente, pieno di fervore e di desiderio di libertà, capace di pregare, voler bene e lottare. Un altro mondo accanto ma lontanissimo, bravo solo nell'odio, e perciò morente e killer nello stesso tempo. I verbali ci restituiscono gente che in nome dell'umanesimo marxista si siede a tavolino per discutere se buttare un prete dal treno sia meglio che rapirlo, che nasconde 40 chili di grosse pietre nell'armadio per schiacciarvi sotto la testa del prete, che lo picchia selvaggiamente fino a ucciderlo e poi cerca di farne sparire il corpo, che dalla Vistola finì nel lago ghiacciato vicino a Varsavia, ed è così certa della sua impunità da non preoccuparsi di lasciare le proprie tracce.
Be’, noi le abbiamo trovate, e sappiamo ancora riconoscerle.


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