venerdì 5 marzo 2010

PRIMO PIANO - VERSO LE ELEZIONI

.....Una maggiore coscienza dei bisogni reali, che
esistono, e delle grandi potenzialità che ci sono. Per esempio, capisco sempre
di più il grande valore delle piccole e medie imprese come fattore non solo
economico, ma anche culturale per la democrazia stessa; la forza creativa del
mondo degli artigiani; il valore sociale ed educativo delle opere non profit; il
significato paradigmatico delle scuole paritarie per l’introduzione
dell’autonomia scolastica; il conforto reale che mi viene da tante persone che
contribuiscono in modo nascosto, con grandi sacrifici, alla costruzione di
questa società. E desidero, quindi, che tutto questo venga riconosciuto,
valorizzato, potenziato per il bene di tutti. E per questo stiamo
lavorando.......


Un test
dell’esperienza che si vive, quindi.
E un’occasione da prendere sul serio -
con un pizzico di autoironia. Perché siamo servi inutili. Ma servi siamo. In
questo sta quella «ingenua baldanza» di cui don Giussani ci ha parlato, che è
forte e docile e dà respiro alla libertà.




Davide Perillo
Il giornale era praticamente chiuso quando è arrivata la notizia che, dopo il caos delle candidature romane, la Corte d’Appello di Milano aveva escluso - per vizi di forma - anche la lista di Roberto Formigoni dalle regionali in Lombardia. Al momento di andare in stampa non sappiamo ancora che piega prenderà la vicenda: se il ricorso verrà accolto (come sembra probabile) e in che tempi, o se si arriverà a ipotesi assurde che cancellerebbero, di fatto, la competizione elettorale. Lo scenario è tutto da decifrare, insomma. Ma proprio per questo le ragioni per interessarci alla politica che diamo in queste pagine, se possibile, diventano ancora più urgenti. Perché aiutano a comprendere il valore di un patrimonio che è davvero un bene per tutti. E a difenderlo, fino in fondo.



Il test del bene comune

Che cosa c’è in ballo con le regionali? Da dove nascono i criteri concreti per guardare al voto senza fermarsi ai principi? BERNHARD SCHOLZ, Presidente della Compagnia delle Opere, racconta i passi di una «nuova avventura».
Che permette di essere liberi e responsabili nell’impegno. Per scoprire di più se stessi. E il legame tra il proprio bene e quello del mondo

«Cosa ha generato quell’assemblea? Più consapevolezza della positività della vita stessa e, quindi, del lavoro e del grande bene che sono le relazioni fra le persone. Noi tendiamo a ridurre tutto a una misura di interessi reciproci. Lì, invece, c’era a tema una positività originale che dà la possibilità di riscoprire il nesso fra il bene di ogni persona e il bene comune. In un certo senso è stato un invito ad una nuova avventura. Umana e professionale». Ecco, un’avventura. E un bene per sé e per tutti. È questo che c’è in gioco. Bastano due battute con Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere, per riprendere il filo tessuto nell’assemblea di tre mesi fa con don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl, e Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà (v. Tracce n. 11/2009), e arrivare dritti al punto. Stavolta non si parla di impresa e crisi, di individualismo e del rischio di rintanarsi in un “si salvi chi può”. A tema c’è la politica. E le elezioni regionali. Ma il filo è lo stesso, perché il voto di fine mese non è solo una questione di liste, potere, poltrone e tutte le parole d’ordine del politichese che ormai solo a sentirle danno il mal di mare. C’è in ballo molto di più. Un’idea dell’uomo e della realtà. Cioè, in fondo, la chance di scoprire di più le cose e se stessi. E di verificare se l’ipotesi della fede sostiene anche una circostanza così, se permette di affrontarla. Senza rinchiudersi nell’indifferenza. Anzi.
In questi giorni la CdO ha scritto un volantino che sta girando l’Italia, tra incontri, dibattiti, momenti di campagna elettorale vera e propria. Non c’è la parola “fede” né “cristianesimo”, ma è evidente il cuore da cui nascono quei giudizi, che arrivano fino al midollo dei problemi concreti restando lontani anni luce dai cahiers de doléances con cui spesso - quasi sempre - le associazioni si rapportano alla politica. Quelle due pagine sono un piccolo manifesto di realismo. A cominciare proprio dal punto emerso con forza nell’assemblea di fine novembre: la «scoperta che l’io, per natura, ha bisogno di un noi», altro che individualismo. È un dato strutturale, la cosa più essenziale e al tempo stesso più sorprendente. Senza quel nesso non puoi neanche parlare di politica. Eppure non lo ricorda più nessuno. «Vero. In questo momento è come se esistessero solo due fattori: una grande organizzazione statale da una parte e il singolo individuo dall’altra. Noi, invece, insistiamo sul fatto che l’io esiste in quanto relazione, all’interno di una comunità e di una società civile. La persona è rapporto. È questa relazione che le permette di vivere, di esprimersi, di prendere coscienza di sé, di intraprendere giorno per giorno la strada verso la felicità. E che rende possibili anche le attività sociali ed economiche. Dobbiamo partire da lì, se si vuole riprendere il filo del bene comune. E non è affatto scontato».

Perché?
Il bene comune è il bene generato da queste relazioni, e non si può imporlo per legge. Le istituzioni pubbliche lo devono tutelare e valorizzare. E devono intervenire dove i singoli o le aggregazioni non arrivano. Ma c’è un primato netto della persona, proprio in quanto rapporto con gli altri. L’alternativa è un assistenzialismo che indebolisce sempre di più la capacità della persona di rispondere ai bisogni.

E che però, per certi versi, è più comodo, almeno finché tiene la baracca...
...e difatti il sistema non tiene più, come dimostra l’affanno del welfare. L’uomo per sua natura ha bisogno di essere sfidato, “pro-vocato”, cioè “chiamato fuori” di sé per entrare in un rapporto creativo con il mondo. È solo esprimendosi attraverso i suoi talenti che entra in rapporto con gli altri e conosce se stesso. Lo vedo in molti incontri che stiamo facendo proprio in questi mesi. Ci sono tante persone che si interessano della CdO perché qui riscoprono questa possibilità. Nonostante tutti i nostri limiti, tra di noi c’è davvero quella che chiamiamo “un’amicizia operativa” con un “criterio ideale”. E questo colpisce non perché rende la vita più comoda, ma perché la fa diventare più autentica, più realistica e direi anche più gustosa. Per costruire la socialità si può solo partire da una antropologia positiva.

Ecco, «un’antropologia positiva». È un’idea controcorrente, oggi. All’assemblea della CdO veniva fuori con chiarezza, con quei riferimenti all’homo homini lupus. La battaglia tra interessi privati sembra la regola dell’economia, figurarsi per la politica.
Appunto. Oggi siamo schiacciati dall’idea che l’uomo, di per sé, raggiunge la felicità se persegue edonisticamente i suoi interessi, e che quindi deve essere arginato attraverso un’ etica per cercare di limitare gli eventuali effetti devastanti di questa ricerca individualistica. Per noi, invece, non è così. La persona va anzitutto valorizzata per la sua ricerca di una felicità piena e per il positivo che può dare. Poi, certo, bisogna mettere alcune - poche - regole; ma una cosa è preservare una positività dalle tentazioni, una cosa è dominare una reale o presunta negatività. Cosa succede se l’uomo si sente sempre trattato come qualcuno che può fare quello che vuole in un determinato spazio privatistico e ben circoscritto, ma non viene valorizzato per la positività infinita della sua vita e per il bene che può portare? Prima o poi l’uomo che si sente schiacciato reagisce, appunto, istintivamente, quasi per sfogo. È come una self-fulfilling prophecy, una profezia che si autoavvera. Prima si schiaccia l’uomo, poi quando si comporta in modo inadeguato si dice: «Vedi che avevo ragione? Bisogna dominarlo, per il resto basta che consumi e si diverta...». Invece di fare proprio il contrario, di fare emergere la sua positività attraverso delle relazioni che valorizzino tutti i tentativi.

«Far emergere la positività», o «pro-vocare»: non sono sinonimi di «educazione»?
Sì. E l’educazione, per un adulto, avviene soprattutto attraverso un rapporto che lo sfida. Il lavoro stesso è un’educazione, se lo prendo sul serio. L’uomo, affrontando il lavoro, la famiglia o anche la politica, non può non lasciarsi educare. Ogni atto che fa lo invita a prendere maggiore coscienza di sé e del desiderio che cerca di realizzare attraverso le circostanze quotidiane. Ecco, la CdO in fondo vuole fare questo: aiutare la persona ad assumersi le sue responsabilità, ad esprimersi nel miglior modo. Guai a sostituirci a questa responsabilità personale.

Il contrario esatto della lobby, insomma.
“Lobby” è la parola più lontana da quello che vogliamo essere.

Cosa c’entra questo con la politica? Perché anche delle elezioni regionali possono essere l’occasione per questa educazione?
Perché ogni elezione pone una serie di domande. Quali sono gli ideali che devono essere tutelati e valorizzati? Quali sono i bisogni e le emergenze che chiedono una risposta prioritaria in questo determinato momento storico? Quali sono le persone e i raggruppamenti politici ai quali posso dare la mia fiducia, perché facciano del loro meglio per realizzare questo? Bene: chi affronta la politica partendo da una chiave diversa da quella personale ed educativa, non avrà mai un criterio giusto per rispondere a queste domande. Prima o poi cadrà nella trappola di chiedere alla politica la salvezza, per finire poi o deluso e disinteressato o accanito e violento, cercando di rendere la politica salvifica. Non a caso il borghesismo finisce nel privatismo rassegnato o nella ribellione. Oggi si ondeggia ancora fra questi estremi. In questo momento siamo più nella fase del disinteresse - che va di pari passo con una curiosità personalistica, morbosa che sembra apparentemente interessata, ma che non coglie il valore della politica.

Quelle tre domande di cui hai parlato adesso non sono scindibili: non ci si può fermare alla prima, ai principi. Voglio dire: se tengo a una certa concezione di uomo e di libertà, non è indifferente che poi possa scegliere l’ospedale dove andare a curarmi o la scuola dove mandare i figli...
No, non si può. Bisogna arrivare fino in fondo, fino alle scelte concrete. E, infatti, il nostro documento arriva lì, entra nel merito.

Federalismo, federalismo fiscale, welfare, impresa, formazione. Perché avete scelto questi punti?
Si parla di elezioni regionali. E, quindi, di ciò che le Regioni possono e devono fare. Il federalismo sussidiario è fondamentale per i motivi che abbiamo appena detto. Ma è importante anche arrivare a un sistema di welfare che nasca dalla valorizzazione di iniziative private e si basi sulla responsabilità personale di ognuno: altrimenti il welfare stesso è destinato a crollare. Del resto, è quasi una legge: tutte le volte che la politica tradisce il vero valore della persona, come fattore generativo della socialità, finisce in un crollo dell’efficacia. Tutto dipende dal fatto che lavoratori, insegnanti, infermieri, manager, casalinghe, professionisti, medici riconoscano che il loro lavoro ha un valore per loro stessi e per tutte le persone a loro affidate, e che questo venga a sua volta riconosciuto da chi governa la res publica.

E la sussidiarietà? Se sono vere le cose che ci siamo detti, non è solo un principio operativo più giusto: è l’unico punto che permette che la politica esista, perché permette che la persona esista. Senza, non si può fare politica.
È vero. Tanto che esiste il rischio di una pseudosussidiarietà che si limita ad una nuova suddivisione di poteri, ma senza tenere conto che si tratta di valorizzare la persona. È un meccanismo organizzativo, ma non è sussidiarietà. La sussidiarietà deve partire da un io capace di generare. Questo si chiama anche “sussidiarietà orizzontale”, che a ben guardare è quella fondamentale. In questo senso, per esempio, non tutti quelli che parlano di federalismo hanno in mente un federalismo sussidiario.

Altro punto: l’impresa.
Gestita bene, è un contributo importante al bene comune, in termini di occupazione, di servizi, di prodotti, di aiuto al territorio, di relazioni internazionali e di tanto altro. Le Regioni su questo possono togliere lacci e lacciuoli, come in certi casi è già avvenuto. Chiediamo alla politica quello che la politica può fare per tutti, spesso addirittura a costo zero.

Cosa vuol dire «chiedere alla politica»?
Alla politica non chiedo favori o privilegi, ma chiedo a chi ha responsabilità in politica, in base agli ideali e ai programmi da lui presentati, che agisca al meglio delle sue possibilità per sostenere il bene di tutti. Metto anche in conto che dovrà fare dei compromessi - dato il fatto che spesso la politica deve scegliere la via del minor malum -, ma senza mai tradire quei valori fondamentali non negoziabili, che sono vita, famiglia ed educazione. Se chiedo, per esempio, l’introduzione del quoziente famigliare o un abbassamento del peso fiscale, lo chiedo perché corrisponde di più al bene della persona e di conseguenza al bene di tutti. In questa concezione, chi viene eletto non è un esecutore di interessi particolari o unilaterali nella logica del do ut des, e quindi non c’è clientelismo, né in un senso né nell’altro: è un libero rapporto di persone che si assumono le loro responsabilità specifiche, entrando in un dialogo franco e serio orientato al bene comune.

Ma perché tante volte, soprattutto in area cattolica, ci si ferma alla questione dei principi e si ha quasi paura di un rapporto del genere?
Il problema è che ogni volta che prendi una decisione, tu prendi una certa strada che per sua natura è sempre migliorabile. Qualunque decisione politica è approssimativa. Bisogna avere il coraggio di compromettersi con qualcosa che è approssimativo per sua natura. Ma, invece di vedere in questa inevitabile approssimazione un continuo e faticoso avvicinamento ad un ideale, ci si ferma sul limite, sul fatto che non è ancora perfetto. Questa è presunzione. È l’idea che puoi evitare di comprometterti con i limiti, umanamente e socialmente sempre presenti. Non dobbiamo scadere in uno pseudoidealismo massimalista che distrugge la politica, così come la distrugge l’abbandono esplicito o implicito dell’ideale, per l’affermazione di un potere autoreferenziale.

Però la tentazione di questo pseudoidealismo non è solo degli “altri”: è in ognuno di noi...
Certo. In tutti esiste la tentazione di perfezionarsi “a prescindere”. E capisco bene che la giusta accettazione delle condizioni che la vita pone è molto difficile al di fuori di una esperienza cristiana. Perché il cristianesimo fa diventare la persona un soggetto che non dipende più dalle condizioni, ma lo mette proprio in grado di affrontarle in un modo costruttivo: né schiavi, né ribelli, ma liberi e responsabili.

A proposito di principi che arrivano al dettaglio: nel vostro documento non c’è la parola “Lombardia”, ma il riferimento è chiaro. Che cosa c’è di esemplificativo lì? Qual è il valore di questi quindici anni di esperienza di governo Formigoni?
La Lombardia è un grande laboratorio del principio di sussidiarietà. Come, per esempio, la collaborazione fra pubblico e privato nel welfare, dove la pubblica amministrazione stabilisce le regole per l’accreditamento del soggetto privato e poi fa le verifiche stabilite. Un altro esempio è la Dote. Cosa fa? Parte dalla persona come soggetto, che si mette in azione e coglie liberamente le possibilità di formazione offerte dalla società. Non è oggetto di una cura statale. Dalla stessa logica sono nati i voucher per le aziende che vogliono internazionalizzare. Insomma, non c’è una imposizione dall’alto, ma si prende sul serio il bisogno di ognuno cercando soluzioni che mettono in campo gli attori della società civile. Anche se i risultati sono ormai riconosciuti a livello internazionale, sono ancora migliorabili ed ampliabili come tutto nella politica. Ma questo avverrà al meglio sempre all’interno di un dialogo fra i rappresentanti della società civile e i rappresentanti della politica. Nel dialogo, appunto; una caratteristica fondamentale e non un optional della sussidiarietà.

Tu non sei impegnato in politica, ma con la politica: cosa ci stai guadagnando per te?
Una maggiore coscienza dei bisogni reali, che esistono, e delle grandi potenzialità che ci sono. Per esempio, capisco sempre di più il grande valore delle piccole e medie imprese come fattore non solo economico, ma anche culturale per la democrazia stessa; la forza creativa del mondo degli artigiani; il valore sociale ed educativo delle opere non profit; il significato paradigmatico delle scuole paritarie per l’introduzione dell’autonomia scolastica; il conforto reale che mi viene da tante persone che contribuiscono in modo nascosto, con grandi sacrifici, alla costruzione di questa società. E desidero, quindi, che tutto questo venga riconosciuto, valorizzato, potenziato per il bene di tutti. E per questo stiamo lavorando.

Un test dell’esperienza che si vive, quindi.
E un’occasione da prendere sul serio - con un pizzico di autoironia. Perché siamo servi inutili. Ma servi siamo. In questo sta quella «ingenua baldanza» di cui don Giussani ci ha parlato, che è forte e docile e dà respiro alla libertà.


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