venerdì 25 maggio 2012

L'ospitalità, miracolo di Cristo all'opera


Luigi Giussani <br><em>Il miracolo dell'ospitalità </em><br> Piemme
Luigi Giussani 
Il miracolo dell'ospitalità 
Piemme


DA AVVENIRE


di Julián Carrón
25/05/2012 - Un estratto dall'introduzione di don Julián Carrón alla nuova edizione de 
"Il miracolo dell'ospitalità" 
di don Giussani, una raccolta di dialoghi con l'associazione Famiglie per l'Accoglienza 
(Avvenire, 25 maggio)
Perché l’ospitalità è un miracolo? Sembrerebbe la cosa più scontata: aprire la porta 
della propria casa per fare entrare qualcuno dovrebbe essere normale.
Perché, allora, don Giussani la paragona a un fatto miracoloso? 
Perché dovrebbe essere l’esperienza normale di una famiglia, e invece è così eccezionale
 che quando accade tutti ci stupiamo.
Viviamo in un contesto umano, culturale e sociale frutto di una lunga storia, che ha eroso i fattori
 dell’esperienza elementare: uno innanzitutto, cioè l’apertura originale del cuore e la percezione 
della realtà come positiva, come carica di promessa per la propria vita. Nel tempo si è introdotta
 una
 distanza per cui le cose e le persone sono diventate come estranee. È terribile questa affermazione
 di Sartre:
 «Le mie mani, cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli
oggetti e mi separa da essi per sempre» .









Come ha ricordato Benedetto XVI incontrando i fidanzati ad Ancona l’11 settembre 2011:
 «Nel disorientamento,
 ciascuno è spinto a muoversi in maniera individuale e autonoma, spesso nel solo perimetro del presente.
 La frammentazione del tessuto comunitario si riflette in un relativismo che intacca i valori essenziali; 
la consonanza di sensazioni, di stati d’animo e di emozioni sembra più importante della condivisione
 di un progetto di vita. Anche le scelte di fondo allora diventano fragili, esposte ad una perenne revocabilità,
 che spesso viene ritenuta espressione di libertà, mentre ne segnala piuttosto la carenza» .
Proprio in questo contesto una famiglia che apre la propria casa a un bambino o a una persona in difficoltà
 come fanno le Famiglie per l’Accoglienza, dilatando l’orizzonte del proprio affetto a un “estraneo”,
 ha in sé qualcosa di divino che vince quella distanza. Fino al punto che don Giussani la paragona 
con un brano della Lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto
 degli angeli senza saperlo» . E commenta: «Non è che siano angeli: sono più che angeli! Sono figli di Dio,
 parte del mistero della persona di Cristo. […] È come vedere uno che va in giro di notte più fluorescente.
 E la gente si rincuora [...] vedendo o leggendo quel che vivete» .

Questa è la portata di quell’apertura originale del cuore che la fede svela nella sua profondità, rendendo
 possibile un’esperienza altrimenti irrealizzabile, specialmente in un’epoca come la nostra. La promessa,
 infatti, è che sia vinta la frattura descritta da Sartre. E questo ci facilita riconoscere che un fatto come
 le Famiglie per l’Accoglienza non è frutto di una immaginazione umana, perché quella distanza è incolmabile 
dall’uomo con le sue forze limitate per quanto generosamente impiegate.
Condividendo lo sguardo con cui Cristo guarda le persone e le cose, si può entrare nell’arena, accettando
 sacrifici anche duri, come accade a tanti che condividono la vita dei ragazzi e delle persone che sono loro 
affidate. È una testimonianza della natura del cristianesimo: non richiede alcuno sforzo titanico né 
alcuna capacità particolare, perché irrompe nella vita come qualcosa di imprevisto che investe l’io e lo cambia.

È un’esperienza entusiasmante essere invitati a pranzo da una famiglia e vedere Cristo all’opera mentre
 si è a tavola, attraverso i segni di una umanità che tratta tutto in modo nuovo, non ridotto, con una carità 
e una pazienza impossibili all’uomo. E poi con una letizia, pur dentro le difficoltà e le incomprensioni
 quotidiane, che è già la vittoria sul nulla e sulla scontatezza nei rapporti. «Non esiste oggettivamente 
nessun atto più grande dell’ospitalità: da un’ospitalità così radicale come l’adozione, fino all’ospitalità a
 pranzo o all’offerta di un tetto a una persona che passi per Milano anche una volta sola. Una delle cose
 più belle che fra i miei amici ho visto realizzare è questo nesso, questa trama di famiglie disponibili a 
ospitare chiunque» , ricordava don Giussani nel 1985.
L’ospitalità è senza misura e senza calcolo. È, infatti, il comunicarsi di un «pieno» sul quale la vita
 poggia, frutto imprevisto di un’ospitalità che viene prima, come fu per la Madonna: il suo sì
 all’annuncio dell’Angelo ha generato il bene più grande che il mondo potesse desiderare. L’avere accolto 
la preferenza del Mistero nella sua vita, non avere opposto nulla, neppure i suoi limiti e la sua fragilità, 
come facilmente accade a tanti di noi alla scelta di Dio l’ha resa madre del Figlio di Dio, che da duemila
 anni attraversa la storia e raggiunge ciascuno di noi nella situazione in cui ci troviamo. Avremo anche
 noi la semplicità di Maria di farGli spazio, ospitandoLo nel ventre della nostra vita?
C’è qualcosa di più interessante per un uomo e una donna di questa collaborazione all’opera 
del Padre nel mondo, per vincere il vuoto con la forza di una presenza?

La forma di questa collaborazione all’opera del Padre, poi, è libera da ogni schema precostituito
come ci ricorda sempre don Giussani in questa pagina impressionante: «Essere padre e madre è
 buttare fuori un feto dal ventre materno? No! E se un feto fatto da un’altra donna tu lo raccogli a due mesi, 
quattro mesi, cinque mesi e lo educhi, la madre sei tu, nel senso fisiologico e ontologico del termine!
 E se tu fai questo anche senza averlo lì presente perché tuo marito non vuole, oppure perché hai paura
 e non ti senti, anche se lo chiedi a Dio, in quanto conosci un povero bambino che vive male, maltrattato
 da una famiglia non sua, e offri tutta la tua giornata alla mattina dicendo: “Signore, ti offro la mia
 giornata perché tu aiuti quel bambino”, questa è una maternità più fine ancora, più “genetica”
 di qualsiasi altra maternità. Infatti le nostre madri, che sono state madri cristiane, guardavano
 a noi figli così!» .
Auguriamoci che una briciola di questo sguardo diventi anche nostra, per essere protagonisti della
 quotidiana lotta per affermare l’inesorabile positività del reale davanti al nulla che incombe sulle
 nostre giornate, inizio di una umanità nuova.

Da Avvenire, 25 maggio 2012

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