martedì 24 aprile 2007

MEDITAZIONI SETTIMANA SANTA DI PADRE LEPORI


DOMENICA DELLE PALME (Anno C) – Hauterive – 1.4.07

Come si entra nella Settimana Santa?
La liturgia delle Palme, le letture di questa Messa, la Passione secondo san Luca, tutto oggi ci invita ad entrarvi con e attraverso l'umile amore di Cristo, attraverso l'umiltà e la dolcezza del suo Cuore. La Settimana Santa, infatti, è come una grande rappresentazione teatrale dove ci sono molte comparse, ma un solo attore principale: Gesù. Così, tutti gli attori secondari e gli spettatori di tutti i tempi, non possono comprendere ciò che accade, non possono entrare nella trama e nella sostanza di ciò che è rappresentato, se non attraverso Colui che vive tutto ciò da protagonista.

Ciò ha un fondamento teologico: nessuno può sostituire Cristo nella sua Passione, perché la sua Passione è la Passione del solo Salvatore e Redentore dell'umanità. La solitudine di Gesù in tutti i misteri che celebreremo durante questa settimana corrisponde alla sua unicità insostituibile di Figlio di Dio che salva il mondo.

Ma anche ciascuno di noi ha il suo posto sulla scena della Passione del Signore, un posto che Cristo ci invita a prendere, sebbene siamo tentati di fuggire, come tutti i suoi discepoli hanno fatto. Il nostro posto sulla scena della Passione è il posto dei salvati, il posto di coloro che si lasciano salvare dalla Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Se molti discepoli non hanno occupato questo posto sulla scena della Passione, è perché hanno creduto di dover assumere un altro ruolo, un ruolo maggiore, essere loro stessi i protagonisti, essere loro i salvatori di se stessi, degli altri, del mondo e anche di Gesù. «Signore – esclama Pietro – con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte!» (Lc 22,33).

Sulla scena della Salvezza cristiana, nessuno occupa a lungo il posto delle sue pretese. Pietro lo conserverà solo per poco, per quel breve spazio di tempo in cui tre persone riconoscono il suo viso alla debole luce di un fuoco.

Altri, come la Madre di Gesù, Giovanni e Maria Maddalena, seguiranno Gesù durante tutta la Passione, ma appunto perché terranno sempre il loro posto di salvati dalla Croce di Cristo.
E il posto d’onore, alla destra del Signore, lo avrà un ladrone. Anch’egli è appeso a una croce, ma riconosce che non è la sua croce che lo salva, ma quella di Gesù. La sua, è la croce della giustizia. Quella di Gesù, è la croce della Misericordia. «Per noi, è giusto essere condannati: abbiamo ciò che meritiamo!» (cfr. Lc 23,41), spiega al suo compagno ladrone. Invece ha sentito Gesù parlare con suo Padre dei suoi carnefici: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), e in quel momento ha dovuto comprendere che la Croce di Gesù era diversa dalla sua. Allora, crocifisso com’è sulla croce della giustizia, aderisce a quella della Misericordia: si lascia salvare, e ciò cambia anche il senso della sua croce, della croce di cui non è innocente, perché è grazie ad essa, malgrado tutto, che incontra il Salvatore del mondo.

Ciascuno di noi, fratelli e sorelle, è attaccato in un modo o nell'altro a una grande o piccola croce che può essere pesante e dolorosa, ma di cui non siamo mai completamente innocenti. Ciascuno di noi ha la sua «croce del buon ladrone» da portare, o vi è fissato. Questa croce può essere pesante, ma non è ancora essa che ci salva. La grazia di questa croce è di permetterci di sentire il nostro bisogno della Salvezza, di riconoscere che solo Gesù può salvarci, che solo la Misericordia della Croce di Cristo dà un senso alla nostra vita. Allora, affidandoci a Lui così come siamo, il nostro oggi entra già nel Paradiso della comunione con Lui.

GIOVEDÌ SANTO – Hauterive – 5.4.07

Letture: Esodo 12,1-8.11-14; 1 Corinzi 11,23-26; Giovanni 13,1-15

«Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga».
«Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi».

Queste due affermazioni, una di san Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi, l'altra di Gesù alla fine della lavanda dei piedi, hanno in comune l'idea di un irraggiamento. C'è un centro dal quale irradia al tempo stesso la proclamazione dell'annuncio pasquale e la testimonianza della carità cristiana. Dallo stesso centro, dallo stesso fuoco, la Chiesa e ogni cristiano sono chiamati a irradiare nel tempo e nella storia del mondo la testimonianza della parola e la testimonianza della vita. C'è un irraggiamento della verità e un irraggiamento della carità, ma verità e carità hanno lo stesso centro di irraggiamento nell'amore di Cristo che dà la sua vita per noi.

Questo centro, Gesù l'ha concentrato nel sacramento dell'Eucarestia. Tutto il mistero della Chiesa infatti si riassume nel fatto di poter riprodurre costantemente e realmente nel gesto eucaristico l'avvenimento pasquale della passione, morte e risurrezione del Signore, e dunque di perpetuare nel tempo l'istante supremo in cui il Figlio di Dio si è dato totalmente per noi.

Al cuore dell'Eucaristia brucia così un fuoco, il fuoco del desiderio di Cristo di amare e salvare tutta l'umanità, il fuoco della sete di Cristo di dare la sua vita per tutti, della sete del Crocefisso di attirare tutti gli uomini a Sé per dar loro la vita in pienezza. Il fuoco dell'Eucaristia è il «per voi» del sacrificio del Signore: «Questo è il mio corpo, che è per voi». Tutta la persona di Gesù «è per noi». Nel suo «essere per noi», Gesù si consuma totalmente. È questo l'ardore, la fiamma dell'Eucaristia e il centro di tutto l’irradiamento di verità e di amore che la Chiesa e ogni cristiano sono chiamati a trasmettere fino alla fine dei tempi.

«Questo è il mio corpo, che è per voi».
Ciò che il Figlio è per il Padre e ciò che il Padre è per il Figlio, e ciò che lo Spirito Santo è per il Padre e il Figlio, ci è dato nell'Eucaristia, perché il fatto di «essere per gli altri» è la natura dell'Amore trinitario, dell'Amore infinito ed eterno che circola tra le tre Persone della Santissima Trinità. Pronunciando le parole «Questo è il mio corpo, che è per voi… Questo è il mio sangue versato per voi», Gesù ha acceso nell'Eucaristia il fuoco dell'Amore trinitario.

Non dobbiamo allora, permettetemi l'espressione, «congelare» il Pane e il Vino eucaristici, ridurli a delle «cose» che stan lì e basta. L'Eucaristia è sempre una Presenza amante, una Presenza ardente e radiosa dell'Amore divino. L'Eucaristia è sempre Gesù presente per «essere per noi».

Soltanto se custodiamo e coltiviamo la coscienza del Fuoco divino d’amore che abita il sacramento dell'Eucaristia, questo sacramento può diventare per noi la sorgente di una vita nuova. E questa vita nuova consiste nella grazia di lasciar bruciare in noi questo fuoco, affinché i nostri cuori e la nostra vita diventino trasparenti all’irradiamento dell'Eucaristia. È questo che intende san Paolo quando scrive che ogni volta che mangiamo questo pane e che beviamo a questo calice, proclamiamo la morte del Signore, finché egli venga. Il mistero del dono totale di Cristo per noi, realizzato sulla Croce fino alla morte, diventa una realtà che irradia in noi come proclamazione della verità e della carità di Cristo.

È per evitare che i suoi discepoli soffochino subito il fuoco che il mistero pasquale avrebbe acceso nell'Eucaristia, che Gesù fa coincidere l'istituzione di questo sacramento con un gesto provocatorio con cui mostra ciò che voleva dire per Lui «essere per gli altri» nel quotidiano. Il pericolo infatti poteva essere da una parte quello di ridurre l'Eucaristia soltanto a una pratica di pietà, ma dall’altra parte anche di credere che l'amore fino alla fine che si esprime nella Croce si trovi ad un livello assolutamente irraggiungibile per i poveri peccatori che noi siamo.

La lavanda dei piedi mostra ai discepoli che il fuoco dell'amore eucaristico, il fuoco dell'Amore trinitario di Cristo potrà e dovrà bruciare quotidianamente tra loro e in loro. Per Gesù, «essere per gli altri» voleva dire innanzitutto e sempre abbassarsi per servire, prendendo a carico ciò che nell'altro può sembrare meno nobile, meno gradevole, più sporco. Gesù non ha mai chiesto a nessun discepolo di farsi crocifiggere. Ha rifiutato la pretesa di Pietro di morire con Lui. Ma a tutti senza eccezioni, e soprattutto a Pietro, chiede, e perfino comanda come Maestro e Signore, di lavarsi i piedi gli uni gli altri. Gesù non ha detto: «Se muoio in croce per voi, anche voi dovete morire in croce per me e per gli altri». Egli dice: «Se io ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».

L'amore è possibile, l'amore fino alla fine è possibile, anche morire in croce come tanti martiri può essere possibile, ma questa possibilità passa dal gesto più umile e modesto che ci sia, un gesto la cui difficoltà non è nella cosa da compiere (chi non saprebbe lavare dei piedi?!), ma nella conversione della concezione di se stessi che il compimento di questo servizio richiede.

Gesù ci annuncia così che l’irradiamento nelle nostre vite e attraverso di esse dell'Amore infinito e divino che brucia al cuore del suo sacrificio pasquale e che continua a bruciare nel focolare dell'Eucaristia, è possibile, è persino facile, se accettiamo di viverlo nell'immediatezza dell'umile servizio di cui il nostro prossimo ha bisogno oggi.

Allora tutta la vita, anche nelle sue esigenze più umili e fastidiose, diventa spazio in cui ci è dato, come a Pietro, di «aver parte» alla vita di Cristo, al suo «essere per gli altri» divino e trinitario. La vita diventa così spazio eucaristico, spazio di azione di grazie e di comunione che può veramente trasformare il mondo.

VENERDÌ SANTO – Hauterive – 6.4.07

Letture: Isaia 52,13-53,12; Ebrei 4,14-16.5,7-9; Giovanni 18,1-19,42

«Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima».

Questa parola del profeta Isaia aspettava da secoli di venire ad adattarsi perfettamente a Cristo nel momento della sua Passione. Fino a quel momento, tanti uomini e donne erano stati disprezzati, abbandonati, erano stati familiari della sofferenza, del dolore, erano stati rifuggiti come i lebbrosi e considerati come un nulla. Ma mai le parole del profeta erano state tanto giuste, tanto crudelmente realistiche che quando le si poté applicare a Gesù. E, dopo Gesù, l'umanità ha sempre avuto degli uomini e delle donne disprezzati nella loro sofferenza e sofferenti perché disprezzati, ma ormai le parole di Isaia non potranno più staccarsi da Gesù nella sua Passione, tanto che è con Cristo disprezzato e abbandonato che la profezia contenuta in queste parole raggiunge ora i disprezzati e i sofferenti dell'umanità intera.

Sì, nella sua Passione Gesù è stato disprezzato. Il disprezzo fu, se si può dire così, il nocciolo spirituale di tutto ciò che si è fatto subire al Figlio di Dio. Durante tutta la Passione, il disprezzo degli uomini si accanisce contro di Lui. Giuda disprezza Gesù consegnandolo per trenta denari. Le autorità ebraiche e romane disprezzano Gesù facendo di Lui il giocattolo dei loro intrallazzi e della loro sete di potere, o della loro paura di perderlo. La folla disprezza Gesù preferendogli Barabba, il peggiore dei criminali. I soldati Lo disprezzano mascherandolo da re, schiaffeggiandolo, sputandogli in faccia, facendogli subire ogni tipo di maltrattamenti gratuiti, per divertirsi, per ingannare il tempo. Anche Pietro, non ha forse disprezzato il suo Maestro ed Amico giurando che non Lo conosceva per salvarsi la pelle? E poi, tutta la via della Croce, tutte le ore passate attaccato alla Croce furono piene di gesti, di parole, di sguardi, di pensieri e di sentimenti di disprezzo verso Gesù.

Disprezzare vuol dire non dare valore a qualcuno, non riconoscere il giusto e vero valore di una persona. Il contrario del disprezzo è la preferenza. Se si pensa allora a chi che era Gesù Cristo, se si pensa che era Dio, il Figlio del Padre, il Signore dell'universo in cui tutto è stato fatto e in cui tutto sussiste; se si pensa che il vangelo di Giovanni, da cui abbiamo appena ascoltato il racconto della Passione, comincia dicendo che «il Verbo era Dio» e che «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,1.3), misuriamo quanto il fatto di disprezzarlo, di non dargli valore, di «non averne alcuna stima» è un atteggiamento assolutamente assurdo, assolutamente falso, contrario ad ogni verità. Il solo al mondo che non aveva in Sé nessun motivo di essere disprezzato e che aveva in Sé tutti i motivi per essere preferito a tutto, e anche di essere adorato, diventa l'uomo più disprezzato di tutta la storia dell'umanità.

Ma che significa in fondo tutto ciò? Perché Dio l'ha permesso? Perché Dio, in Gesù, si è esposto a tutto questo disprezzo, Lui che aveva tutti i diritti e i poteri di schiacciare il disprezzo degli uomini? Perché Gesù non ha rifiutato tutto questo disprezzo? E dal momento che poteva rifiutarlo, perché allora l'ha accettato e dunque scelto?

Sì, Cristo ha scelto questo posto, questo ultimo posto, il posto e la condizione del disprezzato, di chi è stimato un nulla. Del resto ne aveva parlato un giorno, osservando che tutti gli uomini tendono al contrario a scegliersi sempre il primo posto. Aveva detto: «Quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto» (Lc 14,10).
Perché quest’insistenza sulla scelta dell'abbassamento nell'insegnamento, ma soprattutto nella vita e nel comportamento del Signore?

Il fatto è che vi fu un giorno misterioso, perduto nella notte dei tempi, in cui un uomo e una donna stimarono a tal punto se stessi, che credettero di poter scegliere il posto di Dio. Il peccato originale fu in fondo la scelta assurda di disprezzare Dio. L'uomo, sotto l'istigazione di Satana, ha voluto misurarsi a Dio, mettersi al suo livello e addirittura al di sopra del suo livello. E quando si comincia a disprezzare Dio, come non si disprezzerà il proprio prossimo, il proprio fratello, Abele, e tutti gli altri? È come se il peccato originale, in quanto peccato di disprezzo di Dio, avesse riversato nella storia di tutta l'umanità un diluvio di disprezzo, un torrente di disprezzo che va ad infiltrarsi dovunque, seminando l'odio, l'ingiustizia, la schiavitù e la morte. Se analizziamo tutti i peccati e tutti i mali che regnano in noi e nel mondo, sempre ritroveremo in essi il nocciolo del disprezzo, del disprezzo verso l'uomo generato dal disprezzo verso Dio.

Venendo in questo mondo, venendo a vivere in mezzo ai figli di Adamo ed Eva, il Figlio di Dio, presto o tardi, doveva essere investito da questa inondazione. Ne fu annientato. Contro di Lui è venuto a concentrarsi il disprezzo universale, finché tutto questo disprezzo non lo schiacciò con il suo peso concentrato nella croce e nel suo supplizio. Il disprezzo di Dio da parte dell'uomo ha prodotto la morte, e quando Dio viene verso l'uomo, l'uomo riversa ancora contro di Lui il suo disprezzo, e col disprezzo la morte.

Ebbene, Dio accoglie tutto ciò, Dio assorbe tutto ciò, fino all'estremo del disprezzo, fino alla morte. E che cosa accade? Accade che all’improvviso tutto il valore infinito ed eterno di Cristo, tutta la sua dignità divina e regale viene a manifestarsi nel fatto che accetta di subire il disprezzo degli uomini. È per il fatto che si è lasciato disprezzare che Cristo si impone a noi come la Persona più cara e più preziosa per noi; è perché si è lasciato considerare come un nulla che Gesù diventa tutto per noi.

Allora il profeta Isaia, come se si trovasse già ai piedi della Croce, è come trapassato da una presa di coscienza: non sono solamente gli altri che hanno disprezzato il Servo di Dio: siamo noi, sono io! «Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e noi non ne avevamo alcuna stima».

Questa presa di coscienza è una conversione del cuore. È un rendersi conto che la sofferenza di Cristo non è solo per noi, ma anche opera nostra. Gesù non ha soltanto subito il disprezzo per noi, ma anche da noi.

È solo se prendiamo coscienza di ciò, che la Passione del Signore assume il suo vero senso per noi, perché soltanto allora cominciamo a guardare il Crocefisso con contrizione, ma anche con gratitudine ed amore, perché vediamo che Egli sta trasformando il disprezzo del nostro orgoglio in carità che ci salva. Solamente se guardiamo Gesù sulla Croce mentre subisce come un agnello il nostro disprezzo, possiamo accogliere la grazia di riconoscere che Colui che consideravamo un nulla è Tutto per noi, perché ci ama come nessuno può amarci, e perché utilizza il nostro male per farne il nostro più grande bene.

Fra poco venereremo la Croce. Venerare la Croce è il gesto più controcorrente che un essere umano possa compiere, perché ciò significa riconoscere che il primo posto e il più grande valore spettano a Colui che il disprezzo degli uomini ha messo all'ultimo posto e ha considerato un nulla. Venerare la Croce vuol dire dare il valore supremo al frutto del nostro più grande disprezzo. Venerare la Croce è il gesto che dovrebbe allora esprimere la nostra conversione più radicale. Lo sputo si trasforma in bacio d’amore, il disprezzo in adorazione.

Tutta la conversione che ci chiede la Croce è quella che si lascia condurre, da Cristo e dalla sua grazia, dal disprezzo orgoglioso all'umiltà. L'umiltà non vuol dire soltanto non essere orgogliosi, il che può ridursi a una teoria. La vera umiltà cristiana consiste nel non disprezzare nessuno. L'umiltà cristiana è amore, è carità; consiste nell’esprimere all'altro che è qualcuno per noi, che ha valore per noi, che vale più di noi stessi.

Ma questa umiltà nelle relazioni umane non può nascere in noi se non guardiamo il Crocefisso, se non adoriamo Colui che abbiamo disprezzato e considerato un nulla. È solo guardando verso il Crocefisso, che la grazia della conversione del nostro sguardo sul prossimo può penetrarci.

Dobbiamo ammetterlo: passiamo le nostre giornate a disprezzare gli altri. E sappiamo che questo è per noi come una prigione che ci rinchiude nel nostro orgoglio e nella nostra tristezza. È da questa prigione che abbiamo bisogno di essere liberati, come Adamo, con Adamo, dal profondo degli inferi.
Cristo risorto non ha vinto soltanto la morte, ma anche la radice della morte che è il disprezzo di Dio, con il suo frutto che è il disprezzo degli altri.
La grazia dell'umile amore che irradia dal Crocefisso per trasformare il nostro sguardo su tutti e su ciascuno, è allora la sostanza interiore del rinnovamento del mondo e della sua storia, dal peccato di Adamo fino alla Parusia.

NOTTE DI PASQUA – Hauterive – 8.4.07

Vangelo: Luca 24,1-12

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo?»

Questa domanda degli angeli nel sepolcro vuoto ha una leggera aria di rimprovero. Forse si sono lasciati influenzare dall'atteggiamento un po’ infantile che le tre donne hanno assunto davanti alla loro apparizione: «Essendosi impaurite, avevano chinato il volto a terra». Gli adulti, normalmente, reagiscono in modo diverso: o affrontano la situazione, o fuggono. Le tre donne, al contrario, restano lì, tutte timorose, e non trovano rifugio e difesa se non nel fatto di evitare di guardare il pericolo che le minaccia.

È allora piuttosto con tenerezza e dolcezza che gli angeli rivolgono loro questa domanda imbarazzante: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?». Ma non aspettano la loro risposta – sanno che non ce l’hanno – e si affrettano a farle uscire dalla loro confusione con l'annuncio della Risurrezione: «Non è qui, è risuscitato!».

La formulazione di questo annuncio potrebbe far credere a una specie di cambiamento di domicilio. Ma gli angeli non dicono: «Non è qui, è in Cielo!». Non c'è un luogo dei morti e un luogo dei vivi: c'è un luogo dei morti e c'è Cristo risorto. L'alternativa al sepolcro non è un altro luogo, ma Cristo risorto in persona; l'alternativa alla condizione mortale dell'uomo è la Persona di Cristo risorto, il Vivente per eccellenza.

Gli angeli improvvisano allora una breve catechesi, la prima catechesi pasquale, una catechesi tutta fondata sull'avvenimento di Cristo spiegato dalla sua propria parola: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». E le tre donne, osserva san Luca, «si ricordarono delle sue parole», segno che la catechesi degli angeli era proprio servita a risvegliare in esse la memoria di Cristo. Ogni catechesi dovrebbe suscitare e ridestare la memoria vivente di Cristo che è memoria di Cristo vivente.

Le donne comprendono allora il messaggio di Pasqua: Cristo non è morto per morire, ma per vivere. Non è morto per rimanere tra i morti, ma per risuscitarli.

La catechesi degli angeli ci insegna anche che non si comprende la Risurrezione se non alla luce della Croce, come non si comprende la Croce se non alla luce della Risurrezione. A tutte le domande che ci pone la morte del Signore, risponde la Risurrezione. E a tutte le domande che ci pone la Risurrezione, risponde la morte di Gesù.
E la grande risposta che la Croce e la Risurrezione si rinviano l’una all'altra, come in un dialogo eterno, è concentrata in una sola parola, in una sola realtà: l'amore di Dio, la carità.

Perché la Croce? Perché Dio ci ama. Perché la Risurrezione? Perché Dio ci ama. Dio ci ama fino a morire per noi. Dio ci ama fino a risuscitare per noi.

Ma se la Croce e la Risurrezione si spiegano a vicenda dando alle nostre domande la risposta dell'amore infinito di Dio, insieme ci pongono una domanda cruciale. Che ne è nella nostra vita di tutto questo amore? Se contempliamo il mistero pasquale come il mistero di un amore infinito e totalmente gratuito, non possiamo evitare di chiederci qual è l'impatto, qual è l'influsso che Cristo morto e risorto vuole avere sulla nostra vita e sulla nostra persona.

La risposta è in fondo molto semplice: l'impatto che Cristo morto e risorto vuole avere sulla nostra vita è che noi viviamo del suo amore, che viviamo a partire dal fatto che Egli ci ama fino a morire in Croce per noi. La nostra risurrezione con Cristo vuol dire che non viviamo più a partire da noi stessi, da ciò che siamo o da ciò che non siamo, ma a partire dal suo amore per noi.
Risuscitiamo con Cristo se l'amore di Cristo diventa la sorgente della nostra vita, così come l'amore del Padre è stato la sorgente della vita di Gesù più forte della morte. «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore!» (Gv 15,9): è questo l'impatto del mistero pasquale nella nostra vita, è questo la vita dei battezzati.

La risurrezione della nostra vita consiste così nel vivere della sovrabbondanza dell'amore di Cristo verso di noi che Egli ha espresso sulla Croce.
È da questa sovrabbondanza di amore divino che nasce la bellezza feconda della vita cristiana, che si esprime essenzialmente in due realtà: la comunione fraterna e la testimonianza del martirio. È perché Dio ci ama troppo che i discepoli di Cristo tendono a vivere avendo un cuore solo e un'anima sola, e tendono a condividere tutto come la prima comunità di Gerusalemme (cfr. At 4,32). È perché Dio ci ama troppo che per i martiri il suo amore vale più della vita.

Ma non si dovrebbe uscire da questa liturgia con il progetto di distribuire tutti i propri beni o di morire martiri. È molto più vero e fecondo uscire da questa celebrazione pasquale come le tre donne sono ripartite dal sepolcro vuoto: povere e fragili come prima, ma totalmente afferrate dalla coscienza che la loro nuova vita aveva la sua sorgente nell'amore invincibile di Cristo morto e risorto, e con il solo desiderio di incontrarLo per attingervi.

(Traduzione di Antonio Tombolini
approvata dall’autore)



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