venerdì 4 giugno 2010

LA VOCE UNICA DELL'IDEALE INCONTRO MATURANDI CON DON CARRON

.......Immaginate che quello, diventato zoppo, fosse lì tutto testardo a dire: «No, io voglio andare alle Olimpiadi»; sarebbe una cocciutaggine, un capriccio! Dal punto di
vista vocazionale, don Giussani dice: «La circostanza inevitabile è al mille
per mille con sicurezza assoluta indice della strada da percorrere. Perciò
non esiste nulla di più amico, di più facilmente amico nostro, della circostanza
inevitabile, del fatto». Aggiungo un aspetto fondamentale, una notazione fondamentale: niente è fatalità in questo, il destino non è il fato:
tutto, ma tutto, risulta strumento di vocazione! Tu sei sicuro che facendo
l’atleta potresti raggiungere la tua pienezza e la tua soddisfazione meglio
che attraverso quella circostanza inevitabile? No. Abbracciare questo incidente
come parte del cammino al destino è aspettare curioso come il Signore se la caverà per portarmi alla felicità attraverso il mio essere zoppo.
Ma non introduce un dubbio! Non sono lì a lamentarmi per tutta la vita,
anzi: questa condizione inevitabile diventa elemento fondamentale attraverso
cui il Mistero mi farà raggiungere il destino, l’ideale, la felicità. Se
invece ci fermiamo all’arrabbiatura, sarà la tomba, perché nella vita si possono avere tanti incidenti di percorso che sono inevitabili, ma se noi non
avessimo la possibilità che la vita continui ad avere senso (e pensiamo che
possano raggiungere lo scopo soltanto certe persone con certe capacità),
dipenderemmo soltanto dal caso. Invece qualsiasi circostanza è parte del
raggiungimento del destino, della felicità. E questo è veramente liberante,
perché la felicità non dipende dalla riuscita mondana,ma dal mio servizio
al tutto, al regno di Dio (perciò può essere lo stesso fare il portinaio o il
ministro).
.......




“La voce unica dell’ideale” Incontro di don Julián Carrón con i maturandi di Gioventù Studentesca
Roma, 16 maggio 2010
Amici,questo momento della vostra vita è particolarmente decisivo,perché
in noi, in ciascuno di noi,c’è una battaglia in attotra la «voce unica dell’ideale» (come abbiamo cantato), che tutti sentiamo vibrare dentro di noi, e tutte quelle circostanze che tante volte cercano di schiacciare questa voce, per cui
non sappiamo da che parte andare.


Questa è una lotta che ciascuno di voi vive dentro di sé, e perciò questo momento è particolarmente drammatico,perché scelte come quelle che state per prendere sono determinanti nella vita, perché uno comincia a prendere consapevolezza di tutti i fattori e vede emergere il proprio volto: «Io che ci sto a fare al mondo?».E capisco benissimo il dramma che ciascuno può vivere in questo periodo della vita; è un periodo che ci costringe a scegliere; state per finire, occorre scegliere, occorre incominciare a scegliere, non è che la vita ci aspetta; occorre scegliere, perché non scegliere è già una scelta; di fatto, tutti alla fine delle superiori scelgono, si pongono nella vita con un volto, e c’è questa lotta: «Non fermarti alla corte delle anime nane che ripetono i gesti e non sanno capire. Non salire al castello dei giovani giusti che adorano il sole». Invece l’ideale ci invita a lottare contro questa riduzione. La prima consapevolezza che dobbiamo avere è di questa lotta in atto.



La seconda questione è la strada, sapere la strada per raggiungere quell’ideale,
perché «cammina quando sa bene dove andare».


Ci insegna don Giussani: «Solo nella chiarezza e nella sicurezza l’uomo
trova l’energia per l’azione». Per questo vogliamo aiutarci a chiarire quello di cui abbiamo bisogno per poter vivere, per poterci buttare nella vita, perché è un’esigenza del momento in cui vivete, un’urgenza che nasce nel profondo
del vostro essere, la scoperta che la vita è vocazione.

1)A CHE VALE LA PENA VIVERE?
La prima questione della vocazione, che dobbiamo guardare in faccia,
non è che cosa scegliere, questa è la conseguenza. La prima questione è

quella che urge tante volte ai nostri cuori: «Ma io perché ci sono? Perché sono al mondo? A che vale la pena vivere? A che serve l’io? A che serve il mio io?».

Come vedete, è la questione della vita, la questione fondamentale
di ciascuno di noi. La primissima decisione è prendere sul serio questa
domanda, questa urgenza, perché, come dice R.M. Rilke, «tutto cospira a tacere di noi» per farci agire secondo altri criteri. Fermare questa domanda significherebbe far violenza alla natura dell’uomo, significherebbe uccidere la natura dell’uomo, cioè bloccare il nostro io nel proprio slancio verso la vita. Per questo siamo insieme questa mattina, anzitutto per non bloccare questa domanda, per non bloccare la voce dell’ideale.

Immaginiamo che un pezzo di qualsiasi cosa, per esempio la ruota di una
macchina, si domandasse: «Qual è la mia utilità? Che cosa ci sto a fare
qua?». Lo si potrebbe comprendere soltanto all’interno del rapporto, nel
suo nesso con tutta la macchina, perché ogni pezzo del reale si capisce nel
suo nesso con il tutto. Per questo, se ci domandiamo: «A che cosa serve la mia vita? Che cosa sono chiamato a fare?», la questione è trovare il criterio che ci leghi al tutto, «quel criterio seguendo il quale l’uomo rende se stesso utile al mondo in modo tale da camminare sempre di più verso la sua personalità, verso la sua felicità, [...] non verso la sua perdita».

Attenzione, perché questo è fondamentale: non è che servire il mondo significhi una perdita di noi, ma il servizio al mondo è il guadagno di noi, è la realizzazione di noi.Capire questo è fondamentale, perché tanti pensano che l’unica modalità di realizzare se stessi sia autoaffermarsi (non affermarsi in rapporto alla totalità, bensì in rapporto a sé) e per questo, poi, finiscono da soli in un nascondiglio, domandandosi che senso ha la vita.

Per questo è così decisivo. Per la mia realizzazione io devo capire che cosa sto a fare al mondo, perché senza di questo inesorabilmente mi perdo.Ma come capire
questo? Come capire che cosa sto a fare al mondo?A che cosa sono utile?

Per rispondere a questa domanda occorre capire qual è il senso del mondo, qual è il significato del mondo. E questo, amici, per noi è misterioso: qual è il senso della totalità, qual è il senso del mondo, della storia? Come diceva san Paolo: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi». Sarebbe veramente difficile scoprire il senso del mondo – o, in altre parole,Dio –, e perciò la mia utilità in questo mondo, se rimanessimo nel buio, in questo mistero: «Per tutta la vita la vera legge morale sarebbe quella di essere sospesi al cenno di questo ignoto “signore”, attenti ai segni di una volontà che ci apparirebbe attraverso la pura, immediata circostanza.

Ripeto: l’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze». In termini teologicamente eruditi, san Tommaso afferma: «La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori».

Ma il Mistero ha avuto pietà di noi; vedendoci così smarriti, ha avuto pietà di noi ed è entrato nella storia per rivelarci ciò che noi da soli non possiamo penetrare, è diventato uomo per aiutare gli uomini a essere se
stessi, per svelare il senso ultimo del mondo e aiutarli a capire il
significato della vita.Gesù Cristo ha usato un’espressione per descrivere qual
è il significato del mondo: il regno di Dio.


Tutto il valore della realtà è costruire il regno di Dio, è partecipare alla costruzione di questo regno, cioè partecipare alla costruzione di un mondo che corrisponda all’Ideale che si è fatto carne. Perciò ha dato un contributo fondamentale per capire il nostro posto nel mondo. Il valore mio e il valore tuo stanno nella misura in cui collaboriamo al regno di Dio, nella misura in cui aiutiamo l’umanità a camminare verso la felicità. Perché è soltanto partecipando a questo regno che è il riconoscimento della Sua presenza tra noi – che il singolo può raggiungere la propria felicità, il proprio compimento.

Su ognuna di queste frasi voi dovete lavorare chiedendovi: è vero o non
è vero? Non è che adesso ripetete le frasi come una sequenza logica e il
problema è finito; no!Voi dovete domandare, perché altrimenti non capirete
la portata di quello che ci diciamo e dopo deciderete a vanvera perché
non avete capito. In questi passaggi si gioca veramente la vita. Perciò, questo
è un momento prezioso, fondamentale, per fare un salto nella consapevolezza
di chi sono io, di che cosa sto a fare al mondo e qual è il senso
del mondo.


«Per la scelta della vocazione, dunque, il criterio non può essere che uno:
come io, con tutto quello che sono spiritualmente e intellettualmente,
come temperamento e come educazione e come fisico, posso servire di più
il regno di Dio».

2) LA SCOPERTA DELLA VOCAZIONE

Come posso capire i segni che mi consentono di chiarire come io posso
servire di più il regno diDio?Devo individuare quel complesso che io sono
per poter capire come posso usare tutto quello che ho, tutto quello che mi
trovo addosso e che mi è stato dato, per l’utilità del regno di Dio.

Prendo quel che dice don Giussani e lo suddivido, per chiarezza, in tre
grandi criteri.

Il primo criterio da guardare è il complesso di inclinazioni o doti naturali.Ciascuno di noi si trova addosso una serie di capacità, desideri, impeti,un temperamento. Sono doni preziosi che dobbiamo mettere al serviziodi qualcosa d’altro. Ci sono dati, tutti questi doni, per qualcosa nella
vita, per usarli, per vivere: come io posso usare tutti questi doni che il
Signore mi ha dato per servire di più il regno di Dio? «Per esempio, c’è un
temperamento di intelligenza che sembra scemo quando si applica alla
matematica ed è genialissimo quando si tratta di costruire [...] un racconto:
è un genio letterario, che in matematica sembrerebbe scemo. Se lo forzano
a fare il Politecnico, gli impediscono un rendimento per l’umanità».
Se ci sono il professore, il padre, la madre, il bambino, la tata, il cane che
dicono: «No, tu devi fare il Politecnico», ti “ammazzano”. Sembra banale,
non potrai essere contento, non potrai rendere, non potrai servire; tu non
hai trovato il tuo posto al mondo e per questo sarai fregato, perché tu scegli
qualcosa dal di fuori non avendo fatto i conti con i tuoi doni. «C’è, per
esempio, un tipo che è geniale nell’arte musicale. Se lo si costringe a fare
Diritto Pubblico e Privato, certamente si diminuisce il rendimento per
l’umanità di quell’individuo, e quindi si rende più pesante il suo cammino,
ché le due cose coincidono sempre. L’intensità o la bellezza... la bellezza
del cammino – siccome la bellezza è lo splendore del vero – coincide
con l’utilità che realizziamo nel mondo [...].
La bellezza del cammino corrisponde all’avverarsi della nostra vocazione.
Quindi, per individuare questo condizionamento [questo complesso di doni ricevuti, di inclinazioni, di doti], innanzitutto occorre l’attenzione alle proprie doti naturali, o capacità [a quello per cui io ho una tendenza, ho una facilitazione, ho un genio]. Come si chiama quel fenomeno che porta a galla le doti, le capacità naturali?
Si chiama “inclinazione”, l’inclinazione. [...] La natura ci
introduce agli ideali,ma sempre attraverso un gusto o una inclinazione, al
piacere, o al bisogno. [...] Perciò, la prima grande regola pratica è [...]la semplicità», la sincerità di guardare e riconoscere e abbracciare questi doni come il primo segno che la realtà mi offre per capire che cosa ci faccio io nel mondo. L’errore più grave che si può commettere nel determinare
la propria vocazione «è il porsi in una condizione di diffidenza verso le proprie inclinazioni, verso il gusto, verso il piacere in quanto è autentico,
[…] in quanto è nativo».

Possiamo riassumere: le doti, il temperamento,le tendenze da cui siamo costituiti sono quelle che dobbiamo guardare perché sono ciò attraverso cui il Mistero ci chiama, dandoci queste capacità, queste inclinazioni dentro la carne; non ci manda un angelo,ma ci plasma dentro le nostre viscere per dirci a che cosa ci chiama, perché è Lui che ci ha fatto così. Perciò anche l’orientamento professionale,
per esempio, dovrà tener conto di queste tendenze native come il modo per incamminarsi dove Dio, attraverso le capacità che ci dona, ci chiama.
Ti chiama, ma ti chiama non dall’esterno, ti chiama dandoti tutte queste
inclinazioni.



Secondo criterio
:

le condizioni inevitabili o le circostanze inevitabili.Dice don Giussani che «la circostanza inevitabile è certamente – come dire? – la cosa più amica che abbiamo al mondo, perché è il fattore più evidente della nostra esistenza. Perché nella valutazione delle nostre inclinazioni e delle nostre doti, spesso c’è la possibilità dell’incertezza, o la paura»…Non tutti sono Mozart e hanno la chiarezza dei doni e delle doti così chiaramente dall’inizio; a volte non è così evidente, mentre le circostanze inevitabili sono evidenti e uno, per esempio, può voler fare astronomia perché è veramente dotato per questo, ma – pensiamo – per una circostanza familiare,
per mancanza di risorse, una circostanza veramente inevitabile, non può farlo, perché la famiglia ha avuto un crollo economico con la crisi. Allora risulta che deve andare a lavorare. Circostanze inevitabili determinano la possibilità o no di fare certe cose: uno vuole fare ciclismo o andare alle Olimpiadi perché è veramente dotato atleticamente,ma ha un incidente e rimane zoppo. Per capire che cosa sta a fare al mondo la prima mossa non è arrabbiarsi, ma accettare questa circostanza inevitabile.

Immaginate che quello, diventato zoppo, fosse lì tutto testardo a dire: «No, io voglio andare alle Olimpiadi»; sarebbe una cocciutaggine, un capriccio! Dal punto di
vista vocazionale, don Giussani dice: «La circostanza inevitabile è al mille
per mille con sicurezza assoluta indice della strada da percorrere. Perciò
non esiste nulla di più amico, di più facilmente amico nostro, della circostanza
inevitabile, del fatto». Aggiungo un aspetto fondamentale, una notazione fondamentale: niente è fatalità in questo, il destino non è il fato:
tutto, ma tutto, risulta strumento di vocazione! Tu sei sicuro che facendo
l’atleta potresti raggiungere la tua pienezza e la tua soddisfazione meglio
che attraverso quella circostanza inevitabile? No. Abbracciare questo incidente
come parte del cammino al destino è aspettare curioso come il Signore se la caverà per portarmi alla felicità attraverso il mio essere zoppo.
Ma non introduce un dubbio! Non sono lì a lamentarmi per tutta la vita,
anzi: questa condizione inevitabile diventa elemento fondamentale attraverso
cui il Mistero mi farà raggiungere il destino, l’ideale, la felicità. Se
invece ci fermiamo all’arrabbiatura, sarà la tomba, perché nella vita si possono avere tanti incidenti di percorso che sono inevitabili, ma se noi non
avessimo la possibilità che la vita continui ad avere senso (e pensiamo che
possano raggiungere lo scopo soltanto certe persone con certe capacità),
dipenderemmo soltanto dal caso. Invece qualsiasi circostanza è parte del
raggiungimento del destino, della felicità. E questo è veramente liberante,
perché la felicità non dipende dalla riuscita mondana,ma dal mio servizio
al tutto, al regno di Dio (perciò può essere lo stesso fare il portinaio o il
ministro).



Terzo criterio:

il bisogno sociale, o meglio, il bisogno del mondo e della comunità cristiana.Dovete guardare in faccia il mondo in questo momento storico: che bisogno ha? La Chiesa, che bisogno ha? La comunità cristiana,che bisogno ha? Ciascuno deve guardare che cosa percepisce come più urgente, perché ci possono essere epoche e situazioni in cui l’urgenza di una dedizione totale a Dio è più forte, in un altro momento è più decisivo che ci siano uomini in mezzo alla realtà, nel lavoro, nella famiglia, che possano testimoniare dall’interno delle viscere della società dove tutti vivono
che cos’è la vita, qual è il senso del vivere.Anche così noi possiamo scoprire
a che cosa siamo chiamati.

«Il giudizio deve scaturire dal complesso di questi fattori messi insieme.
Ma questo comporta un’altra considerazione: senza riflessività e senza un
paragone – il paragone dialogico – con la comunità nella sua funzione
tipica, cioè con chi guida la comunità, è inevitabile che il nostro modo di
procedere sia istintivo e meccanico. Per tutte le cose noi riflettiamo,mentre
per questo, da cui dipende tutta la strutturazione della nostra vita nel
suo valore più personale, lasciamo fare automaticamente quel che sentiamo
dentro. Occorre riflettere; e riflettere significa paragonarsi al proprio
destino, al proprio fine, a Dio, allo scopo della vita, al servire il regno di
Dio. Chi ha ancora il problema intatto deve sentire il dovere di recuperare
immediatamente questi criteri; e chi ha alle spalle fattori ineliminabili,
anche lui, sia pure in altro modo, deve recuperare gli stessi criteri»
.

Immaginate di vincere al lotto, guadagnate qualche milione; la cosa normale
è domandare a qualcuno dovemettere i soldi per non perderli facendo
un investimento folle, no? Domandare non è un dovere,ma è un interesse:
mi interessa fare questo paragone per non perdere i soldi.Certo, alla
fine decido io,ma mi piacerebbe decidere con tutta la consapevolezza per
metterli a frutto al meglio. Se questo succede con i soldi, immaginate che
cosa succede con la vita: voglio essere sicuro di aver presente tutti quei fattori
che mi consentono una decisione completa, perché la ragione è la
consapevolezza di tutti i fattori.



3) LA SCELTA DELLA VOCAZIONE

Con tutto questo sono due le questioni fondamentali da decidere, due
sono le scelte fondamentali che ciascuno di noi è chiamato a fare nella vita.
a) La vocazione come scelta dello stato di vita
Ci sono due stati di vita fondamentali: uno è quello «normale», naturale,
di porsi, cioè, di fronte a Dio attraverso la mediazione di un’altra persona

Che cosa vuol dire porsi davanti a Dio attraverso la mediazione di
un’altra persona? Che, innamorandoti, la persona che più ti fa vibrare, che
più ti apre, che più ti rilancia, che più ti richiama a qualcosa d’altro è
mediatrice: tu sei chiamato ad aprirti alla totalità attraverso questo fatto
che ti è capitato, che ti trovi addosso. Se Dio ti dona quella persona, non è
per bloccarti lì,ma per aprirti di più al Mistero, per aprirti di più a quella
totalità per cui tu sei fatto: allora incominci ad avere qualche segno di qual
è la vocazione a cui Dio ti chiama. Tu cammini verso il Destino attraverso
una mediazione, nella compagnia della mediazione di un altro o di un’altra.
In questo senso uno segue la grande legge che unisce l’uomo a Dio
attraverso la realtà mondana, e uno così dice: «Io con questa persona vado
in capo al mondo», vado al destino, sono chiamato ad andare al destino
con essa perché mi richiama di più allo scopo della vita. Non è che questa
persona mi possa rendere felice, perché non mi renderà felice – attenti, perché
in questo sbagliate sempre –, in quanto il mio desiderio è troppo grande
e dove questo si mette più in evidenza è proprio qui: nessuna persona ti
fa ridestare tutto il desiderio di felicità come quella persona lì,ma allo stesso
tempo nessuna è più incapace di compierlo come quella persona lì. Per
questo non si deve rimproverare al marito o alla moglie questa incapacità,
ma capire che essa è parte della vocazione, che quella persona ti è data per
ridestare tutto il desiderio di camminare insieme verso Colui che lo compie


(per questo è una vocazione, perché è la possibilità di raggiungere il
destino). Se tu, invece, identifichi il destino con quella lì e ti blocchi, succede
come a tutti: «Ah, adesso so perché sono nato». Quale diventa nella
vostra testa l’utilità per il mondo? Volere questa qua, punto! «Perché devo
andare oltre? Perché devo aprirmi oltre?». Dopodiché soffocano e si separano
perché non ne possono più: tanto sono fatti l’uno per l’altra che non
ne possono più! Se facciamo questo errore, finiamo come vediamo che
finiscono tanti adesso, perché non capiamo la natura dell’esperienza amorosa,
di quello per cui il Mistero ci fa così: per aprirci di più a Colui che può
riempire la vita. «Nell’ambito cristiano la realtà di questo stato [che è fare
una famiglia] è fondamentale perché ad esso viene affidata la possibilità
stessa del prolungarsi del regno di Dio nel mondo [attraverso i figli]».


Ma nella vita della Chiesa c’è un altro stato di vita, che è quello della verginità,
«che costituisce anch’essa una funzione fondamentale e che apparirà
anche più chiaramente se noi recuperiamo il motivo ultimo ed esauriente
per cui ci si offre a Dio: questo motivo è l’imitazione di Cristo [Cristo, il
Mistero fatto carne, ha messo nella storia una modalità di essere utile al
regno di Dio che è vivere per questo regno, vivere per fare la volontà di Dio
dando tutta la propria vita a questo: è proprio quello che ha fatto Gesù, che
non ha fatto una famiglia, ha dato tutta la sua vita a questo].

L’imitazione di Cristo è la legge di tutti i cristiani, però nella scelta di uno stato di questo genere essa oggettivamente tocca il suo vertice [una vocazione alla verginità tocca il suo vertice], perché è l’imitazione dello stato di Cristo nella
sua pienezza. Lo stato di Cristo nella sua pienezza era un rapporto col
Padre che, da un certo punto di vista, come persona, non era mediato da
nulla [così come nel matrimonio il rapporto con il Padre è mediato da un
altro, qui il rapporto con il Padre non è mediato da nulla]».

Coloro che sono chiamati a questo stato sono chiamati a un rapporto unico, immediato,
diretto, con il Mistero.Questa è la verginità: Dio chiama,Dio introduce
nella vita un seme, un’esperienza del vivere tale per cui ti rende così pieno,
così grato, ti rende possibile un’esperienza di vita per cui dici: «Io voglio
questo», e questo ti rende libero per dare tutta la vita, non per mutilarla. È
per una pienezza, non prima di tutto per un sacrificio, è per l’essere stato
affascinato da Cristo che uno può sentire l’urgenza di dargli tutto: «Io sono
per te, Cristo». Attenzione, nessuno pensi a questa strada per altro motivo
che non sia questa pienezza! Non è perché è più perfetta, non è perché è
più bella, no; è che uno vive sospeso su un pieno e non vuole perderlo per
nulla al mondo, tanto è vero che le persone che se lo trovano addosso forse
avevano pensato all’altra strada,non avevano mai pensato a questa, e si trovano
addosso una tale pienezza che dicono: «Questo è troppo, troppo bello
per non seguirlo». Per questo dice don Giussani: «Cristo, con la sua verginità,
non era un mutilato. Perciò il concetto di rinuncia, se indica il riverbero
psicologico che l’esistenza genera in quel caso, dal punto di vista del
valore, dal punto di vista ontologico non è rinuncia a qualche cosa, ma è
l’addentrarsi in un possesso più profondo e più finale delle cose. La verginità
di Cristo era un modo più profondo di possedere la donna, un modo
più profondo di possedere le cose. Questo ha avuto, per così dire, il suo
compimento nel fatto della resurrezione, attraverso la quale Cristo possedette
tutte le cose come noi le possederemo alla fine del mondo. In questo
senso la verginità, nell’ambito della comunità cristiana, è la situazione
paradigmatica, esemplificativa, ideale cui si devono riferire tutti»
.

È il paradigma, l’esempio, l’ideale non di un non-possesso, bensì di un possesso
più vero.L’altro giorno, nella pausa della lezione in Cattolica, è venuta una ragazza
che, dopo anni di fidanzamento,mi ha detto: «A me piacerebbe tornare a quel primo momento, a quel primo barlume del rapporto con il mio moroso», quando ancora non si erano sfiorati: questa è la verginità! E perché questa ragazza dopo anni ha ancora nostalgia di quell’istante?


Perché tutto ciò che è successo dopo non ha ricreato neanche un brandello della
pienezza che aveva sperimentato allora.Questa ragazza è ancora fidanzata,
ma desidera questo, desidera un possesso dell’altro così, e l’essere posseduta
dal suo ragazzo così, come in quel primo commovente istante.
La verginità è un modo più profondo di possedere la donna, un modo più profondo
di possedere le cose. E oggi, che è l’Ascensione, è la festa di questo:
quando Cristo risorto è entrato nella profondità delle cose, possedendole.



Anche noi le possiederemo alla fine del tempo, è un compimento vero
affettivamente parlando, perché è quello a cui sono chiamati tutti:

«La verginità, dunque, nella vita della Chiesa [nel regno di Dio], rappresenta la funzione suprema, tanto è vero che la storia della Chiesa ha identificato la testimonianza nelle sue forme supreme in due punti: la verginità e il martirio.

La verginità, nell’ambito della comunità cristiana, costituisce funzione e testimonianza al fine della vita». In essa possiamo gridare a tutti:
«Guarda che ciò per cui tu ami la tua morosa, il tuo moroso, ciò per cui ti sposi, ciò per cui hai figli ha un nome che ti grido con la mia vita: Cristo.
Ed è possibile ciò per cui tu sei fatto avendo la moglie e i figli, esiste,
te lo testimonio.

Perché? Perché io ho dato la vita a questo e la mia vita non esisterebbe, non
ci sarebbe se non ci fosse Lui. Sarebbe impossibile se Cristo non fosse
entrato nella storia e ci avesse affascinati così tanto per poter vivere di Lui».

Quale delle due strade abbracciare, allora? «La scelta tra l’una e l’altra
strada non può essere una “creazione”nostra,ma deve essere una “ricognizione”
nostra. Dobbiamo riconoscere qualche cosa per cui siamo stati
destinati. Non deve essere una decisione nostra nel senso che la nostra
volontà costruisca la propria posizione, ma nel senso che la nostra libertà
aderisca alla indicazione che ci segna la strada».


Allora la questione fondamentale per la scelta della vocazione è educarci al Mistero, educarci a essere tutti spalancati, tesi a scoprire i segni attraverso cui io posso capire a che cosa sono chiamato.
E questo tante volte è complicato, amici. Perché siamo fatti per il “dunque”,
dobbiamo arrivare alla chiarezza e perciò vogliamo accelerare il cammino quando non ci è ancora chiaro – ci sentiamo addosso uno strano disagio,un’impazienza –. Siccome questa posizione è vertiginosa, vogliamo superarla subito e tante volte sbagliamo; invece di aspettare che vengano fuori i segni attraverso cui il Mistero mi dà tutte le indicazioni a cui obbedire,o decidiamo noi o facciamo decidere a un altro. Perché la strada è, in fondo, un’obbedienza; è un’obbedienza che ha dentro tutto quello per cui io sono stato fatto, che tiene conto di tutti i fattori che mi rendono veramente
me stesso, non è una decisione “mia”.


La vocazione come scelta della professione

Tutto quanto abbiamo detto ci aiuta a capire anche la strada della scelta
della professione da svolgere, ma vorrei sottolineare fondamentalmente
una cosa. «La concezione moderna della vita mai si dimostra così lontana
dallo Spirito di Cristo come in questo punto. Il criterio con cui la mentalità
di oggi abitua a guardare l’avvenire fa centro il tornaconto, o il gusto, o
la facilità dell’individuo. La strada da scegliere, la persona da amare, la professione da svolgere, la facoltà cui iscriversi, tutto è determinato così da erigere a criterio assoluto l’utilità particolare del singolo. E ciò appare talmente
ovvio e scontato che il capovolgimento del richiamo sembra, anche a
troppi galantuomini, una sfida al buon senso, una infatuazione, una esagerazione.


Sono accuse ripetute anche da educatori che si sentono cristiani,
o da genitori peraltro preoccupati della buona riuscita umana dei figli. I
giudizi nelle situazioni private e pubbliche, i consigli per ben vivere, gli
ammonimenti o i rimproveri, tutto è detto da un punto di vista da cui è
totalmente assente la devozione al tutto e la preoccupazione del regno, ed
esiliata la realtà di Cristo».

Possiamo essere di Gs, possiamo aver incontrato Cristo, ma nel momento decisivo delle scelte fondamentali Egli non c’entra nulla. Perciò è drammatico questo momento, soltanto a dirlo mi vengono i brividi; immagino che brividi verranno a voi che dovete scegliere, tanto è contrario a tutta la mentalità in cui siamo immersi.

Capite perché è una lotta? La lotta in noi è tra seguire la voce unica dell’ideale
(che sia quella a indicarci la via) o farci inghiottire dalla mentalità
del mondo. Se non ci diciamo questo, non siamo amici; io ve lo dico perché
vi sono amico, perché la questione è lo scopo della vita, la questione è
che cosa stiamo a fare qua. Se noi, in questomomento-chiave della decisione,
non colleghiamo la scelta della professione a che cosa stiamo a fare qua,
ci perdiamo per strada. «“Che cosa il tutto potrà darmi? Come ottenere il
più possibile vantaggio dal tutto?”: questi sono i criteri immanenti della
saggezza più diffusa e del buon senso più riconosciuto. Invece la mentalità
cristiana travolge quelle domande, le contraddice, le mortifica, e rende
gigante proprio l’imperativo opposto: “Come io potrò donarmi con quel
che sono, servire di più al tutto, al regno, a Cristo?”.Questo è l’unico criterio
educativo della personalità umana come l’ha redenta la luce e la forza
dello Spirito di Cristo»24.


«Nella scelta del lavoro e della professione deve venire a galla quella terza
categoria cui è stato accennato [prima]: i bisogni della società.Ma per il cristiano
questi non possono essere un criterio isolato da un altro concetto più
profondo: il bisogno della comunità cristiana». Allora che significa in
fondo questa disponibilità se non prontezza, disponibilità alla vocazione? È
questo che dobbiamo chiedere: che il Signore ci dia la grazia di vedere tutti i segni che ci consentano di identificare la vocazione in modo tale da non sbagliare la strada e di renderci disponibili – perché a volte possiamo vederlo con una chiarezza solare e non essere disponibili –.

«La profonda disponibilità di tutta la propria vita nel servizio al tutto è
di estrema importanza proprio anche per comprendere quale sia la funzione
che si è chiamati a svolgere, quale sia la personale vocazione»26. Perché la
vocazione, amici,non è un comando,nessuno vi comanda niente qua, questa
mattina, neanche Cristo ha dato un comando; è un suggerimento, un
invito, una possibilità intravista, e vi lascia tutta la libertà. Dopo quanto
abbiamo detto, tutta la libertà, drammaticamente, è nelle vostre mani.


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