giovedì 17 giugno 2010

LA MEDICINA E' RISPOSTA A UNA DOMANDA;E LA SCUOLA FORNISCE CONOSCENZA PERCHE' CI SIA LIBERTA'

......Certo, “curare” la diversità per vendere prodotti è immorale, ma l’errore capitale è la traslazione dell’idea di uguaglianza dal piano ontologico a quello fenomenico: del resto, se la vita è solo realtà intramondana, non serve nessuna ontologia… C’è una lunga strada da percorrere assieme, attraverso il confronto libero tra esponenti di diversi saperi, mantenendo una sana curiosità interiore, proprio come mastro Geppetto, che di fronte a una vocina flebile che usciva da un pezzo di legno ne cavò un burattino e poi un uomo, non una semplice gamba di legno ben tornita da vendere, come voleva fare mastro Ciliegia. In fondo il problema è lo stesso da millenni: rendere gloria al Signore del roveto ardente o al vitello d’oro?......


tratto da Tempi
Distratti discoli o disturbati?
«Chi fa di ogni nostra “diversità” una “malattia” sbaglia (o magari vuole venderci qualche rimedio). Ma la medicina può contribuire alla nostra felicità. Anche a scuola. È il caso dei Dsa e dell’Adhd», scrive il dottor Molteni al professor Israel [che in calce gli risponde]
di Massimo Molteni

Gentile professor Israel, spesso lei parla di “medicalizzazione” della scuola come irrefrenabile tendenza a definire e catalogare anomalie funzionali in “sindromi”, per sottoporle a “processi diagnostici e di cura”, e cita spesso il caso dei disturbi specifici di apprendimento (Dsa) e della sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) quali “epifenomeni” di questa degenerazione concettuale. In realtà si dovrebbe parlare più propriamente di “medicalizzazione della vita”, in quanto molte “diversità” funzionali e strutturali, probabilmente meglio comprensibili se ricondotte alla logica della biodiversità, sono state definite “malattie” e attorno ad esse si è costruita una vera e propria industria.

Un esempio per tutte: la ipercolesterolemia, dove il valore massimo di riferimento il cui superamento è ritenuto a rischio di conseguenze nefaste sulla salute, ossia sulla vita delle persone, si è notevolmente ridotto nel tempo, aumentando a dismisura la platea degli affetti dalla “malattia”, tutti potenzialmente interessati al mercato dei prodotti che riducono il livello di colesterolo nel sangue, siano essi farmaci o integratori alimentari.
Andando oltre nella riflessione, anche il concetto di disabilità che ha coniato l’Oms dovrebbe far riflettere sul piano epistemico, ma sembra che nessuno ci faccia caso. La disabilità è stata definita dall’Oms (tra il plauso generale) come «restrizione della partecipazione sociale», dovuta a menomazioni che affliggono un organo o un apparato, con conseguente compromissione delle relative funzioni, in relazione all’età di sviluppo e alle condizioni socio-culturali di riferimento per l’individuo affetto. A ben vedere, tutti hanno e possono avere una «restrizione della partecipazione sociale», almeno transitoria, su cui i sistemi di welfare devono intervenire. Il concetto su cui si fonda l’assunto presuppone una “norma” di riferimento standard, la “capacità di partecipazione sociale” ovviamente da “misurare” con scale di valutazione, definita a priori come livello medio da garantire a tutte le persone: al di là delle umoristiche pretese di misurare partecipazione e disfunzione, è il fondamento epistemico che dovrebbe lasciare perplessi. Infatti, sembra proprio che l’assunto di base sia la convinzione che esista la possibilità di uno stato di felicità, tutto intramondano, governabile con “meccanica precisione” e quindi da garantirsi a tutti gli abitatori del mondo grazie agli sforzi della tecnica, della scienza e della ingegneria sociale: il welfare.


Legittime aspirazioni e utopie

Ma anche l’idea che l’“emergenza educativa” – di cui lei spesso parla – sia un compito primario della scuola va nella medesima direzione: una istituzione, gli esperti (gli insegnanti), un metodo. Con un obiettivo forse meno altisonante rispetto alla garanzia della felicità, ma non meno impegnativo e sicuramente coessenziale ad esso: garantire le competenze giuste per poter ottenere il miglior risultato nel mondo del lavoro, favorire così lo sviluppo (economico) e implementare la “catena del valore”, condizione prima della felicità intramondana.

La questione quindi non è la “medicalizzazione della scuola”, ma la strumentalizzazione delle conoscenze per raggiungere obiettivi – la felicità – solo parzialmente raggiungibili attraverso la potenza tecnologica dell’uomo, di cui la tecno-scienza è un epifenomeno. La felicità, peraltro, e anche il benessere, sono aspirazioni profondamente umane e legittime: guai se non ci fosse questa tensione al loro raggiungimento. È l’illusione di un loro perseguimento tutto interno al mondo, è la loro trasformazione in obiettivi misurabili, il limite, a un tempo dionisiaco e tragico, che ha travolto tutti, atei (devoti o meno) e credenti.

Le conoscenze anche scientifiche, pur limitate e parziali, sono e possono essere di aiuto al perseguimento della felicità possibile, anche se applicate al campo dei disturbi di apprendimento. Perché le maggiori conoscenze sul funzionamento dei meccanismi neurofisiologici e neurobiologici non dovrebbero essere utili, se riescono a indicare le modalità (didattiche o di aiuto, anche abilitativo o specifico) attraverso le quali ottenere una migliore funzionalità nei processi di apprendimento? Trasportare carichi attraverso carri muniti di ruota anziché sulle spalle ha reso possibile anche a persone costitutivamente più gracili di poter far fronte meglio alle proprie necessità. E se poi, oltre a loro, ne hanno usufruito anche i “non gracili”, non è stato un gran male.

Schematico è il sistema di welfare

Certo, conoscere non vuol dire classificare e distinguere tra “normale” e “patologico”, ma questa è una conseguenza distorta, legata all’organizzazione dei sistemi di welfare, che impongono di distinguere chi è malato e chi no, chi è curabile e chi no, nell’intento, probabilmente legittimo, di definire a chi sono dovute le cure e a chi no.
Perché la sanità deve solo “curare” le malattie? La scuola deve forse solo insegnare le competenze specifiche o non anche educare? Di certo l’educare è compito di tutti, nella quotidianità, e non solo della scuola: quindi la scuola non dovrebbe avere il compito di educare, perché è compito di altri? Anche la “sanità” può avere il compito e il dovere di mettere a disposizione tutte le conoscenze che man mano scopre per migliorare le opportunità di benessere: aiutare a valutare e a comprendere il perché delle diverse modalità di apprendimento o di reazione agli stimoli esterni, perché deve essere un errore? E suggerire metodi e strategie di possibile aiuto è forse una colpa? È una colpa, se viene fatto da persone che operano in sanità, invece sarebbe virtuoso se fatto da persone che operano nella scuola?

Neanche il Pil ha un metro obiettivo

O la colpa è l’uso, ritenuto improprio, di risorse pubbliche? Ci sono, senza dubbio, molti sprechi di risorse, ma ridurli è un compito umoristicamente riduttivo e assai discutibile se non è chiaro quale fine si persegue: in fondo, perché usare risorse pubbliche per aiutare ragazzi con Dsa deve essere uno spreco mentre non lo è destinare quelle risorse allo sviluppo economico? Entrambi gli obiettivi mirano alla crescita del benessere. Il problema è semmai l’efficacia dell’investimento e come “misurare” i risultati: tra la veridicità di un indicatore di Pil e l’attendibilità di una prova Mt (serve a individuare la dislessia, ndr) non ci sono grandi differenze. Anzi, forse la misura più attendibile è proprio quella delle prove Mt.

Certo, “curare” la diversità per vendere prodotti è immorale, ma l’errore capitale è la traslazione dell’idea di uguaglianza dal piano ontologico a quello fenomenico: del resto, se la vita è solo realtà intramondana, non serve nessuna ontologia… C’è una lunga strada da percorrere assieme, attraverso il confronto libero tra esponenti di diversi saperi, mantenendo una sana curiosità interiore, proprio come mastro Geppetto, che di fronte a una vocina flebile che usciva da un pezzo di legno ne cavò un burattino e poi un uomo, non una semplice gamba di legno ben tornita da vendere, come voleva fare mastro Ciliegia. In fondo il problema è lo stesso da millenni: rendere gloria al Signore del roveto ardente o al vitello d’oro?






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