giovedì 6 marzo 2008

CHE DIFFERENZA C'E' TRA UN OPERAIO E UN EMBRIONE?


Platone diceva che lo Stato è la proiezione di quello che i cittadini della polis hanno nell’anima. In altre parole è un riflesso delle credenze diffuse. Sta a ogni uomo, a ogni cittadino elevare la propria coscienza per percepire e rispettare il mistero che sta dietro la vita e dietro la morte. Dietro ogni vita e dietro ogni morte.

colloquio con Giovanni Reale di Riccardo Paradisi [5 marzo 2008]

Si può difendere il valore assoluto della vita umana di alcuni e ritenere relativo il valore della vita di altri? Sembra una domanda provocatoria perché ognuno risponderebbe che la vita va difesa sempre, in ogni caso, senza nessuna distinzione. Eppure se la vita umana deve essere difesa in quanto vita perché a sentir parlare di una moratoria sull’aborto milioni di nasi si storcono?
E perché la vita di un malato terminale dovrebbe valere di meno della vita di un uomo in salute? Sono temi così delicati questi, argomenti così spinosi che la gran parte delle forze politiche impegnate in questa campagna elettorale ha deciso di espellerli dal dibattito politico, semplicemente di rimuoverli. Eppure le questioni legate al diritto alla vita - che riguardino i temi eticamente sensibili o le morti sul lavoro - riemerge prepotentemente nel dibattito politico, anche se, come dice il filosofo Giovanni Reale, «con contraddizioni enormi».

La politica si trova oggi più di ieri ad affrontare temi che riguardano la vita e la morte. Come sta assolvendo a questo compito?

Direi malissimo. E per un motivo in fondo logico: non si può difendere la vita in una sua condizione e non difenderla più quando essa si presenta o si manifesta in una condizione diversa. Ancora più chiaramente: è sacrosanto difendere la vita dei lavoratori che in questo Paese muoiono ancora a decine ogni anno a causa di condizioni inaccettabili di lavoro. È giusto difendere la vita dei cittadini campani la cui salute è minacciata dai veleni che sono costretti a respirare. Ma con la stessa forza è giusto difendere la vita di un feto, quella di un embrione, quella di un malato terminale la cui vita è sacra in quanto vita umana.

Difendere insomma non questa o quella vita ma ogni vita umana.


Ogni vita umana esatto. Chi non lo fa e introduce delle differenze tra questa e quella vita entra in una contraddizione profonda che solo un relativismo molto vicino al nichilismo può giustificare.

I maggiori protagonisti di questa campagna elettorale sostengono che i temi relativi alla vita e alla morte devono restare fuori dalla polemica politica. Eppure sono questi argomenti, soprattutto nel centrosinistra, che animano discussioni e producono fratture.


La politica si trova in un guado. Da un lato sente di avere perduto credibilità, autorevolezza, schiacciata com’è sulla dimensione della tutela dei propri interessi dall’altro, se intende non perdere anche un residuo di funzione, si sente chiamata a riscoprire dei valori. A volte si tratta di astuzie, altre volte c’è la consapevolezza che la battaglia della difesa della vita è cogente e centrale e c’è un adesione più autentica a questi temi. Che sono e saranno sempre di più temi che la politica si troverà ad affrontare.

La biopolitica sarà la vera politica di domani insomma


È evidente che i tempi attuali sia quello scientifico il paradigma dominante: talmente tanto che i nostri contemporanei hanno fatto della scienza un idolo. Se qualcosa si può fare, questa è la convinzione diffusa, allora si deve fare. È una logica aberrante da cui nascono delle aberrazioni.

Come la clonazione umana: un recente documento dell’Onu paventa il rischio che in un qualche laboratorio possa esserci già qualcuno in grado di metterla in atto.
Con la retorica della libertà di ricerca si tenta di giustificare anche questo. Ma il problema prima ancora che politico è, come sempre, filosofico. Perché la ragione non basta a dare dei limiti a se stessa. È necessaria una convinzione superiore, l’idea del mistero, di qualcosa che, come la vita appunto, resta inviolabile. La ragione è la stessa che elabora il sofisma per cui una vita umana non è tale prima di 20-22 settimane dal concepimento. La stessa che vede nell’altro uomo non un mistero e dunque un fine, ma un mezzo, uno strumento.

È la stessa percezione che certe aziende hanno dei loro operai: non delle persone, degli uomini ma delle cose che possono essere sacrificate al profitto.

Questo è il funzionalismo più spietato, la stessa logica che seleziona le vite da tutelare e quelle da selezionare secondo una strumentalità soggettiva. L’uso della persona così diventa totalizzante, al profitto dell’azienda viene chiesto il sacrificio della vita. Un funzionalismo spietato che cancella un’altra verità: che il lavoro non ha solo un fine produttivo ma ulteriore.

Il fine sociale e spirituale del lavoro. Ma un’idea fraterna del lavoro, un liberalismo cristiano fondato sulla persona sembrano oggi retorica.

Perchè l’idea che ormai si è della vita è sempre più materializzata. Tempo fa si è animato in Francia e in America un dibattito allucinante dove da parte di alcuni circoli si negava la natura ontologica della morte. Sa come veniva definita la morte?

No ma temo il peggio.


Scarto della vita. Di conseguenza si proponeva di eliminare il funerale, si invitava a vedere nel morto semplicemente un cadavere da cui espiantare organi e poi da incenerire.

Allucinante è dire poco.

Ragiona così naturalmente chi ha perduto il senso della vita, chi ritiene appunto che l’uomo sia un mezzo e non un fine. Per questo tipo umano è retorica ogni idea che non sia riflesso della realtà materiale.

Ma davvero lei crede che da questa deriva possa salvarci la politica?

Platone diceva che lo Stato è la proiezione di quello che i cittadini della polis hanno nell’anima. In altre parole è un riflesso delle credenze diffuse. Sta a ogni uomo, a ogni cittadino elevare la propria coscienza per percepire e rispettare il mistero che sta dietro la vita e dietro la morte. Dietro ogni vita e dietro ogni morte.

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