venerdì 10 ottobre 2008

METTERE FINE AL LORO INFERNO O A CHI LI ASSISTE?

.....Ma nel giorno in cui i giudici milanesi si fermano, il padre di Eluana rilascia un’intervista. Titolo: «Mia figlia deve morire, così finirà il mio inferno». Un titolo forzato, una infelice sintesi giornalistica?....


Il destino di Eluana e degli altri nella trappola di un titolo di giornale

di Marina Corradi
Tratto da Avvenire del 9 ottobre 2008




La Corte di Appello di Milano non si è pronunciata: si è scelto di attendere il giudizio della Cassazione, fissato per l’11 novembre. Beppe Englaro si è impegnato a non sospendere intanto l’alimentazione della figlia Eluana, strada che d’altra parte la Regione Lombardia gli aveva per suo conto precluso.

Ma nel giorno in cui i giudici milanesi si fermano, il padre di Eluana rilascia un’intervista. Titolo: «Mia figlia deve morire, così finirà il mio inferno». Un titolo forzato, una infelice sintesi giornalistica?

Nel testo quell’espressione, fra virgolette, non c’è. C’è però ampiamente il senso di sedici anni di sofferenza, poi aggravati dalla malattia della moglie.

Il senso di un «non esserci più giorno né notte», di ogni equilibrio saltato. «Non c’è più Natale, Pasqua né Ferragosto per noi. Non ci sono più compleanni, né anniversari da festeggiare. La nostra vita è un inferno».

E il pensiero, oltre che a lui, va alle suore che hanno concretamente in consegna Eluana, e la curano da anni. L’assillo costante, dice Englaro, «è dar voce al patto che c’era fra Eluana e me. Devo liberare mia figlia».

E chi legge non può non confrontarsi con la sofferenza di quest’uomo, dentro a un tunnel che non finisce: tra la malattia della moglie e quella figlia 'addormentata', Englaro sembra incalzato, tallonato dal dolore e dalla morte. «Un inferno», dice, la sua vita. Ed è sicuro che questo «inferno» finirà, quando «libererà» la figlia.

Ma nell’intervista si affaccia evidente un equivoco certo non voluto, forse solo giornalistico. Il padre sembra chiedere la sospensione dell’alimentazione della figlia per «liberare» non lei, ma se stesso, da una situazione che non può tollerare.

Dal suo «inferno» di padre accanto a una ragazza incosciente da 16 anni.

Reazione umana, in cui facilmente ci si può immedesimare – e infatti molti si immedesimano, dicendo: farei anche io lo stesso. L’equivoco radicale però è che tutta la battaglia attorno a Eluana involontariamente si svela, in quelle parole stampate, come battaglia per sé, per ricominciare a vivere, per «tornare ad essere uno qualunque». Ma per questo, occorre che i riflettori si spengano. E che la figlia dunque venga lasciata morire – nessuna “spina” da staccare (espressione che lui non ama), ma solo le sonde del nutrimento e dell’acqua: finché l’organismo non ceda.

Con tutta la pena che la vicenda Englaro suscita, davanti a certe parole bisogna però privilegiare la ragione, piuttosto che un pericoloso emozionismo.

Perché è ben diverso rivendicare una libertà di essere lasciati morire, dal chiedere quella libertà per un altro, perché in realtà a non farcela più è la persona che assiste.

È evidente come un principio simile avrebbe esiti drammatici su una popolazione di dementi, disabili, vecchi non autosufficienti, le cui famiglie vivono quotidiane fatiche e anche calvari, e non tutte con il sostegno di un ospedale in cui il familiare viene assistito notte e giorno.

Così nel momento in cui continuiamo a dirci sinceramente solidali con le sofferenze del signor Englaro, sentiamo il dovere di lealmente annotare, a margine di quel titolo scritto a caratteri cubitali, che se il movente vero della battaglia attorno a Eluana non fosse quello continuamente ripetuto della morte data in ossequio alla presunta quanto controversa determinazione del paziente, ma l’intollerabilità, per chi assiste, di malattie che prolungano la invalidità e la incoscienza per anni, allora la prospettiva vera di questo scontro diverrebbe fatalmente un’altra.

Nel nome della libera scelta, a venir liberate in realtà sarebbero le persone sulle cui spalle il malato pesa. Il che segnerebbe una profondissima differenza.


Certo, tutti tendiamo a immedesimarci nell’angoscia che assistere certi malati comporta. Forse è per questo che tanti sembrano appoggiare la battaglia di Beppe Englaro, e tremano all’idea di subire un simile destino.

Ma allora la domanda è: questa battaglia è nell’interesse dei malati, o dei sani?

(Però, dobbiamo aggiungerlo, abbiamo conosciuto mogli di uomini in stato vegetativo da anni che lo vanno a trovare in ospedale e dicono: è vivo, io gli parlo ogni sera. L’inferno, a volte, è anche una condizione interiore).


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