domenica 19 aprile 2009

GLI SCAMPATI CHE ASPETTAVANO L'ALBA

Sotto il sole pieno, non ci si fa caso. Ma è nella notte buia, lunga, infinita, nella notte del dolore, che con ostinazione si domanda l’alba. Il suo primo avvento. Quell’incerto barlume all’orizzonte, che pure già allarga il cuore. Perché la notte è finita. E l’alleanza antica ritorna in quel chiarore.

Gli scampati che aspettavano l’alba
Anche la cattedrale di Chartres è tutta costruita perché lo sguardo cada, al mattino, sul raggio di sole che da est sorge e taglia e annienta il buio. Perché è nella notte buia e lunga del dolore, che con ostinazione si domanda la luce

di Marina Corradi


Gli scampati al terremoto hanno raccontato di una notte interminabile. Dopo il boato di bestia degli inferi che si risveglia, dopo gli schianti e i crolli e le urla e i pianti, nell’affannoso cercarsi, nel disperato scavare, su tutto, il buio. Una notte che quella notte sembrava infinita, tenebre sopra l’abisso spalancato sotto l’Abruzzo. «Aspettavamo l’alba», hanno detto, hanno cercato di spiegare, avvolti ancora nelle coperte con cui, ormai a giorno fatto, si difendevano da un freddo che non voleva lasciare le ossa, un freddo come un alito della morte che quella notte li aveva sfiorati.
«Aspettavamo l’alba», dicevano, in un moto così profondamente umano. Negli assedi delle rocche medioevali, nei terremoti e nelle alluvioni, quando la morte si abbatte come un maglio su una città, gli uomini atterriti hanno sempre atteso l’alba. Trepidanti nel buio, sgomenti nell’inferno, aspettano che il cielo schiarisca, nel riverbero del primo sole esitante sulla linea dell’orizzonte. L’alba. Come il rinnovarsi, nonostante tutto e nel fondo del dolore, di una alleanza antica. L’alba, che allontana i nemici, i ladri, i predoni. L’alba che scaccia i demoni, della notte parassiti e padroni.
Aspettavano l’alba. Sulle soglie delle case distrutte, delle chiese sventrate, sugli echi delle voci deboli che invocavano, dalle macerie. L’alba come un abbraccio, come un segno, al termine di una notte di fine del mondo.
Mi è venuta in mente, a quella frase di sopravvissuti, la cattedrale di Chartres. La cattedrale di Chartres, madre di tutte le cattedrali medioevali francesi, all’interno è molto buia. Nelle navate altissime, infinite, nelle volte vertiginose, anche in una giornata di sole pieno entra ben poca luce. Ma, nell’istante in cui la traiettoria del sole che si alza, al mattino, interseca le vetrate e filtra attraverso il blu profondo creato dagli antichi vetrai, quell’unico raggio che penetra l’ombra della chiesa risplende così netto che chi si ferma a guardarlo se ne stupisce e commuove. Cosa volevano lasciare agli uomini i maestri costruttori della Francia cristiana? Tutta la cattedrale è forse costruita in quelle guglie, in quelle proporzioni, in quella tenebra interiore, perché lo sguardo cada, al mattino, sul raggio che da est sorge e taglia e annienta il buio? Chartres ha un segreto che si ripete da secoli, ogni giorno; è una scenografia mirabilmente costruita per rendere evidente ogni mattina di ogni anno, nei secoli, il miracolo della luce nel buio.
Perché è nel buio che si anela la luce. Sotto il sole pieno, non ci si fa caso. Ma è nella notte buia, lunga, infinita, nella notte del dolore, che con ostinazione si domanda l’alba. Il suo primo avvento. Quell’incerto barlume all’orizzonte, che pure già allarga il cuore. Perché la notte è finita. E l’alleanza antica ritorna in quel chiarore.

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