sabato 26 luglio 2008

CESANA E MAZZUCCATO: IL RICHIAMO DI ELUANA

Non è un corpo muto, non è un vegetale. è da sedici anni che la donna di Lecco dice alla “società dei sani” qualcosa sul senso della vita, della morte, della malattia
TEMPI 22 Luglio 2008
(appunti non rivisti dagli autori)di Claudia Mazzucato

Pubblichiamo ampi stralci degli interventi di Claudia Mazzucato, ricercatrice di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano, e di Giancarlo Cesana, professore di Igiene generale e applicata all’Università degli Studi di Milano, durante l’incontro “Eluana Englaro: il mistero della vita e il miracolo dell’accoglienza”, tenutosi al Teatro sociale di Lecco il 15 luglio 2008



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Claudia Mazzucato
Siamo tutti qui con il cuore pesante, a prescindere dalle idee e dalle posizioni che ciascuno di noi può avere. Io sono qui come giurista e come essere umano. Come giurista il caso mi interessa perché, ogni qualvolta si tocca il bene della vita, l’ordinamento giuridico viene trasformato. E questa è una sentenza, si direbbe in termine tecnico, “innovativa” perché crea un precedente, una situazione che prima non c’era. Anche se non c’è stato l’intervento del legislatore, il sistema giuridico dopo questa sentenza è cambiato, e credo che sia dovere di un giurista capire “come” e riflettere sulle conseguenze che possono estendersi ad altri soggetti. Come essere umano mi sento toccata da questa vicenda. E il mio essere qui è un essere dentro una comunanza e una appartenenza all’umanità. Sono segnali di una non indifferenza, di una premura che riguarda ciascuno di noi, indipendentemente dalla visione del mondo, della vita e della morte.

La vicenda giuridica è complessa.

Nel nostro ordinamento giuridico è vietato uccidere ed è vietato uccidere anche se c’è il consenso dell’interessato. Ci sono due norme del codice penale che prevedono come reato l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Allora, la vicenda giuridica, lungo tutti i sette procedimenti penali di cui è costituita, non riguarda la questione dell’uccidere, giacché sarebbe immediatamente chiaro che non si può fare, ma un altra questione: l’accettazione delle cure. è per questo che è importante capire se mangiare e bere, cosa che facciamo tutti per vivere, è o no una cura.


Nel nostro sistema giuridico, le cure non sono coercibili. Il diritto alla salute è un diritto, per usare un termine non tecnico, “scontato”, cioè non lo dobbiamo richiedere attivamente, non dobbiamo andare dal giudice per essere curati. Ma una persona non può essere costretta a ricevere le cure. (…) Posto che nessuno può essere costretto a ricevere le cure, le cure – si dice – possono essere rifiutate.

Eluana rifiuta le cure e quindi la conseguenza è che morirà. Il problema però è delicatissimo; non si può accettare il tema del rifiuto delle cure troppo semplicisticamente. E c’è un’ulteriore questione: la persona di cui drammaticamente stiamo parlando non è in grado di esprimere la propria volontà in modo autonomo.

Allora la questione nuovissima per i giuristi è: cosa si deve fare di fronte ad una persona incapace di esprimere la propria volontà riguardo all’accettazione o al rifiuto delle cure? La sentenza si occupa del problema della volontà presunta di rifiutarle. Una presunzione che viene ricavata dalla sua personalità e da una serie di episodi riferiti da testimoni.


Un problema non banale è che, mentre la morte è un evento irreversibile e drastico, l’unico da cui non si torna indietro, la presunzione è un criterio abbastanza debole. Si può arrivare a un epilogo irreversibile e drastico a partire da una volontà che non si può che presumere? E attraverso terzi i quali, in questo caso specifico, sono certamente in buona fede. Ma il problema rimane: si può arrivare all’epilogo irreversibile basandosi su una presunzione di volontà? Una volontà che, oltre che essere presunta, non è attuale, ma è stata espressa in un altro momento, in un altro contesto, di fronte ad un’altra situazione, non la mia morte, la mia vita, il mio stato vegetativo persistente, ma quello di un altro.

E poi, quale volontà? La volontà di non essere alimentata? La volontà di non bere? Di non essere nutrita e idratata? La volontà di non essere curata, di non vivere così? Qui c’è il punto giuridicamente decisivo che manca in queste sentenze, tutte queste sentenze. Dubito che il problema della vita e della morte possa essere giocato in termini di volontà, ma rimaniamo dentro il ragionamento dei giudici: è un problema di volontà, di accettare o no le cure. Possiamo fermarci alla volontà di non vivere così? O il procedimento giudiziario deve accertare la volontà di morire così? È un po’ strano che non sia stata spesa una sola parola sulle modalità del morire, sulle modalità di questo morire, di fame e di sete.

Essere nutrita e idratata non costa una sofferenza, non è un trattamento che integra un accanimento terapeutico in cui il vantaggio è sproporzionato rispetto al costo, in termini umani di sofferenza. Questa volontà, che dovrebbe essere certa (e non presunta), dovrebbe essere accertata con gli standard probatori che i procedimenti giudiziari richiedono: e cioè oltre ogni ragionevole dubbio. Lo chiede la cultura delle prove. (…) Che l’epilogo si fondi su una volontà presunta e che questo epilogo non sia provato oltre ogni ragionevole dubbio, in modo scientifico e oggettivo, è un vulnus, una ferita nell’argomentare giuridico di questa sentenza.

C’è un altro punto che è il tema della libertà, perché secondo i giudici la libertà è quasi più importante della vita. Nel senso che la vita è come se fosse un modo di esprimere la libertà, tanto che, dicono i giudici, non si può essere costretti a vivere. Nella ricostruzione della personalità di questa ragazza si dice che la libertà veniva prima di qualsiasi cosa. E si desume la volontà di interrompere l’idratazione e l’alimentazione dal fatto che sarebbe costretta in una condizione non libera che una persona così dinamica, vivace e vitale come era lei, non avrebbe mai accettato.

Domando: qual è l’idea di libertà che viene veicolata da queste decisioni? è un’idea molto statica di libertà. (…) La libertà non ha forse a che vedere con l’imprevedibilità? Chiunque di noi si sia trovato di fronte ad un evento particolarmente forte, non necessariamente negativo, può essersi sorpreso di come tutto lo scenario esistenziale, grazie alla libertà, può cambiare. Potremmo trovarci capaci di fare cose che mai avremmo creduto di essere in grado di fare. Come dire: Ingrid Betancourt vedendo ipoteticamente la situazione di un ostaggio nella giungla per sei anni potrebbe dire: “In quella situazione io mi suiciderei” e poi, invece, resiste sei anni e gioca la sua libertà in un modo imprevedibile.

Nella sentenza Eluana è definita un purosangue della libertà. Qual è la libertà che giocherebbe ora? Forse non ci è dato conoscerla e, forse, questa morte che uccide la libertà le toglie ogni possibilità.
Sul piano più generale queste sentenze ci portano a riflettere sulla natura giuridica della medicina e dell’atto medico. In alcuni passaggi si legge qualcosa che era giuridicamente impensabile alcuni anni fa e che sta diventando, in modo preoccupante, normale. Si legge che la medicina ha una natura intrinsecamente illecita, salvo il consenso dell’interessato.

Cioè: un medico che interviene su di me, salvandomi, fa qualcosa di illecito intrinsecamente, a meno che non ci sia il consenso. L’altra visione, opposta, è quella che dice che la medicina è intrinsecamente lecita, salvo fermarsi di fronte al dissenso. La prima idea dà alla medicina una natura illecita e al consenso la natura di un diritto. Quindi anche il rifiuto delle cure e il morire divengono dei diritti. (…) L’altra visione vede nella medicina un’attività intrinsecamente buona perché diretta alla vita e alla salute, che si ferma sulla soglia del rifiuto, che non è più quindi un diritto. In questa seconda logica, la medicina è lecita ma non coercibile. E tutto si tiene, perché così si capisce perché i medici hanno il dovere di soccorrere e hanno l’obbligo di intervento. Si capisce perché esiste un servizio sanitario nazionale. Si capisce perché c’è l’alleanza terapeutica. (…) Pensate, se la medicina fosse illecita, che senso avrebbe la deontologia medica. C’è in gioco la natura stessa della medicina. Il diritto ha al suo vertice il crimine di omicidio, che nessuna cultura, anche quelle più primitive, ha mai contestato. In un certo senso, il diritto nasce per la promozione e la difesa della vita senza la quale non c’è nemmeno la libertà.
Giancarlo Cesana
Per quanto riguarda sia lo stato vegetativo persistente, sia la procedura legale, sia la vita – il senso della vita – possiamo dire di essere empiricamente incerti, cioè di essere in dubbio. Come quando si va a caccia e si vede muovere qualcosa dentro un cespuglio e non si sa se è un coniglio, o un bambino; cosa si fa in questo caso? Si spara? Evidentemente no.

Don Luigi Giussani insegnava che la categoria più importante della ragione è la categoria della possibilità: la ragione cioè non deve ostacolare ciò che è possibile. Se è impossibile a me, ma è possibile ad altri, la ragione non deve ostacolare la possibilità altrui. Per Eluana Englaro c’è qualcuno (le suore Misericordine, ndr) che ha detto di essere disposto a prendersi cura di lei. Se la ragione nega la categoria della possibilità, la ragione diventa una misura inevitabilmente violenta sull’altro.

C’è una seconda questione: qual è il senso della malattia?

Di fronte a un caso come questo, domandarsi il senso non vuol dire cercare di spiegare tutto, ma significa domandarsi che cosa c’entra con me; che cosa c’entro io con Eluana. (…)

Già Shakespeare diceva: «La vita è una lunga agonia». L’uomo è mortale e, alla fine, tutti moriamo.La medicina non è nata per curare, ma per assistere. La medicina occidentale, come la conosciamo da Ippocrate in poi, era un’arte incapace di curare la gente, tant’è vero che, nell’epoca classica, prima del cristianesimo, gli ammalati venivano allontanati dal popolo perché, tra l’altro, se infettivi, erano pericolosi. Col cristianesimo, sono nati gli ospedali e gli ammalati hanno cominciato ad essere assistiti. Questo perché si sapeva curarli? No! A Napoli, per esempio, c’è l’ospedale degli incurabili, dove erano ospitate persone, appunto, incurabili: erano incurabili nei primi secoli dopo Cristo, esattamente come erano incurabili prima. Si è cominciato a curarli perché la malattia non è più stata vista come un ostacolo insormontabile alla vita; perché l’ultima parola sulla vita non era più la morte; perché il Cristo era risorto.


Questa esperienza ha fatto nascere gli ospedali e la medicina occidentale; ha spinto gli infermieri a curare la gente che era pericolosa. Si è cominciato così a intendere la malattia non come qualcosa che nega, ma come qualcosa che, imprevedibilmente, afferma. La pietà, infatti, da dove viene? Aver pietà di uno che è fragile, che cosa significa? Significa riconoscere, dentro la fragilità, un positivo. Il cinismo che troviamo nei giornali a riguardo della vita e del trattamento degli ammalati, viene dal fatto che se la vita comincia a declinare, non ha più un senso, non c’entra più niente con me. E quindi, non solo la si lascia andare, ma si può pensare attivamente anche di eliminarla. La ragione, quando non accetta la categoria della possibilità, diventa violenta.

La morte fa veramente paura e questa paura va allontanata dagli occhi. Il problema che solleva Eluana Englaro è proprio questo. Ed è un problema che si pone non solo ai medici. (…)
La nostra ragione si spaventa davanti alla malattia e alla morte perché non comprende più – allontanandosi da una cultura positiva della vita – che il mistero non è un’astrazione, non è un fantasma: è concretamente presente. La mia vita è un mistero perché non me la sono data io. Ultimamente, non so di cosa sia fatta. (…)
Le suore che assistono Eluana Englaro dimostrano una speranza contro ogni speranza perché di fronte alla disperazione con cui si può guardare questa donna, loro, invece, continuano a sperare. Le vogliono bene. Affermano che lei, per loro, vale: questa è la presenza positiva! Vale con i nostri figli, con i poveri, con gli ammalati; vale per tutto. Questo è il cristianesimo, senza del quale non c’è più comprensione di niente.

Quando Gesù incontra il cieco nato, la gente gli chiede chi – lui, o i suoi genitori – abbia peccato, perché nell’antichità la malattia era considerata una maledizione. Gesù gli risponde che la sua malattia non deriva da un fatto di colpevolezza, ma che lui è cieco nato «perché si dimostrasse la gloria di Dio e si vedesse che Io sono capace di guarirlo».

Il senso della malattia è quindi la vittoria sulla morte. La malattia ci fa vedere che siamo fragili, che siamo destinati alla morte, che dobbiamo passare attraverso la morte. Ma la morte non è tutto: questo è il senso della malattia e, senza Cristo, non è possibile affermare questo senso.

Per amare la vita, anche nel momento di maggiore fragilità, quando tutto sembra sia finito, bisogna avere quella «Spe contra spem», quella speranza contro ogni speranza di cui parlava san Paolo. Se non si fosse fatto così, il progresso della medicina non ci sarebbe stato; se non ci si fosse messi a curare gli ammalati a rischio della vita, con la speranza che si potesse vincere – con un senso di vittoria ultimo sulle cose, un senso positivo della storia e del mondo –; se non si fosse fatto così, la medicina non ci sarebbe. Da questo punto di vista, quando si dice che gli ammalati partecipano alla sofferenza di Cristo si dice proprio che, con la loro condizione, ci richiamano a cercare di capire cosa siamo al mondo a fare. Che Eluana Englaro sia viva, nelle sue condizioni, dopo sedici anni, significa che sono sedici anni che ci sta richiamando a questo. E non c’è solo lei, ce ne sono molti altri. Perché far finire questo richiamo?
(appunti non rivisti dagli autori)


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