mercoledì 23 luglio 2008

ARTICOLO DI MANCUSO E RISPOSTA DI FERRARA

Penso che valga la pena leggere "I due padri di Eluana e il dramma della libertàSocietà - lun 21 lug
Il pensiero di Vito Mancuso sul caso Englaro e le glosse dell'Elefantino
Tratto da Il Foglio del 20 luglio 2008

La risposta di Ferrara al teologo "laico" è semplicemente strepitosa
Ho deciso di mettere le due letture .
Certamente risponde bene Ferrara anche a tutti i commenti che mi sono giunti riposiziona lo sguardo che ciascun uomo dovrebbe avere sulla vita.



invece a me sembra che il conflitto sia quello tra carità e legge, il tipico e primigenio conflitto che sta all’origine stessa del messianismo cristiano: come per l’aborto, il diritto potrà stabilire mille volte che, se lo vuoi, tu puoi staccare un sondino nasogastrico e procedere, ma tu non devi farlo. Puoi farlo, non devi. Per la semplice ragione che non sei creatore ma creatura, e il solo disporre della vita come di un prodotto della tua volonta è una manomissione dell’esistenza razionale, della dignità spirituale e razionale della persona umana, sia quella che “stacca” sia quella che è staccata.

All'interno i due articoli

I due padri di Eluana
La scelta sulla propria vita è conforme al volere di Dio. Il dramma è che in questo caso manca
di Vito Mancuso

L'esercizio della libertà individuale è il problema, non la soluzione
Perché esistono il bene, il male e la scelta tra i due. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma da qui non si scappa
di Giuliano Ferrara


I due padri di Eluana
La scelta sulla propria vita è conforme al volere di Dio. Il dramma è che in questo caso manca
di Vito Mancuso




Tre premesse fondamentali. La prima è che io, personalmente, sono contrario a che si interrompa l’alimentazione di Eluana, e se mi trovassi a vivere una condizione del genere, vorrei rimanere al mio posto di combattimento, anche con la sola vita vegetale ma comunque al mio posto nel grande ventre dell’essere: nessun accanimento terapeutico, ma vivere fino in fondo la vita, secondo la tradizionale visione cattolica della morale della vita fisica. La seconda premessa è che adesso non si tratta di me ma di Eluana, e che ciò che è un valore per me non è detto che lo sia per lei: ciò che per uno può essere edificazione, per un altro che la pensa diversamente si può tramutare in tortura. Una diversa concezione della vita produce una diversa etica, e da una diversa etica discende una diversa valutazione delle situazioni concrete. La terza premessa è che lo stato laico deve produrre, a partire dalle diverse etiche dei suoi cittadini, un diritto unico, tale da essere per quanto possibile la casa di tutti, dove tutti vedano riconosciuta la possibilità di vivere e di morire secondo la propria concezione del mondo, realizzando con questo la giustizia, che, com’è noto, consiste nel dare a ciascuno il suo. La distinzione tra etica e diritto è decisiva.

Fatte queste tre premesse mi posso concentrare sulla dimensione teologica del caso Eluana. Nel suo articolo al riguardo (un articolo profondo e riflessivo, in grado di generare capacità di giudizio nelle coscienze, uno dei compiti principali dei pastori della Chiesa) il cardinal Tettamanzi ha fatto riferimento al miracolo di Gesù che riporta in vita la figlia di uno dei capi della sinagoga di una città nei pressi del Lago di Tiberiade (cf. Marco 5, 21-43). Purtroppo qui da noi non ci sono molte possibilità che Gesù si presenti alla clinica Beato Luigi Talamoni di Lecco, prenda per mano Eluana e le dica Talità kum, “fanciulla alzati”. Sarebbe giusto, oltre che bello. Eluana e la sua famiglia se lo meriterebbero dopo anni di sofferenze, sarebbe anche un segno che porterebbe alla fede tanti uomini. Ma è abbastanza improbabile che avverrà. Anche quei poteri di guarigione che Gesù aveva lasciato agli apostoli (“guarite gli infermi, risuscitate i morti”, Matteo 10, 8; cf. anche Marco 16, 17-18; Luca 9, 1-2 e 6) col tempo sembrano svaniti. Sta scritto che san Pietro guariva al solo passare perché era sufficiente che la sua ombra ricoprisse i malati (cf. Atti degli apostoli 5, 15-16), ma da secoli per i suoi successori non risulta nulla del genere. Sta scritto anche: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà” (Giovanni 16, 23), e io sono sicuro che le suore Misericordine quotidianamente pregano per Eluana, e con le suore chissà quanti altri pregano nel nome di Gesù chiedendo il ritorno di Eluana alla vita normale, ma non accade nulla di quanto richiesto.

Quello che accade è un’altra cosa. Che cosa? Chi crede in Dio e insieme guarda al mondo per quello che è, non può fare a meno di vedere lo svolgimento di un dramma sul corpo di quella giovane donna i cui protagonisti principali sono il suo padre terreno e il suo Padre celeste. Sul rapporto tra Eluana e il padre terreno sono state scritte molte cose, soprattutto da parte di alcuni cattolici che manifestano in questi giorni un interesse e un affetto che si pretendono persino superiori a quelli del padre terreno e della madre terrena. Ho letto parole sprezzanti verso il signor Englaro, ho letto dichiarazioni che parlano di “uccisione”, di “omicidio”. E siccome dietro la sentenza della Corte di appello di Milano c’è la richiesta del padre terreno di Eluana, è logico concludere che per qualcuno i genitori terreni vorrebbero “uccidere” la figlia. L’ideologia può accecare. Anche l’ideologia che deriva dalla degenerazione della fede acceca. Si tratta di un fenomeno già riscontrato nella storia della Chiesa: con lo stesso zelo che oggi intende difendere la vita, nei secoli passati si seminava morte mettendo al rogo chi la pensava diversamente. Un tempo i roghi, oggi le insinuazioni di omicidio verso il padre e la madre di Eluana: io non vedo una significativa differenza per quanto attiene alla qualità della violenza.

Ma vengo al rapporto tra Eluana e il Padre celeste. Come ho imparato da un anziano professore di teologia morale, procedo secondo uno schema forse un po’ rigido ma certamente in grado di contribuire alla chiarezza e al rigore del ragionamento. Di fronte a qualunque evento, quindi anche di fronte al caso Eluana, occorre chiedersi se Dio lo vuole o non lo vuole. La domanda quindi è: Dio ha voluto l’incidente stradale del 18 gennaio 1992 che ha condotto Eluana alle condizioni a tutti note, e vuole da allora che questa giovane donna viva così come vive, senza favorirne la guarigione? Alla domanda si può rispondere sì o no, e a seconda della risposta discende una particolare teologia e poi una particolare etica.

A partire dalla rivelazione depositata nella Bibbia entrambe le risposte sono possibili. Chi sostiene che Dio lo vuole si può rifare a Isaia 45, 7: “Io sono il Signore e non ve n’è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo”. Questo testo biblico afferma che Dio provoca la sciagura: quindi anche quella del 18 gennaio 1992 ha in lui la sua causa. Nulla infatti può avvenire nella storia che sia contrario alla volontà di Dio. Tanto più se si tratta dell’uomo, oggetto di cura privilegiata: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri” (Matteo 10, 29-31). Ogni giorno molti “passeri” cadono a terra: avvengono decine di incidenti sulla strada e sul lavoro, fioriscono malattie di ogni tipo (solo di tumori ce ne sono almeno un centinaio di specie), nascono bambini malformati (le malattie genetiche censite sono oltre seimila)… se si dovessero elencare i mali che colpiscono quotidianamente il genere umano non basterebbe l’intero giornale. Dio però secondo questa visione governa i singoli eventi con onnipotenza, egli è all’origine di ogni cosa che nel bene e nel male avviene nel mondo, soprattutto per noi, “suo popolo e gregge del suo pascolo” (Salmo 100, 3). Egli è il Signore, e non ce n’è un altro: non c’è “il caso”, cui ricondurre almeno qualche evento. La volontà divina manifesta se stessa nella fisicità di ogni evento, il legame tra il Dio personale e il mondo è diretto, forte, assoluto.

Alla domanda se Dio abbia voluto l’incidente stradale del 18 gennaio 1992 e ciò che ne è seguito si può anche rispondere no, risposta altrettanto legittima alla luce della rivelazione depositata nella Bibbia. Quasi in diretta contrapposizione col testo di Isaia citato sopra che attribuisce a Dio la luce e le tenebre, la Prima Lettera di Giovanni afferma che “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Giovanni 1, 5), arrivando poi per due volte a dire che “Dio è amore” (1 Giovanni 4, 8 e 4, 16). Il testo non dice che Dio ha amore, ma che “è” amore, nel senso che l’essenza di Dio è l’amore, e quindi egli non può che volere e operare secondo l’amore, come il padre di cui parla Gesù nella famosa parabola di Luca 15. Ma occorre andare oltre, perché tale amore che è Dio ha assunto carne umana, prefigurando così il paradigma ontologico ed etico in base al quale il bene è sempre il bene dell’uomo concreto. Dopo l’Incarnazione non si può più rimandare a un bene misterioso che l’uomo concreto nella sua carne non comprenderebbe. No, dopo l’Incarnazione il bene è sempre il bene dell’uomo concreto.

Tra le due ipotesi io sostengo la seconda, cioè che Dio non abbia voluto l’incidente e non voglia mantenere ancora adesso Eluana nelle condizioni a tutti note senza favorirne il risveglio alla vita normale (e intendo per normale una vita umana che, oltre alla dimensione vegetativa, conosca la dimensione sensitiva e quella razionale e sia in grado di aprirsi alla dimensione spirituale). Mentre chi sceglie la prima alternativa ha il problema di come pensare l’essenza divina in quanto amore, il problema per me a questo punto è come pensare l’onnipotenza di Dio. Dio non vuole che alcuni eventi accadano, e tuttavia essi accadono; Dio non ha voluto l’incidente e tuttavia l’incidente è avvenuto; Dio presumibilmente vuole la guarigione e tuttavia la guarigione non arriva. Cosa pensare? Anche qui sono possibili due risposte. La prima nega che Dio sia onnipotente ed è un’ipotesi oggi seguita da molti in teologia. A mio avviso però si tratta di un’argomentazione infondata perché l’onnipotenza è un attributo peculiare della divinità, un Dio impotente non è divino ma solo una consolatoria proiezione.

La seconda risposta, che è la mia, riconduce l’onnipotenza divina al farsi della libertà del mondo, nel senso che l’onnipotenza divina dispiega se stessa nel costruire un mondo libero, unica condizione perché possa nascere lo spirito e da qui il vero amore che è il fine della creazione (senza libertà, infatti, niente amore). L’onnipotenza divina è funzionale alla libertà, vuole che il mondo giunga alla libertà. Dio crea il mondo (anche adesso lo crea perché la creazione è “continua”) secondo la sua essenza, la quale è libertà compiuta come amore; quindi Dio, creando secondo la sua essenza, non può che creare un mondo libero. Ne viene che l’onnipotenza divina manifesta se stessa nel portare alla nascita della libertà, a partire dalla vita primordiale (dove la libertà si manifesta come caso e come mutazione) fino al dispiegamento effettivo nell’uomo della piena libertà, la libertà consapevole di essere tale e che vuole rimanere tale. Dio quindi vuole la libertà e l’esercizio della libertà è il medium che ci lega a lui. A questo punto possiamo tirare le fila del discorso a livello etico. Secondo la prima impostazione (Dio lo vuole, l’onnipotenza di Dio si manifesta in ogni singola foglia che si muove, perché se lui non volesse nessuna foglia si muoverebbe) la propria vita non è disponibile all’uomo. Il fine della creazione non è la libertà, ma è l’obbedienza, e si dà gloria a Dio in quanto gli si obbedisce sempre e comunque. Dio non vuole figli liberi, vuole servi obbedienti, e per questo “la tua vita non è tua”. L’islam è la perfezione di questo paradigma.

Nella seconda prospettiva invece il fine della creazione è la libertà, e la più alta dignità che l’uomo possa mai esercitare è proprio l’esercizio della libertà consapevole. Essere a immagine e somiglianza di Dio significa essere liberi, liberi veramente non per finta, non fino a un certo punto, liberi anche di deliberare su di sé, sul proprio corpo, perché “la tua vita è tua per davvero”, è un dono totale, non un dono a metà (come quelli che ti regalano una cosa o ti fanno del bene, e poi te lo rinfacciano in ogni momento a mo’ di sottile ricatto). Ne viene che la decisione sulla propria esistenza non è mai formalmente contraria alla volontà di Dio. E’ chiaro che Dio non vuole direttamente la morte di nessuno, anzi egli ha creato ogni cosa per la vita, ed è la vita che celebra la gloria di Dio. Ma più ancora della vita fisica, egli vuole la vita libera. Questo è l’obiettivo del mondo. Se non fosse così, se non fosse la libertà il principale obiettivo, il mondo dovrebbe essere molto diverso: dovrebbe essere ordinato in ogni suo dettaglio, non dovrebbe conoscere il disordine e il male, e nessun incidente stradale sarebbe mai capitato il 18 gennaio 1992 perché una mano sapiente dall’alto avrebbe girato impercettibilmente il volante al momento opportuno. Vi è poi da considerare che se fosse la vita fisica l’obiettivo primario di Dio, si dovrebbe concludere, alla luce dello stato del mondo, che egli è o un grande sconfitto oppure un grande sadico da cui stare prudentemente alla larga. L’obiettivo divino però, ancor più della vita fisica, è la vita libera, e in questa prospettiva Dio realizza veramente il suo piano, perché il mondo che si dispiega ogni minuto sotto i nostri occhi è un immenso esperimento che raggiunge il suo obiettivo, cioè la terribile e insieme meravigliosa alchimia della libertà.

Quindi la deliberazione della libertà sulla propria vita è conforme al volere di Dio, anzi è esattamente ciò che Dio vuole. Naturalmente parlo della “propria” vita, non di quella di altri. Per questo l’aborto è sempre eticamente condannabile, per questo gli embrioni umani sono e devono restare indisponibili. Ma sulla propria esistenza si può deliberare, anzi direi che si deve deliberare, il senso di tutta l’esistenza è una continua ripetizione dell’esercizio della libertà, a partire da quando abbiamo mosso i primi passi, con nostra madre dietro, incerta se sorreggerci o lasciarci, e nostro padre davanti, pronto a prenderci tra le sue braccia. In questa prospettiva ricordo le parole del cardinal Martini: “E’ importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona… La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto”. Il principio primo e assoluto è la dignità della vita umana e questa si compie nella libertà personale.

La tragedia, nel caso di Eluana, consiste nel fatto che non si dispone di un documento giuridicamente valido dove sia attestata la sua deliberazione su di sé. Anche per questo ritengo il testamento biologico un opportuno strumento di libertà. Ognuno vi scriverà la sua volontà, sia chi vorrà essere mantenuto in vita anche in assenza di consapevolezza e nutrito artificialmente (e io sarò tra questi, a lode alla creazione divina), sia chi non lo vorrà. E ognuno vivrà la sua morte nel modo più conforme allo stile dell’intera sua vita. Non mi sembra che uno stato liberale e democratico possa fare di meglio per i suoi cittadini. E alla luce di come va il mondo, sono abbastanza sicuro che questo dispiegamento della libertà sia anche quello che il Padre celeste vuole di più per ognuno dei suoi figli. Se sono vere le cose che di lui ci ha insegnato Gesù, egli comunque ci attende tutti nella gloria della dimora celeste con immutabile amore, un amore di cui possiamo farci un’idea pensando a quello con cui il signor Englaro, ormai tanti anni fa, seguiva i primi passi della figlia che gli si rifugiava tra le braccia, felice.


L'esercizio della libertà individuale è il problema, non la soluzione
Perché esistono il bene, il male e la scelta tra i due. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma da qui non si scappa
di Giuliano Ferrara


Mi permetto, “per amore”, qualche glossa alle osservazioni del teologo e nostro collaboratore Vito Mancuso (1). La questione posta dalla sentenza che autorizza la disidratazione del corpo di Eluana, e la sua messa a morte, ci appassiona tutti. Sentiamo e pensiamo, con profonda convinzione ma senza arroganza o disprezzo per chi non è d’accordo, che non si tratta di una questione privata, dei termini di esecuzione di un lascito testamentario, un affare che si possa sbrigare in famiglia e dal notaio. Per ragioni troppo evidenti per essere richiamate in esteso. Ne faccio solo un breve accenno.

C’è una società in cui il capo dello stato rende visita al paziente Andreatta, in stato vegetativo da molti anni, e la sua famiglia attende la fine nella speranza cristiana, come attende la fine il sistema di cura e di relazioni, di assistenza e carità. Su tutte queste faccende tra la vita e la morte si stende il velo pietoso della discrezione, del discernimento umano e razionale, per sua natura flessibile. Ma qui campeggia l’idea caritatevole del primato assoluto della persona e della vita sulla legge, sul criterio scientifico probabilistico, su ogni altro possibile criterio compresa la disposizione testamentaria (intesa come omicidio pietoso del consenziente). E c’è una società, un’altra società, in cui la persona vivente ma non vigile viene spenta sull’onda dell’amore disperato di un padre, della sua famiglia o di parte della sua famiglia (come nel caso di Terry Schiavo), viene spenta per convinzione, per amore e anche per convenzione culturale, giudiziaria, domani legale (il testamento biologico o la sua sinistra cugina, l’eutanasia). Qui leggi e sentenze fissano con rigidità una “conclusione per il nulla” che diventa il simbolo della nostra libertà.

Sono due società diverse, la società della speranza e quella della disperazione.

Possono convivere e convivono nei cuori, nelle teste, nelle aspettative di tanta buona gente convinta che la sofferenza e la morte vadano esorcizzate con l’appello alla dignità del morire “come vi piace”, e di tanti che al contrario a sofferenza e morte attribuiscono un significato.

Ma sono e restano società diverse, in naturale e filosofico e storico conflitto. Per il professor Mancuso il conflitto etico discende da quello teologico: da una parte la libertà umana di scegliere per sé e disporre della propria vita, perché Dio è amore, perché l’Incarnazione rende concreto il problema dell’uomo, perché l’onnipotenza divina si realizza attraverso la libertà della creatura, e dall’altra l’obbedienza senza riserve al codice della natura o ai comandamenti di un Dio personale, onnisciente onnipotente e provvidente. E il conflitto lo risolve il diritto laico concedendo a ciascuno di fare quel che crede.

E invece a me sembra che il conflitto sia quello tra carità e legge, il tipico e primigenio conflitto che sta all’origine stessa del messianismo cristiano: come per l’aborto, il diritto potrà stabilire mille volte che, se lo vuoi, tu puoi staccare un sondino nasogastrico e procedere, ma tu non devi farlo. Puoi farlo, non devi. Per la semplice ragione che non sei creatore ma creatura, e il solo disporre della vita come di un prodotto della tua volonta è una manomissione dell’esistenza razionale, della dignità spirituale e razionale della persona umana, sia quella che “stacca” sia quella che è staccata.

E’ significativo che le note del professor Mancuso sul caso di Eluana, piene di cura amorevole, di rispetto umano, di attenzione filosofica e teologica ai passaggi più impervi del caso, si aprano con un paio di fulminanti dichiarazioni relativiste. Non esistono per lui queste due società in conflitto, non esiste una discussione di etica pubblica in funzione della quale ci si attesta su usi, costumi ricevuti, norme riconosciute o date (le tavole, per esempio). Esiste soltanto la libertà individuale, che si certifica attraverso una concezione della vita irriducibile a un criterio comune, a una verifica tra i soggetti umani. A ciascuno la propria libera idea della dignità (2).


Osserva dunque Mancuso, dopo aver dichiarato la personale intenzione di lasciare libero corso alla sua vita naturale: “Ciò che è un valore per me non è detto che lo sia per lei [per Eluana, ndr]”. Aggiunge: “Una diversa concezione della vita produce una diversa etica” e “lo stato laico deve produrre, a partire dalle diverse etiche dei suoi cittadini, un diritto unico, tale da essere per quanto possibile la casa di tutti”, perché “la distinzione tra etica e diritto è decisiva”.

Ammiro la semplicità diretta e franca con cui il teologo cristiano abbraccia la forma radicale moderna e positivista della liberaldemocrazia o la sua variante procedurale del socialismo ciudadano in cui contano le maggioranze e le procedure, e basta (un liberale religioso come John Locke, per non parlare di Edmund Burke, non sottoscriverebbe mai quelle affermazioni). Venuto come sono da una giovinezza totalitaria, la mia decisione per la libertà è definitiva. Ma più invecchio più la sento fragile, ancora tutta da spiegare. E di fronte alla laïcité rigorosa, proceduralistica, di un Mancuso, mi viene sofisticamente da obiettare che: primo, se i tuoi valori sono sempre inferiori al valore della loro convivenza con valori opposti, allora non sono valori né relativi né assoluti, sono opinioni fuggevoli; secondo, come si faccia a concepire la vita e poi a produrre un’etica, io non lo so, per me si arriva a concepire la vita mentre si scopre, si rinviene, si riconosce un fondamento etico della vita stessa, poiché l’etica è una religione o una filosofia o perfino una incerta narrazione, ma non un’ideologia; terzo, il diritto è una serie di caselle particolari, che riconoscono la distinzione ma non la dissociazione tra etica e legge, caselle normative fondate su una norma fondamentale derivata dall’osservazione razionale della natura, della sua struttura creaturale e metafisica, e da principi dati, tramandati o rivelati, altrimenti il diritto si trasforma in un mostro onnipotente autoreferenziale come il Leviatano contrattualista, il contratto sociale giacobino, lo stato etico, lo stato autosufficiente del positivismo giuridico eccetera, fino al partito unico e alla classe, se vogliamo.

La parte più direttamente teologica dello scritto di Vito Mancuso è molto bella, conduce a conclusioni sentite con intensità e ragionate con grande intelligenza della cosa. Mi stupisce però. Mi stupisce come non credente, tanto per cominciare, il cristianesimo come implausibilità assoluta. Mancuso dice che nessun Cristo e nessun Pietro riscatterà dal suo dolore o dalla sua condizione vegetativa Eluana, come avvenne per la figlia di Giairo nel vangelo secondo Marco (l’episodio è rammentato dal cardinal Tettamanzi). Hai voglia a pregare, “non accade nulla di quanto richiesto”.

I miracoli sono cose successe tanti anni fa, e oltre tutto più che cose sono segni, questo è vero; ma che cosa resta della fede, sia pure di una fede da rifondare come quella che professa il teologo laico Mancuso, quando la sostanza di cose sperate si dissolve nell’implausibile, si scioglie nella corrosione acida dell’inverosimile? In che cosa si è salvi, di grazia, nella speranza o nel testamento biologico? E quanto alla ragione, che è quel che mi interessa come non credente, devo dunque rassegnarmi a restringerla ai dati sperimentali, alle diagnosi e alle prognosi piuttosto fallibili del possibile tecnico-scientifico, alla dimensione utilitaria che si disinteressa della verità? E l’impulso di allargarne lo spazio fino a comprendere la nozione di fede come elemento cruciale della condizione umana e della storia sociale del mio tempo, che debbo fare, debbo bruciarlo sull’altare del realismo, del relativismo e della solita vecchia morte di Dio? Certe volte il professore non ti lascia scampo.

Le teologie danno sempre il meglio di sé quando trattano la figura del padre, e lo scritto di Mancuso anche in questa ultima parte, dedicata al padre terreno e a quello celeste di Eluana, non fa eccezione (3). Mi fermo sulla soglia di questa definizione del divino, di questa teodicea complessa e sottile, semplice e beata, che Mancuso porta per mano a conclusioni da spirito assoluto hegeliano, conclusioni trionfanti e felici che parlano di “esercizio della libertà consapevole” come soluzione finale del problema, come happy ending. Mi limito a questa osservazione. L’esercizio della libertà consapevole non è la scelta etica che noi facciamo per risolvere il problema della distinzione del bene e del male, non del bene e del male per noi ma del bene morale in sé e per sé: l’esercizio consapevole della libertà è il problema, è il dilemma, è il metodo che si autotrascende accettando il tabù della vita indisponibile o realizzando la possente signoria dell’uomo sull’uomo. Il professore non sempre ti lascia scampo, ma qui non si scappa.

(1) Come ha detto con altre parole il cardinal Ruini nella sua straordinaria conversazione con Marco Burini (Il Foglio, 17 luglio), la teologia laica di Vito Mancuso rompe la forma cattolica ma si propone come modello di pensiero e di scrittura alternativo a una teologia accademica, irrilevante o inerte. Questo intervento del professor Mancuso sul caso di Eluana Englaro, la giovane donna priva da molti anni di coscienza vigile, del cui diritto di continuare a “vivere così” o di lasciare il mondo si sta discutendo oggi in Italia, dimostra che Ruini ha ragione.

(2) In tema di relativismo etico è anche significativa la citazione gloriosa e finale dal cardinal Martini, influente uomo di chiesa convinto che debba essere difeso lo spazio di un relativismo cristiano, anche nella tempesta veritativa scatenata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a coronamento del dramma novecentesco del Concilio. Dice il Martini citato da Mancuso che la dignità del vivere è più importante del vivere. Ora il bios, il vivere biologico, ha un ancoraggio materiale e oggettivo all’essere e al divenire, perché si coglie la differenza tra un corpo caldo e uno freddo, tra un occhio che si apre al mattino e un occhio che non si aprirà mai più; mentre la dignità del vivere è letteralmente disancorata, galleggia nel mare dello spirito, nella decisione di coscienza del soggetto umano libero. La dignità del vivere in opposizione alla vita biologica ha per sé forse la più vera e bella delle realtà cristiane, l’affermazione dello spirito contro la carne, ma è anche equivocabile, è esposta ai sofismi dell’Anticristo e alle lusinghe della disperazione, che cristiana non è, e alle seduzioni del nulla.

(3) E’ un errore, secondo me, attribuire lo spirito maligno dell’insinuazione personale, frutto per di più di odio teologico deviato e dunque di fanatismo arcaico, da rogo inquisitoriale, a coloro che criticano duramente come “condanna a morte” la sentenza voluta dal padre di Eluana.

E’ un punto a cui tengo molto, riemerso sempre maldestramente in tutte le polemiche sull’aborto di questi mesi (sei contro l’aborto e allora dici che le donne sono assassine). Io non sono d’accordo con la critica all’amore di padre di Beppino Englaro, che è al di sopra di ogni considerazione, in quanto tale, in quanto amore.

Ma le cose vanno nominate con il loro nome. Una sentenza che toglie la vita è una condanna a morte, come la distruzione di un feto nel grembo materno è un omicidio.

Il che non implica affatto la responsabilità personale dei giudici o del padre ricorrente o della gestante. Mi viene da dire: magari fosse tutto risolvibile in termini di responsabilità personali.

Qui è in atto una dialettica di grazia e peccato, da una parte, come nella vita di ciascuno di noi, e una guerra culturale del tutto impersonale all’inservibile concetto di persona umana, un avanzo del cristianesimo che il secolarismo ideologico tende a gettare nella discarica dei suoi incubi.




1 commento:

Martino ha detto...

Trovo i due articoli molto illuminanti, meritevoli entrambi di attenzione. Mi permetto però di esprimere un dubbio: cosa c'è di tanto strepitoso nella "glossa" di Ferrara? Pur cercando di pormi in campo neutrale (cosa non facile, per nessuno, dato che comporta necessariamente un po' di quel relativismo così temuto) l'articolo dell'elefantino non mi pare entusiasmi granchè. Laddove Mancuso è esplicito, lineare, consequenziale, Ferrara si mostra sotteso e velatamente capzioso. Ho notato grande diveristà fra i due stili, il primo che invita la ragione del lettore a seguire il filo del discoso, l'altro che pare più che altro volere quella stessa ragione come spettatrice del discorso, anzichè come protagonista. E qui si potrebbe obiettare che se lo stile argomentativo è diverso, magari più articolato e complesso, non è per questo meno valido. E mi va anche bene. Non ho certo la presunzione di giudicare il modus scrivendi di un giornalista del calibro di Ferrara, pur permettendomi di fare alcune osservazioni a titolo personale.
Quello che però mi prude davvero è l'impressione (neanche tanto vaga) che tutti i tentativi di Mancuso di creare uno spazio di dialogo e di intesa, dal citare il diritto laico all' affermare la coincidenza fra la libertà dell'uomo e la libertà donata da Dio, tutto ciò venga liquidato da Ferrara con una disinvoltura allarmante, come a dire: "d'accordo, ho ascoltato le tue opinioni, ora però ti svelo la verità". E giù con i soliti plateali dualismi, di qua il Bene e la speranza, di la il Male e la disperazione, di qui i valori secolari della religioni e là i dogmi del secolarismo ideologico (sigh). Insomma, era lecito aspettarsi qualcosa di più aperto. Strepitoso? mah...


Attendendo nuovi articoli
Martino