venerdì 26 settembre 2008

LA LEGGE? FATELA CON CURA

Una norma che preservi la “stoffa” del rapporto tra medico e paziente.


... Il timore di alcuni politici del centrodestra (cattolici e non) deriva dal fatto che, come nel caso di Eluana Englaro, l’attuale vuoto legislativo sia colmato da sentenze che si basano sulle “volontà presunte” del malato e non su riscontri oggettivi. Felice Achilli, a capo dell’associazione professionale Medicina e Persona, condivide la preoccupazione “strategica” «ma…»... Ma…

Una norma che preservi la “stoffa” del rapporto tra medico e paziente.

Parla Felice Achilli

TEMPI 23 Settembre 2008
di Emanuele Boffi



Si torna a parlare di come regolamentare, attraverso una legge, le cosiddette “volontà anticipate di trattamento”. La novità, a partire da questa estate, è che a lanciare il dibattito siano stati alcuni esponenti della maggioranza di centrodestra (da anni i Radicali e alcuni settori della sinistra insistono sulla necessità di introdurre in Italia il testamento biologico). Il timore di alcuni politici del centrodestra (cattolici e non) deriva dal fatto che, come nel caso di Eluana Englaro, l’attuale vuoto legislativo sia colmato da sentenze che si basano sulle “volontà presunte” del malato e non su riscontri oggettivi. Felice Achilli, a capo dell’associazione professionale Medicina e Persona, condivide la preoccupazione “strategica” «ma…». Ma…

La preoccupazione è assolutamente condivisibile, ma la domanda per noi che operiamo negli ospedali è se una legge che rimanga all’interno della logica del testamento biologico sia veramente il “male minore” e l’unica soluzione possibile.

Se lo scopo della legge è contrastare la probabile introduzione dell’eutanasia (attiva od omissiva) in Italia, evitare ricostruzioni equivoche della volontà del paziente (come nel caso Englaro) e, soprattutto, affermare che l’assistenza di base, cioè l’idratazione e l’alimentazione e anche la detersione delle ferite non sono un trattamento sanitario, ma un dovere per chiunque, occorre uscire dalla logica del living will. è esperienza di tutti i giorni per noi: il paziente non è una persona astratta, isolata, senza una trama e un contesto familiare, non è un’individuo solo con i suoi “diritti” e preoccupato unicamente di “autodeterminarsi” in qualsiasi circostanza. La preoccupazione più grande, e la garanzia vera che dobbiamo dare, è quella di una vera relazione di cura.

La maggior parte dei pazienti non ci chiede di scegliere ora, in condizioni di pieno benessere, che cosa vorrà o non vorrà accettare nel caso venga colpito da una patologia grave a distanza di anni, ma la certezza di una presenza competente e tenace che condivida l’esperienza della malattia e ne sostenga la speranza. Questa è la logica che sostiene il Ssn, il Codice deontologico professionale, la legislazione sanitaria vigente. E che attribuisce ai medici non solo il compito di fornire prestazioni sanitarie appropriate, ma di vivere fino in fondo il proprio compito di tutela del bene dell’altro.

Al centro della nostra attività non c’è il paziente da solo, ma questa relazione di cura. Il testamento biologico nega alla radice uno dei due soggetti, la logica del consenso informato invece la sottolinea positivamente.

Ma è possibile mettersi a lavorare su un testo di legge? E se sì, quali dovrebbero essere i suoi punti qualificanti?

Penso che il progresso della medicina e della tecnologia ha aperto e aprirà scenari difficili e complicati. Per questo continuo a ritenere che occorra che una legge in qualche modo valorizzi ciò che già c’è, e si muova nella logica di considerare la relazione di cura come l’ambito vero delle decisioni.

Non c’è un paziente uguale all’altro, non tutti rispondono allo stesso modo alle terapie, non sempre è facile esprimere giudizi sulla prognosi di un determinato paziente in modo attendibile. Come è possibile fare diventare questa materia oggetto di decisioni di un tribunale o di un testo di legge?

Penso, comunque, che i punti qualificanti debbano essere i seguenti: che l’eventuale “dichiarazione anticipata” non sia obbligatoria, che riguardi solo alcuni e ben determinati contesti clinici (per esempio, non debba riguardare tutta l’attività relativa all’emergenza-urgenza), che non sia vincolante per il medico, che debba essere il più possibile vicina al contesto reale del paziente perciò rinnovata – al minimo – ogni tre anni e rilasciata in modo chiaro e non interpretabile da terzi.

Sono accettabili le proposte di legge avanzate dai Radicali e dalla sinistra sul testamento biologico?

La logica in cui si muove la sinistra, o meglio, un certa parte della sinistra radicale che pratica più il “diritto” che gli ospedali, è ben rappresentata da una frase che ho letto su Micromega del gennaio 2007: «Il principio di autodeterminazione e il diritto a rifiutare i trattamenti portano nella loro estrema applicazione alla possibilità del suicidio assistito». Mi sembra chiaro.

Lei è a capo di una associazione di professionisti che vivono sul campo e quotidianamente tali problemi. Per quali situazioni, a suo parere, potrebbe servire una legge?

Non mi stupisce che un paziente, per esempio affetto da Sla, possa indicare al curante di voler o non voler essere sottoposto a ventilazione meccanica, nel caso assai probabile che possa andare incontro a un’insufficienza respiratoria acuta; questo rientra però in un’ottica di “consenso informato” che deve aiutare la relazione di cura, e un intervento altamente probabile nel contesto di una patologia già presente, di cui il paziente ha già esperienza. Si tratta perciò di ambiti particolari. Ricordo che già oggi la buona pratica medica, il Codice deontologico e la legislazione sanitaria regolano con precisione la dinamica della relazione medico-paziente attraverso il consenso informato e che il cosiddetto “accanimento terapeutico” è formalmente vietato. Tuttavia, si dice che in questo campo vi sia un vuoto legislativo e che questo debba essere colmato.

Per quanto riguarda il cosiddetto vuoto legislativo, faccio presente che la recente sentenza della Terza sezione della Cassazione relativa a un paziente che aveva rifiutato trattamenti sulla base di motivi religiosi (era testimone di Geova) ha ribadito, diversamente dalla sentenza Englaro, che il diritto alla salute e alla cura non può diventare sinonimo di diritto alla non cura e alla morte.

Non solo, ma anche che qualsiasi scelta non può essere “presunta” ma attuale, interpretando in modo realistico lo stesso articolo 32 della Costituzione. Forse esiste una forzatura nell’interpretazione della Cassazione sul caso Englaro che lo stesso mondo del diritto dovrebbe giudicare.

Che cosa vi preoccupa di più nello svolgere la vostra professione?

Fare il medico o l’ infermiere non è un’attività meccanica, asettica, freddamente distaccata dal malato. Oggi la medicina si sta di nuovo accorgendo di questo. Non si può avere cura realmente di un’altro uomo, farsi carico della sua sofferenza, senza riconoscere un legame misterioso che lega ogni medico o infermiere al paziente, un legame che costituisce la “stoffa” di ogni vocazione professionale.
Ma ciò va educato perché ridurre tale relazione a un mero “contratto” rischia di indurre (e ha già indotto dove è stato introdotto) atteggiamenti di “rinuncia terapeutica” legati alle possibili implicazioni medico-legali del rischio legato alla pratica professionale.

Questa cosiddetta “medicina difensiva” può certamente indurre più danni di mille tribunali. Chi sta lavorando a un’eventuale strumento di legge avrà certamente presente il contesto “pratico” in cui noi operiamo. Speriamo ne tenga conto.


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