venerdì 26 settembre 2008

RIPROPONGO I VARI TESTI

VIAGGIO APOSTOLICO
IN FRANCIA IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO
DELLE APPARIZIONI DI LOURDES
(12 - 15 SETTEMBRE 2008)
INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA
AL COLLÈGE DES BERNARDINS
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI



Parigi, venerdì 12 settembre 2008
Signor Cardinale,
Signora Ministro della Cultura,
Signor Sindaco,
Signor Cancelliere dell’Institut de France,
cari amici!
Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato
dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo grande predecessore, il compianto
Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le
correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la
Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come il Signor Giscard
d’Estaing e il Signor Chirac. Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai
rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio
dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che
nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci
rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver
accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan
in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della
cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.
Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura
europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo
emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani
monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a
vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi
incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un
momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora?
In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande
sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che
stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia
cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma
come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si
riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
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Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di
creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era
molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione
dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi
per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio.
Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente
importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da
intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la
propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo.
Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza
strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di
percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa
via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La
ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si
esprime Jean Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono
interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il
desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il
penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di
noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla
nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio,
diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la
ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica
le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie
vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola.
Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione
con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche
la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in
mezzo alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca
di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa
stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di
ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa
che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà
essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli
altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma
introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo
riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così
anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo.
“Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più
un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”,
dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con
Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui.
Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui,
portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la
vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni
anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare
in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti
della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il
Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è
l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la
Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua
destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci
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dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai
misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni,
mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la
parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a
Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera
comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo:
di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano
considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si
può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di
tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che
ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la
confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” –
nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per
caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo,
che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella
“zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e
così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È
certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa
parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli
prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i
monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro
affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio
e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si
trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso,
prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava
piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della
musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo
mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche
veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è
sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un
breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai
monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente
un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e
i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore;
esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che
noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani,
colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la
Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con
buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come
“le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di
Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge
soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo
attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa
che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in
espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono,
da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e
l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista,
sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de
Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria,
cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.
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Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno
dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In
essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un
altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono
soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente
percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi,
in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con
buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel
senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso,
che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa
struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la
sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio
stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla
occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal
movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre
e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola
e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa
significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire
dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà
vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e
la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta
Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la
libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del
Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea,
la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la
strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso
tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in
maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della
lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben
oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il
pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale.
Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli
dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe
fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la
mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio.
Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il
monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo
orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene
determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione
rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla
seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il
lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si
dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a
quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito.
Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso
tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del
Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle
proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il
monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del
monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola,
anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose
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praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro
(cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro
particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal
giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di
Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera
sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore;
la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con
la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità
subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il
Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra
come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”.
Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai.
Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro
somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di
Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della
parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua
formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di
far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare
con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo
eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi
nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di
fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che
questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in
ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta,
aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio
stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino
dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della
Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare.
Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un
primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in
questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro
agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole:
deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può
trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola
di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione
classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase
della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica
per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione
(logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve
diventare apo-logia, deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non
hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad
aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura
della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era
mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che
riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e
l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme
il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a
seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le
loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo
presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli
ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che
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aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni
straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità
straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione:
Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo
non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono:
l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è
l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche
modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità,
ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli
uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1,
21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli
non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio
cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E
adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un
pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che,
esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum
est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto
è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo;
occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad
Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città
non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato
veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era
nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è
tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e
lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura
meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la
domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più
alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che
gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad
ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
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