martedì 27 novembre 2007

PERCHE' BENEDETTO XVI E' COSI' CAUTO CON LA LETTERA DEI 138 MUSSULMANI

Perché il dialogo che lui vuole è tutto diverso. Il papa chiede all'islam di compiere lo stesso cammino che la Chiesa cattolica ha compiuto sotto la pressione dell'Illuminismo. L'amore di Dio e del prossimo deve realizzarsi nell'accettazione piena della libertà religiosa
di Sandro Magister

"In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica.

"Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo.

"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.



ROMA, 26 novembre 2007 – La lettera dei 138 musulmani indirizzata lo scorso mese a Benedetto XVI e ai capi delle altre Chiese cristiane ha avuto una spettacolare risposta collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York Times" del 18 novembre, firmato da 300 studiosi.

Il messaggio è nato nella Divinity School della Yale University, in particolare per impulso del suo decano Harold W. Attridge, professore di esegesi del Nuovo Testamento.

I firmatari appartengono per la maggior parte a confessioni protestanti, di tendenza sia "evangelical" che "liberal", e tra essi c'è una celebrità come il teologo Harvey Cox. Ma nella lista dei 300 c'è anche un vescovo cattolico, Camillo Ballin, vicario apostolico nel Kuwait, comboniano. Sono cattolici l'islamologo John Esposito della Georgetown University e i teologi Donald Senior, passionista, e Thomas P. Rausch, gesuita, della Loyola Marymount University. E sono cattolici – sia pure ai margini dell'ortodossia – Paul Knitter, esponente della teologia del pluralismo religioso, ed Elizabeth Schüssler Fiorenza, docente a Harvard e teologa femminista.

Il messaggio si profonde in lodi della lettera dei 138. Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia. E premette a tutto una richiesta di perdono "all'unico Dio di tutte le misericordie e alla comunità islamica di tutto il mondo".

Richiesta di perdono così motivata:

"Dal momento che Gesù dice: 'Togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello' (Matteo 7, 5), noi vogliamo cominciare col riconoscere che nel passato (vedi le Crociate) e nel presente (vedi gli eccessi della 'guerra al terrore') molti cristiani sono stati colpevoli di peccato contro il nostro prossimo musulmano".

Diffondendo il messaggio, i suoi promotori hanno annunciato che ad esso seguiranno degli incontri con alcuni dei firmatari della lettera dei 138, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nel Medio Oriente, incontri aperti anche ad ebrei.


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A confronto con questo fervore di dialogo, Benedetto XVI e i dirigenti della Santa Sede appaiono più cauti e riservati.

Alla lettera dei 138 musulmani la Santa Sede ha risposto fin da subito con dichiarazioni di cortese accoglienza. Ma ha rimandato a tempi più lontani una risposta più approfondita.

Anche il primo commento alla lettera dei 138 finora emesso da un organismo collegato alla Santa Sede – il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'islamistica – è stato tenuto in ombra, nonostante mettesse in evidenza gli elementi nuovi e positivi dell'iniziativa musulmana.

Non ne ha riferito neppure "L'Osservatore Romano". L'unico cenno alla lettera dei 138 finora apparso sul giornale della Santa Sede è stato all'interno di una nota che annunciava e commentava l'incontro del 6 novembre di re Abdallah d'Arabia Saudita con Benedetto XVI. "L'Osservatore" non ha dato notizia nemmeno dei commenti alla lettera dei 138 di due studiosi dell'islam molto stimati da papa Joseph Ratzinger, i gesuiti Samir Khalil Samir. egiziano, e Christian W. Troll, tedesco.

Ma è proprio dalla lettura di questi commenti – in particolare quello di Troll – che si capisce il perché della cautela della Chiesa di Roma.

Troll fa notare che la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e teologico.

Ma – obietta Troll – tra il Dio unico dei musulmani e il Dio trinitario dei cristiani, con il Figlio che si fa uomo, la differenza è abissale. Non può essere minimizzata, tanto meno negoziata. La vera "parola comune" va cercata altrove: "nell'applicare quei comandamenti alla concreta realtà delle società pluraliste, qui ed ora". Va cercata nella tutela dei diritti umani, della libertà religiosa, della parità tra uomo e donna, della distinzione tra i poteri religioso e politico. Su tutto questo la lettera dei 138 è elusiva o muta.

E lo è volutamente. Uno dei principali autori della lettera, il teologo libico Aref Ali Nayed, professore all'università di Cambridge, si è spiegato così in un'intervista a "Catholic News Service", l'agenzia della conferenza episcopale degli Stati Uniti:

"Il dialogo etico-sociale è utile e se ne ha un grande bisogno. Ma un dialogo di questo tipo avviene già ogni giorno, attraverso istituzioni del tutto secolari come le Nazioni Unite e i suoi organismi. Se delle comunità fondate sulla rivelazione religiosa vogliono veramente dare un contributo all'umanità, il loro dialogo deve essere teologicamente e spiritualmente fondato. Molti teologi musulmani non sono affatto interessati a un dialogo puramente etico tra culture e civiltà".


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Qual è invece il dialogo con l'islam voluto da Benedetto XVI?

Il papa l'ha spiegato nel modo più limpido in un passaggio del discorso prenatalizio alla curia romana del 22 dicembre 2006:

"In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica.

"Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo.

"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.

"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione.

"Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.

"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".


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Di questa proposta lanciata al mondo musulmano da Benedetto XVI nel dicembre di un anno fa, nella lettera dei 138 non c'è traccia. Segno che la distanza tra le visioni dell'uno e degli altri è davvero forte.

La visione di Benedetto XVI è la stessa che altre autorità della Santa Sede manifestano ogni volta che si toccano questi temi. Ne è prova il messaggio rivolto ai musulmani lo scorso ottobre, in occasione della fine del Ramadan, dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran: messaggio che ha anch'esso al suo centro "la libertà della fede e il suo esercizio", come compito di tutte le religioni, conforme al "piano del Creatore".

Ed è una visione che Ratzinger va argomentando da anni con grande coerenza, prima da cardinale e poi da papa.

La lezione di Ratisbona sulla doverosa "sinergia tra fede e ragione" ne è la fondazione più compiuta.

Ma, prima ancora, le premesse di come Benedetto XVI concepisce il dialogo con l'islam e le altre religioni vanno rintracciate nella discussione che egli ebbe nel gennaio del 2004, a Monaco di Baviera, con il filosofo laico Jürgen Habermas.

In quell'occasione, Ratzinger disse che un "diritto naturale" universalmente valido non è affatto riconosciuto oggi da tutte le culture e civiltà, divise tra loro e divise su questo anche al loro interno. Ma indicò la strada perché "le norme e i valori essenziali conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani" possano ricevere luce e "tenere unito il mondo". La strada è quella di un legame positivo tra ragione e fede, "chiamate alla reciproca purificazione" dalle patologie che espongono l'una e l'altra al dominio della violenza.

C'è un grande studioso che ha analizzato con particolare lucidità la visione di Benedetto XVI in rapporto all'islam: il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, in un saggio apparso quest'anno in Germania e tradotto in Italia dalla rivista "Il Regno".

Böckenförde concorda in pieno col papa nel ritenere che l'islam ha oggi di fronte una sfida simile a quella posta ai cristiani dall'Illuminismo, in materia di libertà di religione.

La Chiesa cattolica rispose a quella sfida, nel Concilio Vaticano II, con la dichiarazione "Dignitatis Humanae" sulla libertà religiosa fondata sui diritti della persona.

Ma il mondo islamico – chiede Böckenförde – è pronto a fare un analogo cammino? È pronto a riconoscere la neutralità religiosa dello stato e quindi la pari libertà, nello stato, di tutte le religioni?

I musulmani che vivono "in diaspora", cioè come minoranze nei paesi dell'Europa e dell'Occidente, sembrano disposti a questo riconoscimento. Ne è prova una dichiarazione adottata nel 2001 dal comitato dei musulmani di Germania, che dice: "Il diritto islamico vincola i musulmani che vivono in diaspora ad attenersi all'ordinamento giuridico del luogo".

Ma dove i musulmani sono maggioranza e controllano lo stato? Böckenförde è scettico. Ritiene che l'islam, in situazione di forza, rimane molto lontano dall'accettare la neutralità dello stato e quindi la piena libertà di tutte le religioni.

Böckenförde ne è così convinto che conclude il suo saggio esaminando una ipotesi di scuola: l'ipotesi che in un paese europeo gli immigrati musulmani siano vicini a diventare la maggioranza della popolazione.

In questo caso – sostiene il giurista tedesco – quel paese ha il dovere di chiudere le frontiere. Per ragioni di autodifesa. Perché uno stato secolare non può rinunciare a quel "diritto naturale" che è il suo fondamento: "un diritto indotto dall’appartenenza a un mondo culturale radicato su elementi della classicità, dell’ebraismo e del cristianesimo, ma ripensati entro un orizzonte illuminista".


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In ogni caso non mancano, nel pensiero islamico d'oggi, posizioni "aperte a una razionalità tollerante", come le definì Ratzinger nel suo colloquio con Habermas del 2004.

A una di queste posizioni dà rilievo padre Maurice Borrmans, già preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica, sull'ultimo numero di "Oasis", la rivista multilingue, anche in arabo e urdu, promossa dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.

Borrmans cita uno studioso tunisino residente a Parigi, Abdelwahab Meddeb, che ha positivamente commentato le tesi di Benedetto XVI in un saggio dal titolo "Le Dieu purifié", all'interno di un libro a più voci pubblicato in Francia: "La conference de Ratisbonne: Enjeux et controverses".

Scrive tra l'altro Meddeb:

"A Ratisbona il papa ha voluto incitare i musulmani a condurre un lavoro d'anamnesi perché depongano la violenza e ritornino all'articolazione del logos che i loro antenati avevano conosciuto, al fine di poterlo ampliare e approfondire".

E dopo aver ricordato tra gli "antenati" di un islam purificato dalla ragione il grande filosofo Averroè (1126-1198), così prosegue:

"È verso questi territori che il musulmano deve far ritorno, per partecipare al grande logos, al suo ampliamento e al suo approfondimento nella via della purificazione che neutralizza la violenza e che instaura una serenità etica".

Abdelwahab Meddeb non è tra i firmatari della lettera dei 138, e neppure della lettera dei 38 di un anno prima.

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