giovedì 29 novembre 2007

RICORDARE IL PASSATO PER IMMAGINARE UN FUTURO

Claudio Risé
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Ricordare aiuta a guarire?

A partire dalla fine dell’800, con i primi studi di Freud sulla psicoanalisi, fino a ieri, si è fermamente ritenuto di sì. All’inizio si frugava nella mente dell’individuo, alla ricerca individuale di un trauma originario.

Negli ultimi anni si è allargata la tecnica, convocando interi gruppi, a volte masse di persone, impegnandole a «ricordare». Così si è fatto dopo l’11 settembre, dopo i grandi uragani caraibici o tsunami dell’Estremo Oriente. È servito? Non a molto.

Quasi inutili sono anche le grandi sedute di ricordo collettivo con cui l’individuo postmoderno cerca di rompere il silenzio della solitudine. Nelle palestre cittadine, negli agriturismo, nei conventi, si moltiplicano raduni a pagamento, dove la materia prima è, appunto, il ricordo. Sollecitato dal conduttore, il ricordo (torbido, o radioso, sempre emozionante), presentato con esitazione o con esibizionismo dai partecipanti, viene assorbito avidamente dal gruppo che poi lo commenta, a volte lo rappresenta come un evento teatrale, lo disegna.

Attorno a questi ricordi riaffiorati (o presenti da sempre nella psiche di chi li racconta), accadono, apparentemente, molte cose. Altri hanno ricordi simili, si emozionano, piangono.
Quelle immagini che tornano dal passato stimolano, a volte, la decisione di cambiare aspetti della propria vita, come uno o più partecipanti annunciano solennemente di fare. Spesso, però, quando si torna a casa, nel quotidiano, sono poche le cose che cambiano davvero.

L’incontro, il workshop (come spesso si chiama), diventa solo una parentesi (dove magari si è fatta qualche nuova conoscenza che si fatica a non perdere), nell’esistenza di prima, con i problemi di sempre.

Anche la psicoterapia, che stenta a cambiare la vita quotidiana, si rifugia a volte in una caccia al ricordo, amplificato, ingrandito come una quinta di teatro, e sposta in esso l’origine delle fatiche di oggi. Un’ombra nera di un sogno che ti afferra, diventa così (con l’aiuto di qualche libera associazione), un padre, o un educatore molestatore.

Il paziente si ritrova allora tra le mani una nuova sceneggiatura, sulla quale ritrascrivere la propria vita, le sue difficoltà, ed i suoi insuccessi. A partire da questi ricordi fabbricati tra sogni, fantasie, nostalgie, e paure infantili, sono poi state fatte denunce, processi, qualche accusato si è ucciso, qualche altro è stato fulminato dall’infarto, dicendosi innocente.

Oggi, dopo più di un secolo di psicoanalisi (ma Freud l’aveva già detto quasi subito), si sta finalmente capendo che il ricordo, da solo, non è sufficiente né a provare la propria verità, né a modificare la situazione psicologica di chi lo racconta.
Altre terapie però, nate dopo e più in fretta, ancora non lo sanno.

La stessa scoperta si è infatti ripetuta, anche se in più grande stile, nelle rievocazioni dei grandi traumi collettivi, uragani, guerre, indotte da terapeuti specializzati nei sopravvissuti alle catastrofi naturali o artificiali. Molti esperti che hanno seguito queste esperienze ne hanno concluso che rievocare i ricordi traumatici in sedute collettive peggiora, anziché migliorare, la situazione delle persone.
Il trauma è già stato assorbito a livello corporeo, con disturbi gastrointestinali, emicranie, dermatiti, e la psiche avrebbe piuttosto bisogno di messaggi ed immagini “correttive”, positive, anziché rafforzare e mantenere presente il ricordo di un evento da cui l’individuo (ed il gruppo) deve allontanarsi.

Non dobbiamo ricordare il passato per perdercisi, ma per immaginare un futuro.

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