sabato 10 novembre 2007

ADERITO STORIA DI UNA AMICIZIA


Aderito, storia di un’amicizia
La cronaca li ha portati alla ribalta. Rom, zingari, romeni o chissaché - perché si fa in fretta a fare confusione -, ma, in ogni caso, pericolosi. Di più: la piaga sociale del momento. E un bel grattacapo per politici e quant’altri. Ma con chi abbiamo a che fare in realtà? Che cosa permette di entrare in rapporto con loro? Ne abbiamo parlato con Tiago Maymone, portoghese, tecnico delle telecomunicazioni. Partito da una semplice caritativa in un quartiere alla periferia di Lisbona, è arrivato a mettere in piedi l’Oficinas Romani, una scuola per ragazzi gitani. E, soprattutto, a costruire un’amicizia. Con Aderito, il capo della comunità zigana, e con la sua gente. Uomini, come lui.




Come è nato il rapporto con i gitani?
Prima di rispondere, meglio chiarire una cosa: i gitani di qui non abitano accampati in baraccopoli e roulotte. Stanno in zone povere e di periferia, ma hanno le loro case. Non chiedono l’elemosina per principio. Vivono di commercio (legale e non) e ormai non si considerano più un popolo nomade. All’inizio, però, la cosa che più mi ha colpito era la loro predisposizione all’inganno: meglio inganni chi non appartiene al tuo gruppo, più ti contraddistingui come un buon gitano. Volevo capire il perché del loro atteggiamento. E questo mi ha spinto a scavare più a fondo. In parte è una caratteristica che appartiene alla loro storia. Ma ho capito che, in realtà, si tratta anche di una risposta alla diffidenza che ricevono quasi sempre. Come noi abbiamo un’idea stereotipata di “zingari”, così loro ci trattano partendo da un pregiudizio generico sui “bianchi”. Io gli ho dato fiducia e sono tornato nonostante gli inganni: questo ha vinto le resistenze. È così con tutti, ed è stato così anche con Aderito. Sono stato con lui, non con “uno zingaro”. Da uomo a uomo. Fino a proporgli quello che vivo, Scuola di comunità compresa. Da un rapporto così si può partire per affrontare i problemi.

Da qui anche la costruzione della scuola…
L’idea è nata da una loro necessità. Venivano sfrattati dal quartiere dove abitavano, il che avrebbe significato lo sfaldamento della comunità. Bisognava costruire un luogo che fosse un punto di riferimento. Aderito era rimasto colpito dal modo in cui io e gli altri della caritativa stavamo con i loro ragazzi. Così abbiamo deciso di costruire insieme un punto di ritrovo per la sua comunità. E un po’ alla volta è nata la scuola. Un centro di formazione professionale, legato alla loro tradizione: imparavano a lavorare il legno e costruire chitarre.

Quali frutti ha portato la scuola?
Abbiamo aperto nel 1997, poi, dopo cinque anni, il governo ha tagliato i fondi e abbiamo dovuto chiudere. Ma l’esperienza che ha generato è ancora viva. È stata l’occasione per fornire un’educazione di base ai ragazzi. E questo è l’inizio dell’integrazione nella vita sociale. Uno dei motivi per cui gli zingari tendono a isolarsi è la paura di perdere le loro tradizioni. Così spesso rimangono nell’ignoranza e nella diffidenza delle istituzioni. A scuola hanno imparato a fidarsi degli insegnanti “bianchi”. A studiare tradizioni diverse da quella gitana scoprendo che questo non significava perdere nulla della propria identità. Posso dire di vederne i frutti ancora oggi: i ragazzi che hanno studiato lì adesso hanno il desiderio che i loro figli vadano a scuola. E questa è una cosa che non si era mai vista prima tra gli zingari.
Maddalena Vicini



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