mercoledì 25 giugno 2008

SCUOLA DELLE OPERE DI CARITA'

Appunti
dall’Assemblea conclusiva
con
don Julián Carrón


Milano - 16 febbraio 2008
Moderatori: Antonio Mandelli, Mario Dupuis
La Scuola per Opere di Carità, promossa dalla Fondazione per la Sussidiarietà e CDO Impresa Sociale, nasce dal desiderio di rendere sistematico il modello formativo proposto dai fortunati cicli di lezioni svoltisi nel 2004 e nel 2005, rispettivamente intitolati Il rischio educativo e il miracolo dell’ospitalità e La prima carità è l’educazione. La Scuola intende rispondere al bisogno di “educazione permanente” degli operatori delle Imprese Sociali aderenti a CDO Impresa Sociale (professionistie volontari) i quali, operando nell’ambito dei servizi a persone in statodi grave disagio o solitudine, vivono l’esigenza di confrontarsi sulle problematiche professionali e umane che emergono dal loro lavoro.




La Scuola per Opere di Carità 2007 - che ha per titolo Carità, alla radice della risposta al bisogno - si è articolata in due percorsi.


La formazione base, rivolta a coloro che sono impegnati a vari livelli nelle Organizzazioni Non Profit, si è sviluppata in tre lezioni frontali e una assemblea, nel corso delle quali è stato trattato il tema di come un’attività fondata sulla carità (“dono di sé commosso”) possa informare anche gli aspetti professionali di una ONP.


La formazione specialistica, destinata a manager ed operatori professionali di strutture non profit, ha invece affrontato temi specifici rispondenti alle esigenze pratiche degli iscritti per svilupparne tutte le competenze e conoscenze, in vista di un servizio alla persona che si contraddistingua per la qualità e l’orientamento all’eccellenza.


Per il 2008 è previsto un nuovo ciclo dal titolo La carità sarà sempre necessaria che si propone di dimostrare come una posizione umana e Per il 2008 è previsto un nuovo ciclo dal titolo La carità sarà sempre necessaria che si propone di dimostrare come una posizione umana e cristiana, aperta alla condivisione del bisogno, porti a costruire luoghi di reale accoglienza.


Due novità contrassegnano l’edizione di quest’anno: innanzitutto le lezioni saranno organizzate sotto forma di testimonianza. Alcune opere rappresentative di CDO Impresa Sociale racconteranno infatti il lavoro che svolgono, entrando nel merito delle problematiche che devono affrontare. In secondo luogo, per consentire ai partecipanti un approccio ancora più diretto e concreto ai temi presentati, alle lezioni faranno seguito alcune visite guidate presso queste stesse opere.


Per informazioni e iscrizioni:
segreteriacorso@cdo.it
tel. 0267396211


Il programma della Scuola 2008 è consultabile sul sito
www.cdo.it—impresasociale


Introduzione


La Scuola Opere di Carità 2007 ha particolarmente segnato per le nostre opere l’esperienza di educazione e di formazione, perché ci ha portati, dentro il cammino di questi anni, ad esprimere con sempre meno ambiguità la domanda fondamentale: perché la carità è alla radice della condivisione del bisogno e perciò perché la carità è esito di una educazione e non meccanicamente qualcosa che salta fuori per il fatto stesso che rispondiamo a dei bisogni. Tutte le parole che ci sono state proposte sono derivate da un’esperienza di affronto della realtà e hanno sempre rilanciato ognuno di noi in questa avventura. È così che, attraverso opere di istruzione, di formazione, di cura di una malattia psichica, di sostegno a chi ha difficoltà, di accoglienza per chi non ha nessuno, si può documentare la passione di un io a riconoscere il fattore supremo che costituisce ogni gesto e ogni azione, aprendo così la ragione e il cuore al cammino della carità come educazione. Il frutto più grande di questa Scuola è cominciare a capire che non si risponde veramente al bisogno – qualunque esso sia – se non c’è questa esperienza in atto. Siamo arrivati all’Assemblea con don Julián Carrón attraverso due momenti fondamentali della Scuola 2007. Innanzitutto la lezione introduttiva di don Stefano Alberto “La ragione della carità: volere che l’altro sia” ha introdotto una questione fondamentale per chi come noi è impegnato in opere di risposta al bisogno: per la modernità non basta liberarsi di Dio, occorre che ci si liberi anche della ragione e dei suoi vincoli logici, del suo rapporto essenziale con la realtà. Per essere libera la coscienza deve scindere il suo legame con la ragione, cioè con il pensiero forte che fa della coscienza un luogo di distinzione tra il bene e il male, affidandosi alla volontà di potenza mascherata da pensiero debole. E l’emblema di questo è la cosiddetta tolleranza in cui l’agire sociale, l’altruismo, la beneficenza, è ultimamente accolta, a patto si rinunci a porre domande, le domande che stanno alla radice del nostro essere. Nel fare del bene ci può essere, perciò, la riduzione terribile, la rinuncia non solo a qualunque istanza religiosa, ma anche la rinuncia radicale all’uso della ragione, proprio come esigenza originale di un senso e di un significato. Il secondo momento è stata l’assemblea del 9 giugno, a cui ha partecipato Giorgio Vittadini. Con la sua sintesi, è come se ci avesse detto: guardate a quello che c’è, guardate all’esperienza. E quello che si capisce dall’esperienza è che:


1) la creatività è paragone gratuito con la realtà;
2) il paragone gratuito diventa metodo obbedendo a qualcosa di concreto che, nel nostro caso, è la struttura civile di un’opera;
3) di fronte alle leggi e ai regolamenti, noi cerchiamo di affermare ciò che è più necessario alla nostra azione, perciò accettiamo la sfida che ci pongono.


Quindi, concludendo quell’incontro, si diceva che il corso va avanti perché abbiamo stima di quello che stiamo rischiando come espressione del desiderio del nostro io, perché se no saremo delusi di non avere chi ci dà istruzioni per l’uso e ci risparmia il dramma della fatica, che viene dal confrontarsi ed immergersi nella realtà. La ricchezza del terzo momento, conclusivo della Scuola 2007, è tutta documentata in questo libretto che affidiamo al lavoro e al paragone di ognuno di noi e di ognuna delle nostre opere, per renderci più consapevoli di come continuare la strada iniziata.


Mario Dupuis e Antonio Mandelli

Appunti dall’Assemblea conclusiva
Con i contributi di:
don Julián Carrón,
Presidente Fraternità di Comunione e Liberazione
Antonio Mandelli, Presidente CDO Impresa Sociale
Mario Dupuis, Direttore Scuola per Opere di Carità


Antonio Mandelli. Benvenuti a voi presenti in sala e agli amici collegati a Madrid.


Questa è l’assemblea conclusiva della Scuola per le Opere di Carità, che abbiamo iniziato l’anno scorso con un primo incontro, guidato da don Stefano Alberto, su “La ragione della carità: volere che l’altro sia”, e proseguita con l’incontro, condotto da Giorgio Vittadini, su “Carità e rilevanza civile dell’opera”.


Oggi abbiamo il piacere, e gliene siamo molto grati, di concludere questo lavoro – che si è sviluppato durante l’anno con incontri di ripresa e altri momenti di formazione previsti dal programma – con questa assemblea, guidati da don Julián Carrón. Mario Dupuis ha riassunto gli interventi, le domande e i contributi che sono pervenuti in preparazione di questa assemblea.


Mario Dupuis. Alcuni anni fa, quando il corso delle Opere di Carità ha acquistato il carattere di un percorso di conoscenza e di approfondimento dell’idea di carità che ci propone il nostro carisma, soprattutto con le lezioni di don Pino e le esemplificazioni guidate da Giorgio, è stato come accettare di uscire da un precostituito, da un consolidato, sia di coscienza che di conduzione dell’opera in cui ognuno era. Molti fra di noi si sono accorti, anche attraverso questo lavoro, di trincerarsi dietro il fatto di “fare del bene”. Così, senza volerlo, uno scivola nel cercare nel valore dell’opera la giustificazione di quello che fa: non facciamo soldi, viviamo con chi è debole e bisognoso, e questo in fondo ci basta per giustificare tutto. E così il fare del bene non trova la sua ultima consistenza e radice.


Abbiamo accettato la sfida di inoltrarci in un cammino nuovo di conoscenza, che non azzerasse o sconfessasse nulla, ma che potesse rispondere al nostro desiderio di sapere quello che avevamo tra le mani. E più i dialoghi e le lezioni si succedevano, più abbiamo incominciato a capire che nessuno ci poteva dare istruzioni per l’uso, conferme o smentite, che la carità come ce l’ha insegnata e testimoniata don Giussani scatena – se presa sul serio – un cammino di conoscenza e non l’applicazione di un comportamento esatto.


Oggi, don Julián, siamo qui con la ricchezza di fatti che ci aprono domande e problemi, certi che la partita è veramente su ognuno di noi e che il primo compito delle nostre opere è che questo dramma dell’io abbia più spazio possibile. A partire da questo lavoro e dagli interventi arrivati, vediamo tre questioni di metodo che vorrei porti.


La prima. A La Thuile tu hai detto: «Un’opera è espressione dell’io, nasce da una persona che dice: “Io”. Ci rendiamo subito conto di qual è la natura dell’io che fa l’opera dal modo con cui concepisce la natura del bisogno, a cui, con l’opera, cerca di rispondere». E aggiungevi: «Qui incomincia a vedersi la diversità. Noi non possiamo essere ricattati dal bisogno. Se vogliamo conservare questa diversità dobbiamo obbedire al Mistero».


L’esperienza in molte nostre opere è che non basta, per andare avanti, che questo modo con cui si concepisce la natura del bisogno sia una posizione teorica, corretta ma teorica, semmai per farla valere come cosa che ci contraddistingue dagli altri che, secondo noi, farebbero solo opere di assistenza.


Un contributo arrivato dice: «Dopo ventidue anni ci imbattiamo frequentemente in problemi di stanchezza e demotivazione degli operatori e, dall’altra parte, di stanchezza degli utenti, che esprimono continuamente il desiderio di andarsene, traditi entrambi da una promessa di guarigione che stenta a venire. Ci si domandava, allora: che cosa unisce le esistenze di queste persone, operatori e utenti, che sono così stanche di stare insieme, pur condividendo la maggior parte del tempo della loro vita? Che cosa c’è di terapeutico in questa noia imposta agli utenti in nome della cura? Che cosa resta di professionale nello spirito di questi operatori disorientati e senza prospettive di significato nel loro lavoro?».


Queste domande possono bloccare in una insoddisfazione o aprire a un percorso; quello su cui si fa fatica è arrendersi al fatto che è un percorso, che agire per puro amore – come dice don Giussani – è inimmaginabile come schema da applicare.


Questa fatica fa nascere un’incertezza, un’insana precarietà dell’io, non l’abbandono di sé dentro un metodo sicuro. Così – dice un altro contributo – «di fronte a un fatto bello che avviene nell’opera, è incredibile come lo stesso evento possa generare stupore e gratitudine, oppure non generare nulla, dando tutto per scontato, nessun cambiamento».


Passare dal semplice condividere il bisogno al concepire – come dici tu – la natura del bisogno cui con l’opera si cerca di rispondere, implica un metodo attraverso cui si può sviluppare l’esperienza?


Mi ha sempre colpito che don Giussani affermi che la carità implica l’assenza di ragioni, ma ciò non vuol dire che sia irragionevole. E ti domando ancora: è così che la carità diventa metodo di conoscenza, che la condivisione del bisogno segna la possibilità di un cammino di conoscenza? Un altro contributo dice: «Vorrei capire meglio che cosa
significa essere utili».


Julián Carrón. Provo sempre un certo disagio, non so come dirlo e non so se sia la parola giusta, quando mi invitate a questi incontri; mi sento così colpito davanti a quello che vi vedo fare nel rispondere al bisogno, che mi domando: ma io che cosa devo dire loro? Sono io che devo imparare! Una delle cose che più mi stupisce e mi commuove quando ho l’occasione di incontrarvi, è vedere quanta carità sterminata c’è tra di noi, e per questo provo una sproporzione davanti a tutto quanto incontro.
Comunque, voi me lo chiedete. Così vi offro il piccolo contributo che posso dare al vostro tentativo, sperando di riuscire a esservi utile.



Il punto di partenza – come ci ha sempre insegnato don Giussani – è l’esperienza. Mario mi domandava: qual è il metodo di conoscenza? Da dove parte il percorso della conoscenza?


Io inizierei proprio dalla testimonianza che lui ha letto, perché per capire qual è la natura del bisogno in un modo non ideologico, non precostituito, occorre partire dall’esperienza. Di che cosa ci rendiamo conto tante volte? Di quello che dice questo contributo: che «dopo ventidue anni ci imbattiamo frequentemente in problemi di stanchezza e demotivazione degli operatori e degli utenti». Questa è la prima cosa da guardare, perché se non guardiamo questo, se non troviamo una risposta al nostro bisogno di operatori, non possiamo dare una risposta adeguata al bisogno degli utenti. Sul bisogno degli utenti possiamo fare tantissime chiacchiere, in modo riduttivo secondo l’immagine che ognuno ha del bisogno o di come lo interpreta, ma dove non possiamo fare questo è davanti al “nostro” bisogno. Per questo don Giussani ci dà una mano costantemente quando dice: il punto di partenza è l’esperienza. Il punto di partenza, amici, è l’esperienza che tante volte facciamo della stanchezza e della demotivazione, perché è soltanto se prendiamo sul serio questo che, allora, scatta un percorso della conoscenza che mi rende consapevole: «Ma io di che cosa ho bisogno? Qual è la natura del mio bisogno perché io possa rispondere a questa stanchezza e riempirmi di più di motivi per continuare a fare in un modo veramente vero e gratuito?».


Per questo vi chiedo di essere leali, perché in questa condivisione del bisogno degli altri la prima cosa di cui ci rendiamo veramente conto è il nostro bisogno; viene a galla non l’immagine del bisogno, ma il vero bisogno, la realtà del nostro bisogno. Soltanto se prendiamo sul serio questo, possiamo iniziare un percorso che ci consenta di trovare una risposta adeguata ad esso. E solo se troviamo una risposta adeguata al nostro bisogno, possiamo diventare compagni di coloro che si rivolgono alle vostre opere cercando una risposta.


Qual è la natura del bisogno? Che esso ci fa capire la sproporzione strutturale che ci costituisce. La grandezza di don Giussani è stata di metterci all’opera: non ci ha detto soltanto: «Facciamo la Scuola di comunità su Il senso religioso», ma ci ha buttati sul reale, dicendo: «Incominciamo a fare insieme la Scuola di comunità» con un gesto di carità. Facciamo la caritativa perché venga a galla qual è la vera natura del bisogno, e così possiamo capire che cosa dice Il senso religioso. Mi stupisce che dopo anni in cui uno ha fatto il percorso de Il senso religioso, lo può ripetere dal punto di vista della logica del discorso, ma il nocciolo non l’ha colto. E come si vede questo? Dal modo con cui affronta la vita.


Faccio un esempio molto semplice. Tanti ragazzi vengono a chiedermi di sposarli, o venivano a dirmelo in Spagna; chiacchierando del loro matrimonio, a un certo momento, in un modo o nell’altro, veniva a galla che in fondo pensavano che l’altro doveva rispondere al bisogno, che l’altro era quello che li avrebbe resi felici. Questo mi rendeva consapevole che dopo due anni de Il senso religioso non avevano capito, ma non per cattiveria. Nel modo con cui noi affrontiamo il reale viene a galla qual è la concezione che abbiamo di noi stessi, qual è la concezione della natura del bisogno. Per questo, se l’uno e l’altra non capiscono qual è la natura del bisogno, che l’altro non è in grado di rispondere in modo adeguato, e perciò che occorre aprirsi a un’altra cosa, che occorre allargare la ragione, aprirsi al mistero dell’uno e dell’altra, questo sarà l’origine di tutti i conflitti che scoppiano, poi, nel rapporto degli sposi.


Lo stesso succede in qualsiasi opera: che “promessa di guarigione” – dice il contributo, tra virgolette – possiamo offrire? Possiamo offrire soltanto la compagnia, il tentativo di risposta al bisogno, ma che in fondo non basta se nel modo con cui rispondiamo, tentiamo di rispondere, non entra in prospettiva l’apertura al Mistero come l’unica
possibilità di non essere delusi. Perché inevitabilmente saremo delusi dal fatto che non riusciamo a rispondere e gli altri saranno altrettanto delusi perché non troviamo una risposta adeguata.


Per questo, come vedete, condividere il bisogno inizia un percorso della conoscenza, che ci rende consapevoli del nostro bisogno e che ci porta ad aprirci in continuazione, non in modo teorico, ma come una urgenza del vivere, delle cose che viviamo, che fa saltare questo nostro preconcetto, questo precostituito che di solito non mettiamo mai a tema: il nostro razionalismo, la nostra misura, il tentativo di pensare che noi bastiamo a noi stessi, che noi possiamo rispondere; e proprio per questo, se non riusciamo a rispondere, alla fine siamo stanchi e demotivati. E allora ci rendiamo conto che questo “agire per puro amore”, oltre che essere un bello slogan, non serve. Non è che non lo abbiamo come desiderio, ma se abbiamo cercato di agire così, perché ci stanchiamo? Non basta ripetere come uno slogan che noi agiamo per puro amore. Quando possiamo agire per puro amore, senza dipendere dalla risposta
degli altri? Se noi per primi abbiamo trovato una risposta al nostro bisogno. Per questo, la prima carità è accettare la carità di un Altro su di me. La vera carità è quella del Mistero: «Ti ho amato con un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente». Noi non siamo Dio, siamo sempre bisognosi, e perciò il primo riconoscimento è che abbiamo bisogno di essere amati così, di accogliere l’amore di un Altro, di riempirci dell’amore di un Altro, dello sguardo di un Altro, della tenerezza di un Altro. È questo che toglie la stanchezza e ci riempie di motivi adeguati, perché noi possiamo dare agli altri soltanto quello che trabocca di ciò che riceviamo.


Il “prima” di cui ho parlato l’estate scorsa è sempre decisivo per noi. Non noi – come dice san Giovanni – abbiamo amato Dio: è Lui che ci ha amati per primo. E questo «per primo» non è soltanto cronologico, ma è di ogni istante, per poter trovare l’energia, questo amore, questo puro amore, senza avere bisogno della risposta degli altri. Voi, carissimi – lo capisco bene – vi trovate davanti a persone con le quali occorre una carità sterminata, perché il loro rapporto col reale è ferito, è danneggiato, e queste devono essere come “sconfitte” da una carità senza limiti. Per questo capisco la stanchezza: se uno non si nutre costantemente da un’altra fonte, da un altro amore, è impossibile che non si stanchi. Perché? Perché gli esiti, il risultato non sono sempre a portata di mano, per cui tante volte si incominciano delle opere che poi finiscono perché ci si stanca o, a un certo momento, si smette perché per continuare occorre un amore assolutamente diverso, che non è nelle nostre mani, e che dobbiamo sempre ricevere. È così che possiamo amare – come dice don Giussani – senza ragioni, cioè gratuitamente, non per quello che l’altro mi restituisce dopo, ma gratuitamente, perché io sono riempito di quell’amore che rende possibile donarmi totalmente, senza stancarmi.


Questo percorso è bellissimo perché, rispondendo all’altro, io scopro qual è il senso del mio vivere, qual è la speranza per me del vivere, e perciò sono in grado di comunicarlo agli altri. Se invece non trovo risposta alla mia stanchezza, l’opera di carità diventa la mia tomba, e questo è la sconfitta dell’opera, non perché crolla, ma come sconfitta in noi, perché invece di venire fuori sempre più noi stessi, sempre più saldi, convinti, certi, usciamo sempre più rattrappiti e stanchi.


Per questo io non lascerei perdere la provocazione del contributo di questo amico, perché è la questione decisiva, la stessa che ho trovato negli insegnanti. Perché? Perché alla fine, quando la situazione di distruzione dell’umano in cui ci troviamo è più grande, occorre una carità molto più senza limiti. La distruzione è sempre più grande e troveremo persone sempre più danneggiate nel centro dell’io. Come possiamo essere all’altezza di questo bisogno? Soltanto se noi per primi riconosciamo il nostro bisogno e troviamo una risposta ad esso, altrimenti sarà difficile che possiamo rispondere agli altri, anche dando una quantità sterminata di tempo e di energie. Se, rispondendo al bisogno, non ridestiamo la speranza della gente e la nostra, noi non
rispondiamo ad esso veramente.


Questo significa essere utili. Qual è la mia utilità per la vita di un altro? Come io sono utile veramente a un altro? Se la mia vita testimonia che cosa risponde, qual è la speranza del vivere, attraverso la modalità con cui io rispondo al suo bisogno nel mio piccolo, nel mio tentativo sempre ironico. L’essere utile coincide con la modalità con cui io rispondo.


Pensiamo alla Madonna: qual è stata l’utilità della Madonna? Se le avessimo fatto questa domanda, che cosa avrebbe risposto? L’utilità – noi lo sappiamo bene – della vita della Madonna è stata il suo sì. L’utilità della nostra vita è il nostro sì a questo “prima” di Uno che ci dice: «Ho avuto pietà del tuo niente», è in questa risposta, è nell’accogliere l’amore di un Altro che ci rende capaci di amare e perciò di testimoniare questo amore. Perché una risposta al bisogno che non risponda alla totalità del
bisogno (fino alla sofferenza e alla morte) non è risposta.


Dupuis. Se in questo percorso per capire la sproporzione strutturale che ci costituisce noi riconosciamo la natura del nostro bisogno, quindi la natura di noi stessi, perché in 18 questo cammino c’è il sacrificio? Che cos’è il sacrificio?


Carrón. Il primo sacrificio che dobbiamo compiere è riconoscere che abbiamo bisogno di un Altro. E perché facciamo tanta fatica? Perché noi, come la maggioranza degli uomini, pensiamo di essere autosufficienti, di
cavarcela da soli, di poter rispondere al nostro bisogno o a quello altrui con le nostre energie. Perciò il primo sacrificio, la prima conversione è questa. La resistenza è a riconoscere la nostra dipendenza da un Altro. Perché complicarsi la vita, se è così facile obbedire?


Tutta la fatica che facciamo in più, oltre a quella dovuta, è proprio per questa difficoltà che abbiamo – per una mancanza di consapevolezza del bisogno e per una mancanza di consapevolezza di che razza di carità sterminata ha avuto il Mistero con ognuno di noi – a renderci conto che questa è la vera questione. A me vengono sempre in mente i farisei, non perché fossero ipocriti, ma per questa difficoltà a riconoscere una Presenza che rispondeva al bisogno. Erano disponibili a qualsiasi sacrificio, tranne uno; tutto il resto è secondario. La vera difficoltà nostra, il vero sacrificio, la vera resistenza è a questo, perché se noi cediamo, è Lui che ci accompagna a vivere qualsiasi altro sacrificio, è Lui che diventa compagno, è Lui che diventa sostegno, è Lui che diventa ragione, calore, tenerezza, perdono, misericordia, per tutto il resto. Se noi potessimo darci una risposta da soli, perché avremmo bisogno di Lui?


Dupuis. È per questo che, se manca questo, dentro tutti i sacrifici che facciamo ci sentiamo soli?


Carrón. È così. Questa è la grande difficoltà. Mentre venivamo in auto mi raccontavi come ti aveva colpito una giovane dei tuoi ragazzi che, alla domanda di una cantante famosa che era venuta da voi: «Di che cosa avete bisogno?», aveva detto: «Noi abbiamo bisogno di essere amati».


La questione è la lealtà semplice di quella ragazza, è se noi abbiamo questa semplicità davanti a noi stessi. In un bambino questo è naturale, tanto è vero che per ogni bisogno si rivolge alla madre, non ha nessun problema, ma – come ci ha sempre insegnato don Giussani – fare il bambino da grandi è molto faticoso, perché per arrivare a questa semplicità occorre attraversare tutta una crosta, cioè occorre tutta una educazione, tutto un lavoro. Facendo la Scuola di comunità l’altro ieri una osservava: «I bambini non fanno fatica a credere al testimone, a credere alla mamma quando dice loro qualcosa». E io. «Sì, ma tu, tu non sei una bambina; tu sai benissimo che per credere a un altro, a cui tantissime idee e tantissimi fatti quasi ti impediscono di credere anche davanti a un fatto per cui vedi che è ragionevole credere, devi fare una fatica immane».
Ma noi siamo disponibili a fare questo percorso per diventare bambini? Non bambini inconsapevoli, infantili, ma bambini come atteggiamento di semplicità, che ci consente di cogliere subito le ragioni per cui è ragionevole cedere, e questo non è un di meno, ma un di più di umanità, perché il genio – come dice don Giussani – ha bisogno di pochi indizi; quanto più uno è geniale, tanto più facilmente è in grado di cogliere quando è ragionevole fidarsi. Se noi facciamo fatica non è per la nostra genialità, ma è per la mancanza di essa.


Mandelli. C’è stato un momento, i primi tempi quando ho cominciato a lavorare per la CdO Non Profit, in cui Vittadini mi ha detto: «A Como gli amici di Cometa hanno bisogno». Io ho incominciato ad andare quasi tutte le settimane dai fratelli Figini; mi parlavano dei loro progetti, che adesso stanno realizzando. Le prime volte mi dicevo: «Vediamo come riesco a essere utile a loro»; la mia preoccupazione era di essere utile. Ma loro erano bravissimi. E che cosa è accaduto? Che il mio settimo figlio ha cominciato ad avere problemi. Per il rapporto di amicizia che era nato, mio figlio è andato per due anni a Cometa e adesso è cambiato da così a così: ha recuperato un po’ di anni di studio sta facendo l’università. Allora, alla fine, ho capito che andavo su perché ero io quello che aveva bisogno. Mi arrabattavo per trovare una soluzione per la felicità di mio figlio, e la soluzione era lì, davanti a me.


Dupuis. Un secondo passaggio che ci tocca molto è l’unità tra chi vive nell’opera. L’esperienza ci dice che nell’opera non si bara, perché se l’unità è una cosa da fare o un fattore da tenere presente (frase ricorrente tra noi: un fattore da tenere presente), questo sforzo diventa impossibile dentro l’azione di risposta al bisogno, che è già faticosa di per sé; e anche se questo sforzo sembra dare qualche frutto, è comunque accanto alla vita.


Da questo punto di vista, l’opera è proprio impietosa, perché se la comunione non si sviluppa come concezione dell’io, ma come una cosa buona da tenere presente, diventa una complicazione. Ci si può mettere d’accordo su tutto, meno che su questo; su questo punto decisivo non ci si può “mettere d’accordo”. Se penso alla mia esperienza con l’altra famiglia con cui viviamo a “Cà Edimar”, su tutta l’organizzazione ci possiamo mettere d’accordo, trovare l’accordo, ma su questo punto è impossibile: occorre sorprenderlo e seguirlo.


È significativo un contributo arrivato, che dice: «Mi viene detto che siamo uniti a monte, quindi siamo chiamati a essere una squadra e lavoriamo tutti per lo stesso scopo: abbiamo tutti a cuore il bene dell’opera. Se questo lavoro di squadra non c’è, non decolla, è perché non c’è l’origine chiara e non abbiamo lo stesso scopo. Io non mi sento di dire che la logica sottesa a tali affermazioni non sia vera, ma non mi corrisponde, ci sto stretto e sto facendo tanta fatica perché mi sento ricattato da questa impostazione. Dove stiamo sbagliando? Dove sto opponendo resistenza, mortificando un lavoro comune e, di conseguenza, se è vero, sto nocendo all’opera?».


Carrón. Quello che diceva Antonio ci può dare lo spunto per incominciare a rispondere. Perché proprio la chiarezza del bisogno – come ci ha insegnato don Giussani, l’abbiamo studiato l’anno scorso nella Scuola di comunità – è ciò che ci rende uniti. La prima comunione è nella concezione che ho dell’io: io ho bisogno di un Altro. A uno può occorrere più o meno tempo, un altro può pensare – come diceva Antonio – di andare a dare una mano quando, in realtà, è lui che ha bisogno, ma la questione è la modalità con cui dico “io”, se quando diciamo “io”, se quando ognuno di noi dice “io”, ha dentro l’Altro. E dove sorprendo questo più facilmente? Pensate a una madre. Non ha bisogno di fare esercizi spirituali o non so quale tipo di percorso teorico per dire “io” in un certo modo. Se è in una famiglia normale, la madre non può dire “io” senza mettere dentro questo dire “io” il marito e i figli. L’unità è un fatto. Per questo se non diciamo “io” così, avendo dentro, abbracciando, gli altri, non lo diciamo in modo vero. E questo è una concezione, prima che un fare.


Come si vede se abbiamo questa concezione? Dal modo in cui ci muoviamo. Se a te viene un’idea in “Cà Edimar”, puoi fare da te o puoi, prima di tutto, condividerla con quelli che sono con te. Come si fa squadra?


Nel modo in cui tu, davanti alle cose che ti vengono in testa, incominci a condividerle. Perché?


Non soltanto per un problema etico (perché devo fare il bravo, perché occorre la comunione, ecc.), ma perché senza di loro tu sei meno te stesso, tu non riesci a vedere senza tutti i fattori che ti possono dare un contributo a portare
avanti l’idea.


Tu hai bisogno degli altri. Di nuovo, ritorniamo al primo punto: perché facciamo tanta fatica a vivere l’unità?


Perché, in fondo, non ci sentiamo bisognosi: gli altri sono un’aggiunta, qualcosa che si aggiunge dall’esterno, non fanno parte della mia concezione dell’io, non fanno parte della modalità con cui io dico “io”.


Ognuno deve fare la verifica nella propria esperienza di quando fa in un modo e quando in un altro. Quando uno condivide e lascia che gli altri possano dare il contributo a un’idea geniale che gli è venuta in mente, è meglio per lui e per l’opera, o peggio? Ognuno deve fare questo ragionamento semplice. E allora, senza accorgerci, ci mettiamo a fare squadra. Perché? Perché io percepisco gli
altri non come un’alternativa che mi porta via qualcosa, ma come parte – c’è gloria per tutti –, come ciò che il Signore mi mette accanto per contribuire a un’idea avuta. Ma occorre essere disponibili, questo sì, a lasciare che gli altri possano dare un contributo, che l’idea non sia già così chiusa in me che io non accetto niente.


Provate a pensare, ognuno di voi, alle opere che fate: potete immaginare che l’opera sarebbe arrivata al punto in cui è senza dire “io” così? È impossibile, impossibile! Gli altri non sono stati un’alternativa, che impediva lo sviluppo di me o dell’opera, ma qualcosa che vi ha contribuito. Perciò, 24 fin quando non percepiamo l’altro come un bene e non come un’alternativa, noi ci difendiamo dall’altro. Per questo si tratta di concezione e di giudizio: se uno non giudica nell’esperienza, se non vede nell’esperienza perché gli conviene, perché la comunione gli conviene, prima o poi si stanca di fare il bravo. Se uno fa soltanto perché occorre fare, perché è cristiano in senso teorico, ma non cambia il criterio, in fondo è come un bollino da mettere e non una risorsa, uno si difende e alla fine è difficile mettersi insieme, è impossibile.


Quando facevo il professore, non potevo immaginare di scrivere un articolo senza farlo vedere ai miei amici, e non mi veniva in testa perché “dovevo” farlo (chi mi obbligava a farlo? Nessuno!), ma era una concezione di me; è una
modalità, con cui uno si sorprende in atto in ogni cosa che fa, che io abbia bisogno di te: «Cosa dici di questo?», «Mi è venuta questa idea: che cosa ne dici?». Questo genera l’unità, non come una cosa aggiunta, ma dall’interno di
un’esperienza che facilita proprio questa unità; per cui non devo difendermi dagli altri, perché gli altri sono la risorsa che il Mistero mi dà per portare avanti le cose.


Dupuis. Quando questo è giocato in un ambito amicale è anche facilmente comprensibile, ma in un’opera, dove un tuo amico è il datore di lavoro, entrano anche dei ruoli e uno ha il compito di verificare se si rispetta l’orario di lavoro, oppure uno chiede l’aumento di stipendio e non lo ha… allora molto spesso è come se tutto quello che hai detto si perdesse, come se si complicasse. Perché?


Mandelli. E poi le persone non sono tutte del movimento e magari, in qualche caso, potrebbero essere anche ostili.


Carrón. Che l’altro sia un bene è vero soltanto per chi è del movimento o per tutti? Noi dobbiamo sfidare tutti su questo. Anche al datore di lavoro interessa percepire l’altro come un bene; analogamente, alla persona che lavora conviene guardare il datore di lavoro così. Ognuno deve fare il proprio percorso. Neppure al datore di lavoro, per il fatto di essere il responsabile ultimo, viene risparmiato, per cui può fare un esercito o un luogo di rapporti. E questo non ci è garantito in anticipo per il fatto di essere cristiani. Il fatto della presenza di Cristo mi consente, mi accompagna a fare questo lavoro, ma non lo dà per scontato, in anticipo. Cioè io devo percorrere questa strada e mostrare, testimoniare – con tutta la fatica che tante volte implica – che questa modalità è più consona. E se tante volte, nel nostro modo di affrontare le cose, non è così, devo accettare di essere corretto da un altro, perché se io non riesco, vuol dire che forse non tutto è chiaro nell’impostazione. E questo è una lotta. Perché? Perché gli altri contribuiscono al mio cammino.


Tutte queste situazioni a cui tu fai riferimento a me sembrano decisive, perché vuol dire che c’è un’oggettività fuori di me con cui devo fare i conti: la posso percepire come qualcosa che devo sopportare, che devo subire, o come un’occasione che ho davanti e che io devo vivere come una prospettiva per me. Se non percepisco questo come una prospettiva per me, come una possibilità di sviluppo della mia persona e della mia vita, io subisco e mi arrabbio con gli altri. Faccio un esempio.


Una volta ho chiesto a una persona di collaborare con un altro, e lei, per la storia precedente con quest’altro, faceva una fatica enorme, e diceva: «Guarda, non ce la faccio». Gli dico: «Se tu non capisci che lì c’è una strada per te, di sviluppo per te, tu non ce la farai mai. Chi te lo fa fare? Invece se tu percepisci che in quel rapporto c’è una possibilità di crescita, il fatto che tu ti trovi così sconfitto, prima ancora di incominciare, questo mette in evidenza la tua fragilità, non quella dell’altro. L’altro dovrà fare il suo percorso, ma tu, che ti senti già così sconfitto davanti a lui, puoi andare via sconfitto o puoi vedere questo come una occasione che il Signore ti dà per fare un percorso che ti consenta di essere più te stesso, più consistente. Perché – come ho detto altre volte – non è l’altro che ti rende inconsistente: l’altro ti rende consapevole dell’inconsistenza che hai; e tu, davanti a questa inconsistenza, vuoi fare un
lavoro per renderti sempre più consistente o preferisci sfuggire e portare la tua inconsistenza altrove? Perché non lo risolvi il problema andandotene, semplicemente porti la tua inconsistenza altrove. Se in queste situazioni uno percepisce la possibilità di un percorso per sé, qualsiasi sia la risposta dell’altro, se l’altro sbaglia, non lo giustifico, ma non devo aspettare che l’altro cambi, perché posso fare un percorso domandandomi: che cosa chiede a me questa circostanza? Con il datore di lavoro e con il lavoratore: che cosa chiede a me? E meno male che non c’è ovile in cui questo ci venga risparmiato. Per uno che vuole camminare nella vita è fondamentale, perché allora tutto quello che accade è un’occasione per un percorso di conoscenza, perché tante volte è così che noi cominciamo a conoscere veramente l’altro: queste situazioni sono l’occasione di un vero rapporto; e il fatto che a volte non riusciamo, esige pazienza, come quella che il Signore ha con noi, ma è impossibile che incominciamo a prenderlo in considerazione, se non intravediamo in qualsiasi situazione una convenienza per noi.


Dupuis. Ma allora è una verifica della fede, questa!


Carrón. Certo! È lì dove io verifico la mia fede, perché non decido io quali sono le circostanze in cui il Signore mi chiama a vivere; Lui mi dà la Sua presenza, la Sua compagnia, la compagnia di coloro che Lui chiama alla stessa fede con me per mostrare, nel reale, nel modo con cui io vivo il reale, che razza di novità entra nella vita; e lo fa non per risparmiarmi la verifica, perché se me la risparmiasse come potrei vedere che portata ha la fede, che novità ha introdotto Cristo? E siccome a me quello che interessa non è soltanto rispondere al bisogno, ma crescere nella fede, avere una certezza sempre più grande in Cristo, senza di questo che cosa stiamo a fare qua? E non perché non vogliamo rispondere, ma perché non c’è speranza per nessuno se io, in tutto il percorso della mia vita, quello che ho sempre presente, lo scopo di tutto non è la verifica della fede, cioè che c’è speranza per tutti noi e per tutti quelli che incontriamo.


Se non c’è questo, siamo sconfitti.


È questo che mi stupisce di più: possiamo fare il movimento, possiamo fare le opere di carità, possiamo fare tutto, dare una quantità sterminata di tempo, ma questo ci rende sempre più saldi nella fede, siamo più facilitati a riconoscere la Sua presenza all’opera tra di noi, o ci rende più scettici?


Che cosa ci stiamo a dire sulle opere di carità, se siamo noi i primi a essere sconfitti? Sarebbe una disgrazia per noi e per gli altri.


Dupuis. Terzo passaggio. Cosa significa sviluppo dell’opera? Su questo c’è un grande dibattito tra di noi. Ha fatto molto discutere il tuo giudizio dato all’Assemblea Internazionale a La Thuile, in cui dicevi: «Se possiamo fare soltanto cinque progetti perché abbiamo soltanto cinque soggetti che possono fare un’opera come la intendiamo noi, dobbiamo obbedire a questo. Altrimenti siamo dei presuntuosi che pensano di potere rispondere al bisogno per il fatto di fare progetti sempre più grandi».


Spesso si fa fuori sbrigativamente questo tuo giudizio con degli schematismi: «Allora dobbiamo essere tutti di CL», oppure: «Piccolo è bello», oppure: «Attenti a non crescere troppo»; cioè, anziché una domanda di verità, nasce un sospetto su ciò che si fa.


Allora ti volevo chiedere: che rapporto c’è tra consapevolezza dell’opera, nel cammino che ci hai accompagnato a fare stamane, e i criteri per il suo sviluppo?


Mandelli. Le opere, le nostre Imprese Sociali, sono organismi vivi; per sua natura, se un organismo è vivo, tende a crescere. Si è dentro un meccanismo che spinge a crescere, e allora sorge il dilemma, l’interrogativo.


Carrón. A me va bene tutto il desiderio di crescere, io sono contentissimo che tutte le vostre opere crescano e mi piacerebbe che fosse sempre di più così, per poter rispondere al bisogno sterminato che ci troviamo davanti. Non voglio cercare di fermare niente, nessuna crescita. Perciò davanti a certi schematismi – come «Piccolo è bello», «Attenti a non crescere troppo» – che cosa dobbiamo fare? La volontà di Dio: è l’unico criterio. E che cosa vuol dire questo in un modo non formale? Che se con l’opera vogliamo portare qualcosa all’uomo, se questo è chiaro, non lo possiamo perdere per strada, perché se lo perdiamo per il desiderio di crescere, allora non so che interesse abbia l’opera per noi e per gli altri.


La mia è semplicemente la valutazione di un contadino della Spagna, figlio di un contadino della Spagna, di uno attaccato alla terra, non è grande filosofia: se si fanno delle cose – per quella logica tensione a crescere di cui diceva Antonio – e poi si perde di vista la natura dell’opera, mi domando se a voi stessi interessa continuare a fare un’opera. Questo lo dovete dire voi. Perciò, se voi tenete alla natura dell’opera così come l’avete pensata, perché ritenete che questa sia l’unica in grado di rispondere al bisogno, l’unica adeguata al bisogno umano, sarete voi i primi a cercare che questa natura non si perda per strada. È molto semplice. Per questo se potete crescere, avanti! Ma l’unica condizione è di non perdere la natura di quel che fate. In questo senso dico che si può crescere o fare altre opere, se c’è il soggetto per farlo. Se non avete il soggetto, che cosa fate?


La mia osservazione a La Thuile era a proposito di quello che vedo viaggiando. AVSI è un esempio molto chiaro. Gli amici di AVSI sono bravissimi perché nel loro campo hanno un’esperienza unica, come in tante cose l’avete anche voi nel vostro. Sono bravi a identificare certi bisogni e a fare certi progetti, e sanno che percorso occorre per realizzare un certo progetto. Dove sta il problema? È evidente che in certe opere, come portare l’acqua, non occorre niente di particolare, ma se parliamo – per fare un esempio, il più elementare di tutti – di una scuola, non si fa tutto lo sforzo per aprirla per poi assumere professori che sull’educazione pensano proprio il contrario di quello per cui è stata aperta e per cui è stato fatto il tentativo. Vi sembra ragionevole? La mia preoccupazione è questa. Io non sono contrario – ci mancherebbe altro – a mettere in piedi e a fare crescere una scuola; l’unica cosa che desidero è che chi la fa abbia le risorse per farlo. Ma se vedo che in certi progetti, quando si entra in rapporto con il bisogno, il soggetto non c’è, a me qualche interrogativo viene. Questo è importante per coloro che lavorano in tutta la “catena di produzione”. Per fare un’opera, dare tempo, energie, immaginazione, occorre fare tutto il percorso. Dobbiamo esserne consapevoli.


La nostra prima esigenza è rispondere al Mistero. Se il Mistero ci dà cinque invece di venticinque, forse occorre trovare altri cinque prima di cominciare l’opera. Altrimenti si fa un’opera diversa da quella che si vuole. Dobbiamo essere coerenti, cioè cercare di giudicare tutto lo sviluppo di un’opera a partire dalla natura del bisogno. Se da quando incominciamo la riflessione sul bisogno a quando finiamo col rispondere ad esso perdiamo per strada la natura del bisogno, qualche pensiero dovrebbe venire. Io non sono contrario in assoluto alla crescita, anzi, più si fa e meglio è. L’unico suggerimento che mi permetto di dare è di non perdere lo scopo dell’opera. E qui non mi interessa se le persone sono di CL o no, non mi interessa questo – anche perché non è necessariamente vero che i professori di CL siano sempre migliori degli altri – smettiamola di dare giudizi soltanto ideologici. Noi mettiamo in evidenza che cosa è per noi la fede, che novità è per noi, nel modo con cui facciamo il professore piuttosto che un’opera in Uganda. Non è detto che tutte le persone che si imbattono in noi incontrino uno come la Rose, che, oltre a rispondere all’AIDS, risveglia la speranza.


A me piacerebbe che tutti potessero incontrare una come lei. Perciò, nessuna pregiudiziale se c’è questa lealtà che facilita l’opera.


Così come mi sembra leale dire a chi viene a collaborare in una vostra opera: «Noi vogliamo far così, e te lo diciamo chiaramente per non prenderti in giro; e ti chiedo che tu lealmente mi dica se questo è quello che condividi e non ti interessa soltanto perché risponde a un problema di lavoro, per poi fare gli affari tuoi». Se abbiamo presente questa lealtà elementare, facilitiamo che lo sviluppo dell’opera sia vero e adeguato allo scopo.


Dupuis. Soprattutto, la cosa drammatica è che lo sviluppo non è neutrale, cioè o tu collabori al nichilismo o collabori a ridestare l’io. È questa drammaticità che a volte noi non percepiamo.


Carrón. Non c’è mai neutralità, perché in ogni gesto pur piccolo che facciamo è in gioco tutta l’impostazione della vita, tutta. Per questo, almeno siamo leali.


Poi ognuno faccia quello che vuole, ma diciamoci le cose in modo chiaro, aiutiamoci almeno come giudizio.


Dupuis. Quindi la lealtà e l’apertura delle persone che si aggregano a lavorare con noi è una circostanza, non un’intenzione. Abbiamo tre questioni finali da porre. La prima riguarda la compagnia tra opere, soprattutto tra opere di carità: come può diventare un aiuto reale per una condivisione, secondo la natura della nostra esperienza?


Carrón. Ogni opera ha la sua natura e non può rispondere a tutti i bisogni così; a volte, da Mario viene della gente con un bisogno a cui l’opera che lui guida non è adeguata a rispondere; ma è capitata tra le sue mani una certa persona. Se Mario è amico di Antonio e Antonio ha un’opera che può rispondere, questa collaborazione può cominciare a diventare semplicemente, senza nessun progetto, una trama di rapporti, perché il giorno successivo può darsi che Antonio si trovi con un caso simile e debba chiedere aiuto a Mario. Più ci conosciamo e viviamo questa modalità di dire “io” che ha dentro gli altri e più conosciamo meglio qual è lo specifico di ogni cosa, più siamo in grado di rispondere ai bisogni. Questo, poi, non implica alcun ricatto: è libero Antonio di rispondere al bisogno di Mario (perché a volte non può rispondere) ed è libero Mario se non può, perché è un rapporto di amicizia, di condivisione. Se noi abbiamo la consapevolezza di essere una sola cosa e che cerchiamo di rispondere in modi diversi ai tanti bisogni che ci troviamo davanti, possiamo rispondere meglio.


Dupuis. La seconda questione ci tocca molto perché tu, soprattutto nell’ultimo anno, ci hai rimesso davanti la proposta della caritativa, che per moltissimi si svolge proprio in nostre opere, ma spesso è identificata con un «Vado ad aiutare l’opera». Tu, invece, ce l’hai riproposta secondo il significato originale che don Giussani ha dato alla caritativa, cioè un gesto di educazione dell’io proprio per quel percorso che dicevi tu poco fa. Allora, che rapporto dobbiamo avere con le persone che vengono nelle nostre opere per un gesto di caritativa, tenendo conto che è un gesto proposto e guidato da CL?


Carrón. Il gesto della caritativa è un gesto proposto e guidato dal movimento, appartiene al suo DNA come parte educativa della proposta del movimento. Per questo il movimento ci terrà sempre – se rimane fedele alla sua natura – a proporre questo gesto. Come quasi tutti voi potete riconoscere, da dove è nato il desiderio di mettere in piedi un’opera? Da questa educazione della caritativa.
Per questo siamo noi per primi a cercare di difendere la natura di questa educazione, proprio perché tante volte voi avete incominciato senza fare un’opera, ma semplicemente educandovi a questa condivisione del bisogno. Allora voi che sapete – per la nostra storia, per la nostra esperienza – qual è lo scopo della caritativa, dovete rispettarla quando accogliete le persone che vengono in caritativa: per esempio mettendovi d’accordo con chi guida il movimento su come collaborare, così che non si tratti solo di rispondere al bisogno che voi avete, ma anche di aiutare chi viene da voi a fare questo gesto di educazione alla condivisione; e questo sarà un bene anche per voi, perché nella misura in cui l’io è educato a questa carità, tanto più ci saranno persone che vorranno, poi, collaborare con voi e dare un contributo alla vostra opera.


A me interessa che su questo ci aiutiamo: vi ringrazio di tutti i suggerimenti che potrete darci per proporre, accompagnare e servire il gesto della caritativa.


Questo modo di accompagnarci e di aiutarci è una modalità di dire “io”.


Dupuis. L’ultima questione riguarda la modalità con cui continuare questa Scuola per Opere di carità. La prima cosa è guardare l’esperienza; dall’esperienza capiamo cosa ci accade, il passo da fare. Per cui abbiamo pensato che il prossimo anno le lezioni siano delle testimonianze in cui mostrare come un’opera si sviluppa, non per indicare un modello, ma per fare emergere i fattori che permettono uno sviluppo e come l’io si gioca di fronte ai problemi che incontra, di carattere economico, civile, istituzionale, nel rapporto con i lavoratori, ecc. E la seconda cosa potrebbe essere la visita a opere, l’incontro con delle opere.


Carrón. È così tanta la ricchezza di quello che fate che condividerla è un bene per tutti. Per questo mi sembra bellissimo questo vostro modo di andare avanti, perché è dall’interno delle testimonianze di un’opera che possono venire domande, chiarimenti, che siano un arricchimento dell’esperienza. Questo modo di procedere è quello più consono alla nostra storia e sarà sempre più utile per tutti, perché in un’opera ci saranno fattori e in un’altra altri. Sempre, quando vi ascolto, imparo tante cose. Sarà utile anche per voi, perché sarete più in grado, avendo le mani in pasta, di capire la portata di certi sviluppi e di certe opere che sono nate tra di voi.


Vi auguro che questa strada sia sempre per un “di più” nella crescita della coscienza e nella verifica della fede.


Dupuis. Come sempre, ci hai disarmato, perché ci hai detto che il fatto che questo percorso sia conveniente dobbiamo deciderlo noi. Possiamo recitare l’Angelus?


Carrón. Vi auguro che recitare l’Angelus ogni mattina sia l’occasione di prendere consapevolezza della carità che il Mistero ha con ognuno di noi, del Mistero che ogni mattina ha pietà del nostro niente.



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