giovedì 28 giugno 2007

BERSANELLI:LA SCIENZA E' UNA DOMANDA FATTA CON DISCIPLINA ALLA REALTA',NON UNO SCIVOLONE METODOLOGICO


MARCO BERSANELLI
Roberto Persico da TEMPI



Molti fisici oggi insistono sull'idea della bellezza del cosmo e delle sue leggi, ma la guardano come una proprietà intrinseca delle cose, che rende la materia e la scienza più attraenti, ma non rimanda a nulla fuori di esse. «Spesso - scrive Susskind - i fisici usano termini quali "disegno" "agente" o addirittura "Dio"



La scienza tira. Perlomeno in libreria. E soprattutto tirano le questioni di confine tra scienza, filosofia e religione, lì dove la conoscenza della struttura del mondo si incontra con le domande cruciali sull'umano: ha un senso, una direzione, un'origine, questa evoluzione cosmica e biologica che sembra regolata in modo così preciso per generare gli esseri umani?
Oppure la vita e l'intelligenza sono il risultato di un caso, il numero fortunato uscito alla lotteria delle infinite combinazioni possibili della materia? Di una lotteria, eventualmente, in cui si sono date, e continuamente si danno, innumerevoli estrazioni, così che il fatto che siano usciti proprio quei valori che rendono l'universo adatto alla vita non sarebbe più così sorprendente?

È la tesi dei sostenitori dell'idea del "multiverso", o "universo a bolle": l'universo in cui ci troviamo non sarebbe che una delle infinite bollicine di una sconfinata schiuma cosmica, che continuamente si formano e si distruggono, ciascuna con le sue caratteristiche fisiche specifiche. In questo scenario il «principio antropico», cioè la sorprendente convergenza delle costanti fisiche fondamentali dell'universo verso le condizioni che rendono possibile la vita - basterebbe uno scostamento infinitesimale di una sola di esse dal suo valore e l'universo avrebbe una fisionomia totalmente differente, senza spazio per l'umanità - che ha spinto tanti grandi scienziati verso l'ipotesi di un Progettista, non avrebbe bisogno di nessun Autore, ma sarebbe solo una delle infinite possibilità della materia, che, in un tempo infinito, inevitabilmente doveva prima o poi realizzarsi. Con un problema: se questi universi esistono sono irraggiungibili, per cui l'ipotesi del multiverso è destinata a rimanere inverificabile. O forse no, suggerisce Leonard Susskind, eminente fisico di Stanford, ne Il paesaggio cosmico (Adelphi, 34 euri, 384 pag.) da poco tradotto in italiano.

«Questioni come questa me ne ricordano altre che in passato accendevano gli animi, del tipo "quanti angeli possono danzare sulla capocchia di uno spillo?"». Il commento è di Marco Bersanelli, professore di astrofisica all'Università di Milano, uno dei responsabili scientifici del progetto Planck, il programma dell'Agenzia Spaziale Europea che manderà in orbita un satellite per "fotografare" gli inizi dell'universo. Il libro di Susskind è stato lo spunto per andare a trovarlo nel suo ufficio in università, ingombro di computer e di foto del cosmo, per fare il punto con lui su principio antropico e dintorni. «In realtà c'è così tanto ancora da scoprire nel nostro universo che mi sembra azzardato speculare sugli altri».

La questione fondamentale mi sembra però non sia quella fisica in senso stretto, ma l'uso dei dati della fisica per "dimostrare" o meno l'esistenza di un Autore dell'universo.
Il nesso tra il mondo fisico e il Creatore non è un nesso che si scopre o si nega con una dimostrazione matematica o con un esperimento di fisica. Mi pare poco credibile un Dio che possa essere per così dire "smascherato" attraverso una scoperta astronomica, come se fosse una realtà paragonabile a un campo elettromagnetico, a una nebulosa o a un buco nero. Invece questo nesso in fondo è quello che c'è sempre stato, fin dall'antichità, in ogni uomo intelligente e quindi aperto al Mistero, cioè il fatto che la creazione è segno, segno di qualcosa di più grande. E qual è allora il contributo della scienza? Via via che le scoperte ci mostrano la bellezza, l'armonia, l'ordine, la sottigliezza con cui le cose sono fatte, prende sempre più evidenza la direzione di questo segno. Ma oggi come tremila anni fa il segno è offerto alla nostra libertà.

Molti fisici oggi insistono sull'idea della bellezza del cosmo e delle sue leggi, ma la guardano come una proprietà intrinseca delle cose, che rende la materia e la scienza più attraenti, ma non rimanda a nulla fuori di esse. «Spesso - scrive Susskind - i fisici usano termini quali "disegno" "agente" o addirittura "Dio" come metafore per indicare l'ignoto, punto».
Certo. Resta da capire come mai per indicare questo ignoto ci viene spontaneo usare proprio la parola "bellezza". Comunque questo che lei diceva non è vero solo per gli scienziati. Chi oggi nel mondo, per strada, anche in chiesa, usa le parole "Dio", "Creatore" se non come una metafora? Il mistero, il senso ultimo, non è percepito come una realtà. Questo riflette la nostra mentalità di uomini moderni, o post-moderni, non dobbiamo prendercela con gli scienziati. La questione è la posizione iniziale di un uomo di fronte dal dato del reale, di un uomo che studia il cielo, la filosofia o qualunque altra cosa, di un uomo che si mette a fare politica, di un uomo e una donna che mettono al mondo dei figli... Qual è la concezione di bene che uno ha, che cosa identifica come senso delle cose? Io non credo che la fede sia il risultato di un processo razionalistico, se uno pensa di scoprire o di evitare Dio facendo esperimenti, evidentemente rimarrà deluso.

Ma c'è una verifica interessante, non sul piano scientifico ma dell'esperienza umana: se noi riconosciamo l'universo come creazione, come fatto dal Mistero, il nostro interesse e la nostra affezione per la realtà aumenta o diminuisce? L'intelligenza, il godimento della bellezza, la curiosità per il dato reale ne risultano esaltate o depresse? Io non credo che studiare la struttura dell'universo, o diventare padre o madre, conduca necessariamente a credere in Dio, ma forse se uno vive la fede può fare esperienza di un'intensità maggiore nel rapporto coi suoi figli, e anche con l'universo.

In molti non sarebbero d'accordo con quel che lei sta dicendo. Sa spiegarsi perché?
Si potrebbero indicare tante ragioni, tutte le ragioni che un uomo moderno vive su di sé, indipendentemente dal campo in cui opera. Pensiamo ai filosofi, perfino ai teologi: quanta teologia oggi sembra all'avanguardia nel voler distruggere l'esperienza della fede come rapporto con il reale... Ma in effetti c'è un rischio che è tipico dello scienziato.

Quando studiamo un fenomeno dal punto di vista fisico, noi dobbiamo in un certo senso isolare l'oggetto della nostra indagine dal resto del mondo che lo circonda, da tutti i fattori che non sono essenziali per studiare quel particolare. C'è un momento in cui dobbiamo identificare l'oggetto con delle quantità misurabili, e cercare di usare queste per giungere a nuove conclusioni; e tra le realtà da cui noi prescindiamo, momentaneamente, ci sono anche il suo significato, la sua bellezza, il suo nesso con "tutto il resto": non abbiamo bisogno della bellezza di una stella come ingrediente delle equazioni dell'equilibrio stellare. In questo senso, come disse Laplace a Napoleone, non abbiamo bisogno dell'ipotesi di Dio.

Qual è allora lo scivolone metodologico che uno scienziato può fare? Dimenticare che questa separazione dell'oggetto dal contesto, la sua riduzione a fattori quantitativi, è una operazione volontaria e temporanea, che si fa per cercare di rispondere a un certo tipo di domande sull'oggetto; ma la stella, dopo che l'abbiamo messa sotto la lente della nostra analisi quantitativa e abbiamo capito le reazioni termonucleari che agiscono al suo interno, e abbiamo scoperto che cosa provoca la sua evoluzione in gigante rossa e così via, rimane la stella di prima, dentro il suo contesto, nel pieno della sua bellezza, nel suo rapporto con la totalità e con il significato di tutto. Anzi, quello che abbiamo imparato sulla fisica della stella ce la farà ammirare ancor più profondamente.

Appartiene alla natura della conoscenza scientifica il fatto di isolare e ridurre un oggetto per poterlo studiare; la svista tipica dello scienziato è dimenticare che questa è un'operazione momentanea e presumere che tutto l'oggetto si riduca a quanto di esso possiamo conoscere scientificamente. Se uno rimane chiuso in questa gabbia sembra quasi non riuscire più a uscirne, ma è una riduzione della ragione assolutamente irrazionale.

Allora la scienza rischia di chiuderci in una gabbia?
Certo, se non si è attenti... d'altra parte ci sono aspetti per cui proprio il metodo scientifico, più che altri approcci, costringe a porsi le domande fondamentali, perché costringe continuamente a obbedire al "dato": per quanto la si possa ridurre, la conoscenza scientifica tende a essere sempre la conoscenza di un "dato", qualcosa che viene da fuori di me. Non a caso tutti gli scienzaiti che cercano di dire fino in fondo ciò di cui si occupano devono inevitabilmente, positivamente o negativamente, scontrarsi con le domande ultime. Come Susskind: negativamente, ma fa i conti con le domande ultime.

Eppure non è questa l'immagine della scienza che tende ad apparire nei tanti libri e nelle tante iniziative che le vengono dedicate: cosa si può dire del modo in cui avviene la divulgazione scientifica oggi?
Forse in Italia più che altrove la conoscenza scientifica mantiene una certa autorevolezza, una certa capacità di promettere risposte, e nello stesso tempo di toccare domande profonde a riguardo della natura delle cose. Tutte queste iniziative di divulgazione hanno successo perché incontrano un livello popolare di sana curiosità, un terreno fertile.

Ma proprio per questo la nostra responsabilità come comunità scientifica è grande: dobbiamo evitare di tradire e di illudere, dobbiamo offrire i frutti di questo nostro privilegio di fare ricerca in un modo vero, non distorto da preconcetti ideologici ma aderente ai fatti, e soprattutto facendo capire che le domande che affascinano la gente sono in fondo le nostre domande, le domande da cui continuamente rinasce l'interesse per cui noi facciamo queste cose a livello specialistico. Tanta divulgazione di oggi, anche in televisione, sembra invece fatta apposta per dare l'impressione che con la scienza abbiamo finalmente ridotto lo spazio della meraviglia per la realtà, mentre è esattamente il contrario.

Lasciamo allora le speculazioni sul sesso degli angeli e torniamo al "dato": dove sta andando la scienza vera, quella che studia quel che si può conoscere? Quali sono le sfide oggi nella conoscenza dell'universo?
La cosmologia sta vivendo una stagione esaltante. Lo dimostra il fatto che quest'anno il premio Nobel per la fisica è andato a John Mather e George Smoot per i loro studi sulla luce fossile, la radiazione che riceviamo dall'universo primordiale. Ho avuto la fortuna di lavorare a lungo insieme a George Smoot, a Berkeley, sono cresciuto scientificamente con lui e tuttora collaboriamo, insieme a molti altri, proprio su questi temi.

Andiamo a caccia dei segni scritti nel fondo del cielo. Ma in un senso molto reale: poche speculazioni astruse e molto "piedi per terra", anche se parliamo dell'universo di 14 miliardi di anni fa! (13,7 per la precisione). Questa luce fossile ha viaggiato per un tempo uguale all'età dell'universo, e ci porta il messaggio di ciò che accadeva all'inizio della storia cosmica. è la "cosa" più antica che esiste, e ci dice come l'universo era prima che si formassero le galassie, le stelle, e tutto quanto vediamo intorno a noi. Questa è la frontiera attuale delle osservazioni dello spazio profondo.

Il progetto europeo Planck è il prossimo passo di questa investigazione: presto l'Agenzia spaziale europea metterà in orbita un telescopio capace di ottenere un'immagine estremamente dettagliata dell'universo neonato, che ci permetterà di verificare ciò che potrebbe essere accaduto addirittura nelle prime frazioni di secondo della vita cosmica. E di sapere qualcosa di più sui componenti dell'universo: tutto quel che noi conosciamo è circa il 4 per cento della materia e dell'energia che compongono l'universo; c'è un 96 per cento di materia ed energia che sappiamo che esistono ma di cui ignoriamo ancora tutto. Con Planck noi potremo indagare questi componenti misteriosi dell'universo: pensa, ci manca ancora il 96 per cento. E vanno di moda le congetture sugli altri infiniti possibili universi. Cerchiamo di capire qualcosa di questo!


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