mercoledì 13 giugno 2007

LA LEGGE 194 RICONOSCE L'UMANITA' DEL FETO,ALL'EMBRIONE E' NEGATA



L’aborto e la strage seriale di vite trattate come tessuti
(di Eugenia Roccella)
Tratto da del 1 giugno 2007
Persino per chi, come i cattolici, difende e tutela la dignità di ogni vita umana, l’embrione distrutto in laboratorio non è l’embrione assassinato nel grembo materno, non ne ha il peso simbolico. Infatti la legge sulla procreazione assistita non è stata avvertita come una ferita viva, come è accaduto per la 194, non è stata considerata una lacerazione assoluta, una legge “iniqua”, come quella sull’interruzione di gravidanza. Forse ci aggrappiamo alla discussione sull’aborto proprio perché è arcaico, e riconducibile a significati che sappiamo interpretare, perché tutto quello che è umano non può davvero spaventare. Ma dobbiamo pure dirci che c’è una separazione profonda tra la vecchia e la nuova strage che va riconosciuta. La differenza tra l’aborto e l’eliminazione seriale degli embrioni è nell’anonimato, nell’irriconoscibilità dell’umano senza origine corporea, schiacciato sul biologismo. Contro questa prospettiva antiumana si può creare un’alleanza (anzi si è già saldata) che superi le divisioni e gli irrigidimenti ideologici degli anni Settanta. Anche dell’aborto si può riparlare, ma non ricalcando sempre i vecchi schemi.


Era il 1973 quando, con il processo a Gigliola Pierobon, si scoprì che l’opinione pubblica italiana non tollerava più che una donna potesse essere condannata da un tribunale per aver abortito.

Le norme che punivano l’interruzione di gravidanza erano ancora rubricate sotto il capitolo “delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”
del codice Rocco; dunque un problema demografico, un attentato alla prolificità della nazione, non un dilemma etico, un conflitto tra due vite all’interno di un unico corpo. Invece è tutto qui, il vizio assurdo dell’aborto: nell’impossibilità di trovare una soluzione all’essere-due-in-uno quando l’uno in questione, la futura madre, non vuole l’altro che le cresce dentro. La maternità non è solo gioia, accoglienza. E’ anche un evento che ti sovrasta, ti mette in comunicazione con il mistero e l’incontrollabile, ti può rendere fortissima e ti può schiantare. L’aborto è una sconfitta per tutti, come lo è, sempre, la scelta di negare la vita. Per la donna, è il rifiuto violento di una parte di se stessa, prima ancora che del figlio. Ma nessuna legge può impedire che le donne vi ricorrano, che l’arbitrio (non il diritto) sull’altro venga esercitato in forme autolesive, disperate e rischiose.

Il film del rumeno Cristian Mungiu, che ha vinto a Cannes, racconta entrambi i lati della verità: l’ostinazione viscerale della protagonista, che nessun divieto di legge può fermare, e la fisica, sconvolgente realtà del feto abortito. E’ difficile, quindi, che una legge sull’aborto possa essere giusta: molto più facile che sia “iniqua” (definizione di La Pira, citata sul Foglio di ieri da Carlo Casini).

Come si fa a legiferare in modo equo su un corpo che ne contiene un altro? Si può soltanto, pragmaticamente, tentare di trovare un punto di equilibrio per ridurre il danno. La tragedia delle vite troncate, comunque, resta: 50 milioni di bambini che ogni anno non nascono. A questo numero l’Europa contribuisce solo relativamente, la parte del leone la fanno i paesi terzi, quelli ad alto tasso di fecondità.

Lì l’aborto, mimetizzato nell’ampio concetto di “salute riproduttiva”, viene utilizzato dai governi come strumento di controllo delle nascite, e praticato su larga scala. Se è strage, è strage di stato. Non è tanto l’autodeterminazione femminile, a produrre l’enorme numero di aborti nel mondo, quanto il Fondo internazionale per la popolazione delle Nazioni Unite e le organizzazioni che gestiscono i piani antinatalisti.

Se non fosse per questo strano uso come motore dello sviluppo (la crescita demografica, secondo l’Onu, rallenta quella economica), l’aborto apparterrebbe al passato, all’epoca in cui la generazione era roba di donne, responsabilità da cui l’uomo può fuggire. Raccontarlo voleva dire ammettere un vergognoso segreto, fatto di sangue, sensi di colpa e conflitti, umano che più umano non si può.
Oggi però la procreazione si sposta sempre più fuori dal corpo, dissociata prima dalla relazione sessuale, poi da quella tra madre e bambino. L’embrione si forma in provetta, e può essere crioconservato, cioè bloccato in una sorta di sospensione vitale dal gelo dell’azoto liquido. Sono poche cellule: nessuno può mostrarlo in un film sconvolgendo lo spettatore, perché nessuno riconoscerà in quelle poche cellule un bambino, sia pure in divenire. Collocato in un limbo senza passato e senza futuro, l’embrione crioconservato è materiale umano in scatola. Non si può piangere su di lui, e nemmeno agitarlo come uno spauracchio. Nel nuovo omicidio seriale la vittima non ha forma riconoscibile, non suscita pietà, è roba da biologi.
Eppure questa è senz’altro strage: per ogni bambino nato con la procreazione assistita, circa nove embrioni sono eliminati.

Una proporzione spaventosa, che eccede il senso comune: nove vite per farne una.

Vite a perdere, embrioni non impiantabili, che non contano niente; e a questi bisogna aggiungere gli embrioni cavia, attualmente reperibili sotto specie di cellule staminali embrionali. Chi ricorda che quelle cellule sono state un embrione? E quanti embrioni ha inghiottito la ricerca (una ricerca che non trova, che non ha mai prodotto terapie)? Una donna che abortisce sa che quello che strappa via da sé è un figlio. Le fantasie tornano a galla, oppure vengono rimosse, ma abitano dentro di noi. Il fantasma dell’embrione invece non ossessiona nessuno, e chi si sottopone alla procreazione assistita non riconosce gli embrioni scartati come figli, perché non li ha sentiti mai dentro di sé, nemmeno come sintomi (le nausee, la sonnolenza, quell’esserci e non esserci che fa capolino nel corpo materno).

Questa è strage, perché non c’è nulla da raccontare: solo numeri, piccoli assassini seriali, senza consapevolezza né storia. Un’umanità priva di corpo, disincarnata, che non sa più di essere umana.

Persino per chi, come i cattolici, difende e tutela la dignità di ogni vita umana, l’embrione distrutto in laboratorio non è l’embrione assassinato nel grembo materno, non ne ha il peso simbolico. Infatti la legge sulla procreazione assistita non è stata avvertita come una ferita viva, come è accaduto per la 194, non è stata considerata una lacerazione assoluta, una legge “iniqua”, come quella sull’interruzione di gravidanza. Forse ci aggrappiamo alla discussione sull’aborto proprio perché è arcaico, e riconducibile a significati che sappiamo interpretare, perché tutto quello che è umano non può davvero spaventare. Ma dobbiamo pure dirci che c’è una separazione profonda tra la vecchia e la nuova strage che va riconosciuta. La differenza tra l’aborto e l’eliminazione seriale degli embrioni è nell’anonimato, nell’irriconoscibilità dell’umano senza origine corporea, schiacciato sul biologismo. Contro questa prospettiva antiumana si può creare un’alleanza (anzi si è già saldata) che superi le divisioni e gli irrigidimenti ideologici degli anni Settanta. Anche dell’aborto si può riparlare, ma non ricalcando sempre i vecchi schemi.

Carlo Casini scrive che sarebbe bello aprire un dibattito sulla 194; bene, forse è davvero arrivato il momento in cui si può tentare di farlo.

Nessun commento: