Tempi num.48 del 14/12/2006
Pane al pane
Caro Severino, c'è una bella differenza tra l'avere pietà di Welby e l'ucciderlo
Il professor Emanuele Severino dice che morire senza soffrire è un diritto e lo Stato deve fare il suo mestiere garantendolo. Tuttavia, poiché l'unico modo certo di garantire tale "diritto" è uccidersi o uccidere in forma incruenta, forse sarebbe il caso di farla finita con le chiacchiere sull'onnipotenza della scienza e della tecnologia. Morire soffrendo il meno possibile è una sacrosanta aspirazione e se una persona sceglie di evitare ogni sofferenza suicidandosi, sarebbe arroganza condannarla o punirla se il suo tentativo fallisce. Ma attenzione. Tutto cambia quando si passa dal dramma individuale, dalla scelta singola e sofferta, dal contesto personale, al diritto di Stato, al suicidio come pratica legalizzata e organizzata, all'eutanasia come suicidio assistito (come la definisce correttamente Severino). È bizzarro che un filosofo faccia un uso così cattivo della ragione da rilevare una "contraddizione" tra il fatto che un suicida mancato sia considerato giuridicamente incolpevole e che sia invece vietato farsi aiutare a morire. Intanto, nel secondo caso, non si tratta di un semplice "aiuto" di qualche familiare o amico, bensì - con le parole di Severino - «del poter contare su una struttura pubblica che aiuti a raggiungere l'intento» di suicidarsi. Non c'è la minima contraddizione tra il rispetto caritatevole di un gesto assolutamente individuale e il rifiuto di generalizzare la soluzione di una situazione particolare per legge, creando addirittura strutture che praticano il suicidio assistito.
È un modo pessimo di usare la ragione derivare da un caso individuale conseguenze generali da codificare per legge. Al contrario, un modo corretto di ragionare consiste nel considerare tutte le conseguenze che possono derivare dal codificare come diritto per tutti la soluzione di un caso individuale. Se le legislazioni fossero un insieme di risposte ai casi individuali o, peggio, si credesse che l'unica soluzione è lasciare ciascuno libero di fare quel che gli pare, ne verrebbe fuori un caos tale da minare i fondamenti della vita associata. Il caso olandese mostra le conseguenze cui conduce la legalizzazione del suicidio assistito entro strutture preposte. Si finisce col sopprimere feti e addirittura neonati per evitare loro le ipotetiche sofferenze che deriverebbero da una loro pretesa malformazione genetica e che renderebbero la loro esistenza "indegna di essere vissuta". Si passa direttamente e in poco tempo dal suicidio all'omicidio.
Non dimentichiamo poi che la stragrande maggioranza delle persone non vuole affatto morire anticipatamente, ma soltanto essere accompagnata verso la morte con la minore sofferenza possibile. È il caso di tanti anziani e di tante famiglie che debbono convivere con le loro incontinenze e con la loro smemoratezza e confusione mentale. A quelle famiglie che non sopportano tale situazione si aprirebbe una perfida via d'uscita: mettere l'anziano all'angolo chiedendogli da mane a sera perché egli non usufruisca del diritto di togliersi dai piedi. Con l'introduzione del suicidio assistito si incentiverebbe la distruzione di quel sentimento di solidarietà descritto dal contadino di Lev Tolstoj che aiuta Ivan Ilic ad accettare la sua malattia incurabile: «Non faceva controvoglia il suo lavoro perché vi si sobbarcava per una persona prossima alla morte, e sperava che anche per lui qualcuno, venuto il tempo suo, si sarebbe sobbarcato lo stesso lavoro».
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