Padre Lepori attraverso questa meditazione ci aiuta a vivere con piu' intensita'questo periodo di avvento.
Perché siamo qui? Perché questo ritiro? Perché il tempo dell’Avvento?
Perché abbiamo bisogno di Cristo. Abbiamo bisogno di Lui, e abbiamo bisogno di ricentrare questo bisogno nella nostra vita, nella nostra coscienza, nel nostro cuore. La verità della nostra vita, la verità della vita di ogni uomo, è che abbiamo bisogno di Gesù. Ma dimentichiamo questo bisogno, lo trascuriamo, ne siamo distratti. Distratti come coscienza di questo bisogno nell’istante presente, cioè nella realtà della nostra vita.
Ma dimentichiamo questo bisogno, lo trascuriamo, ne siamo distratti. Distratti come coscienza di questo bisogno nell’istante presente, cioè nella realtà della nostra vita. Affermiamo nella fede, o per abitudine, che abbiamo bisogno di Gesù, ma nel nostro cuore questo bisogno è astratto, nel senso etimologico del termine abstractus: tirato fuori, allontanato, strappato. Questa astrazione significa che, nel momento stesso in cui viviamo, nel momento stesso in cui siamo presenti, qui ed ora, nella nostra vita, il bisogno di Gesù è dimenticato, è lontano, resta ai margini della coscienza che abbiamo della nostra vita. È come qualcuno che pesa 150 chili. Sa che deve dimagrire, ma quando si trova davanti al cibo, dimentica questo bisogno, afferra il cibo mettendo il suo bisogno di dimagrire, il suo bisogno di salute, sotto il tavolo. Solamente quando ha preso, mangiato, dopo che ha consumato tutto, quando non resta più niente, e rimane lì con lo stomaco e la testa pesanti, sonnecchiando, gli dispiace di non avere pensato al suo bisogno di dimagrire. Questo bisogno è un’idea astratta, un’astrazione che non determina la sua coscienza del momento presente. Ma l’esempio non è perfetto, perché il bisogno di Gesù non è il bisogno di rinunciare a qualcosa, il bisogno di mortificare la nostra presa sul reale, un bisogno di svuotarsi, ma un bisogno di pienezza, un bisogno di vivere in pienezza, di afferrare veramente il reale con un centuplo di gusto. È vero che per sentire il bisogno di Gesù bisogna anche mortificare altri desideri, ma quando il rapporto con Cristo è focalizzato troppo sulla rinuncia, si rischia di perdere il vero valore di Cristo per noi, che è una pienezza di vita, una pienezza di intensità di relazione col reale, una pienezza di possesso dell’istante presente.
In ogni modo, è nell’istante presente che dimentichiamo il nostro bisogno di Cristo, e quando ci sentiamo insoddisfatti, dimentichiamo di avere dimenticato questo bisogno, di modo che diventa anche difficile una ripresa, una conversione, una contrizione che chiede, che mendica Cristo e che approfondisce così la coscienza di questo bisogno. Ma quando ci rendiamo conto di avere dimenticato il bisogno di Cristo, diciamo: «Bisogna che ci pensi la prossima volta». Ma se voglio pensarci solamente «la prossima volta», è ancora un’astrazione. Cristo non è un bisogno per certe circostanze speciali, o addirittura pericolose: è il bisogno di tutta la nostra vita. E se non recupero la coscienza di questo bisogno ora, qui e ora, la «prossima occasione» sarà mancata come la precedente.
Cristo, infatti, è innanzitutto necessario al nostro «io», non alle circostanze in quanto tali. Sono innanzitutto io che ho bisogno di Lui, io in quanto «io», in quanto persona, in quanto cuore che vive, pensa, soffre, gioisce, ora. Il vero istante presente della nostra vita è il nostro cuore, la nostra coscienza. È il nostro cuore che costituisce l’istante presente che chiede un senso, e ciò prima di quello che stiamo facendo, dicendo, provando. Ma è altrettanto vero che se non stessi impattandomi col reale, non sentirei adesso che il mio cuore c’è, che desidera, che soffre, che è felice, che aspetta qualcuno.
La verità nella coscienza di noi stessi è di sentire che il nostro cuore ha bisogno di Cristo nell’istante che stiamo vivendo, e di sentirlo non solo come «soluzione» di ciò che stiamo vivendo, ma come «soluzione» del mistero del nostro cuore.
«Soluzione» è una parola che etimologicamente significa «liberazione». Deriva dal latino solvere che vuole dire «sciogliere». Cristo è la liberazione del nostro cuore nelle circostanze presenti della vita. Il segno che Cristo ci salva è che viviamo liberi nelle circostanze, liberi senza dover fuggire le circostanze, liberi interiormente anche in mezzo alle peggiori costrizioni della vita.
Il grande invito
C’è una parabola di Gesù che illustra bene la posta in gioco di questa liberazione e la facilità con la quale la rifiutiamo.
«Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, è pronto”. Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: “Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato”. Un altro disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato”. Un altro disse: “Ho preso moglie e perciò non posso venire”. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi”.» (Lc 14,16-21).
Questa parabola ci interpella perché illustra la posta in gioco del nostro rapporto con Cristo nelle circostanze della vita presente. Difatti, tutti quelli che rifiutano l’invito alla cena, avanzano delle giustificazioni legate alla vita quotidiana di ogni essere umano: un campo, cinque paia di buoi, un matrimonio, dunque i beni che si hanno, il lavoro che si fa, le relazioni che definiscono un’esistenza.
Ora, bisogna notare che in questa parabola la questione non è tanto la chiamata a seguire il Signore lasciando il proprio campo, il proprio lavoro, la propria famiglia per ricevere il centuplo e la vita eterna: qui, queste persone sono chiamate solamente ad andare dal signore per una cena festosa. Il campo acquistato non può aspettare alcune ore prima di essere visto? I buoi non possono aspettare un po’ prima di essere provati? La giovane donna che si è appena sposata non può restare sola per poche ore, quando si ha tutta la vita coniugale davanti a sé?
Perché queste persone rifiutano l’invito? Le loro scuse non tengono; nessuna è urgente, nessuna è veramente un’alternativa al pasto offerto da questo signore.
La vera ragione del rifiuto è la poca importanza che questi invitati danno all’invito, e dunque all’uomo che li invita. Se non hanno paura di rifiutare, vuol dire che questo uomo non ha nemmeno potere, non è un re o un padrone potente. Capiamo allora che la sola ragione per accettare il suo invito sarebbe dovuta essere la sua amicizia. Invita al banchetto solo per amicizia e per fra crescere l’amicizia. È la sua amicizia che questi invitati rifiutano, è la sua amicizia che disprezzano.
Ma se queste persone rifiutano per fare e vivere altro, ciò significa che l’amicizia offerta dal signore non riguarda queste «altre cose», non riguarda la realtà della vita quotidiana, non riguarda ciò che possiedono, il loro lavoro e la loro vita affettiva e famigliare. Non li riguarda nel senso che non vedono e non credono che l’amicizia con questo signore possa avere un’influenza positiva sulla realtà della loro vita. Insomma, pensano che non guadagneranno niente ad andare a perdere alcune ore per mangiare e bere con lui. Ancor peggio: pensano che se accettano l’invito ci perderanno, ci perderanno a livello del possesso delle cose, a livello della loro attività e del loro lavoro, e a livello delle relazioni e dell’amore. Non credono che ci sia per loro una convenienza a coltivare l’amicizia di questo signore.
In fondo, questa parabola descrive la natura della grande crisi della Chiesa in Occidente, la grande crisi che ha svuotato le chiese, che ha reso formale e scheletrica la vita della maggioranza delle parrocchie, che ha laicizzato le scuole cattoliche, i media cattolici, gli ospedali cattolici, ecc. La crisi non consiste anzitutto nel fatto che si pratica statisticamente meno e ci si impegna meno per la Chiesa. Ciò è una conseguenza. La crisi sta nel fatto che Cristo non è percepito più come qualcuno che conviene alla nostra vita reale, quotidiana, umana. E se le chiese si svuotano, ciò mostra forse che quando erano ancora piene, la crisi era già presente, perché già non si vedeva più come il fatto di andare a Messa, di osservare il precetto della domenica, di partecipare a certi gesti della Chiesa, ecc., poteva essere conveniente e vantaggioso per la vita reale dei fedeli, cioè poteva rendere la vita migliore, più intensa, più umana, più felice. Queste pratiche non erano già più vissute come esperienza e rinnovo dell’avvenimento di Cristo che salva la vita qui e ora.
Ma questa crisi è anche in ciascuno di noi, ci infetta come un virus, e noi dobbiamo guardarla in faccia per non passare a lato di un’esperienza possibile di pienezza per la nostra vita.
Ritorniamo alla parabola della grande cena raccontata da Gesù. Rifiutando di accettare l’invito, e dunque rifiutando l’amicizia del signore che li invitava, che cosa è accaduto a queste persone? Apparentemente, niente di particolare. Certamente, andare al banchetto non avrebbe allargato il loro campo, né l’avrebbe reso più fertile, non avrebbe aumentato neanche il numero o la forza dei loro buoi, e non avrebbe reso la loro donna più bella e gradevole. Inoltre, il fatto di non andarci non ha causato probabilmente alcun danno apparente alla loro proprietà, al loro lavoro e alla loro famiglia.
Ma tutta la differenza sarebbe stata l’amicizia di colui che li invitava. La differenza sarebbe stata che accettando l’invito avrebbero mantenuto e approfondito la ripercussione dell’amicizia di questo signore nella loro vita, nel loro lavoro, nel loro modo di possedere le cose, nelle loro relazioni famigliari; avrebbero potuto continuare a vivere la loro vita di tutti i giorni come amici di questo signore, come amici più stretti di questo padrone. La cena avrebbe mantenuto e avrebbe fatto crescere la loro comunione di amicizia con lui, e ciò li avrebbe accompagnati sempre e in ogni cosa. Il signore sarebbe diventato loro più caro, ed essi avrebbero avuto una coscienza più chiara di quanto erano cari e preziosi ai suoi occhi. Tutto ciò, anche se non avesse cambiato niente, avrebbe dato un gusto diverso, un’intensità diversa a tutta la loro vita. Tutta la loro vita, anche nei suoi aspetti più rustici, più duri, come arare il campo coi buoi, sarebbe stata come abbracciata nella coscienza di un amore, di una predilezione, di una preferenza che avrebbe cambiato tutto nel loro cuore, nella coscienza del loro cuore. Sarebbe stata l’esperienza descritta da Romano Guardini nella frase così spesso citata da don Giussani: «Quando si fa l’esperienza di un grande amore, tutto diventa un avvenimento nel suo ambito».
La trasfigurazione del negativo
Ma questa parabola è ancor più illuminante sull’influsso che l’amicizia di Cristo può avere sulla vita e il suo senso, a partire dal cuore dell’uomo che accoglie il suo invito alla comunione. Difatti, ciò che queste persone hanno rifiutato per le cose belle e normali della vita, ecco che i poveri l’hanno accettato per le cose sgradevoli. Anche «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» che il padrone ha fatto invitare al posto dei fortunati che rifiutavano, non hanno visto la loro vita cambiare visibilmente accettando di andare alla cena. Alla fine del pasto, a parte il fatto che hanno per una volta mangiato a sazietà, sono ritornati alla loro vita, poveri, storpi, ciechi e zoppi come erano prima di andarci.
Ma hanno accolto l’amicizia del signore, ed è in quanto amici del padrone che hanno potuto continuare la loro vita ordinaria, anche se miserabile. Ciò non ha cambiato niente; eppure ciò ha cambiato tutto. Hanno potuto vivere con una coscienza nuova di loro stessi, anche delle loro miserie. Hanno potuto vivere con la coscienza di essere amati e di avere valore agli occhi del signore che li aveva invitati e aveva mangiato, bevuto e conversato con loro. E le loro miserie, le loro difficoltà, alla luce dell’attenzione del padrone, diventavano paradossalmente come una messa in evidenza del suo amore, una sottolineatura della sua amicizia, molto più che i beni e il benessere degli altri. Le loro miserie e sventure facevano sì che per essi dire che il padrone era loro caro, che era per loro la persona più cara al mondo, era un’evidenza e un’esperienza del cuore che non trovava né in loro stessi né negli altri nessuna possibilità di contestazione, nessun argomento per dubitarne. Per dei poveri, degli storpi, dei ciechi e degli zoppi, diventare amici di un signore al punto da condividere la sua tavola di festa era al tempo di Gesù una cosa dal valore incontestabile.
L’amicizia di Dio in Cristo, nell’umanità di Cristo, nella Chiesa, è un dono gratuito che dà un senso a tutto, agli aspetti positivi e negativi dell’esistenza. Ma il problema è di accoglierla, di lasciarsi amare così come si è, e di avere una stima di questa amicizia come se niente nella nostra vita ci definisse più di essa, più della coscienza di questa amicizia. In fondo, è meno grave rinnegare e tradire questa amicizia, peccare contro questa amicizia, che non stimarla, che essere indifferenti nei suoi confronti. San Pietro ha rinnegato Cristo, ma nemmeno per un secondo il suo cuore ha potuto disprezzare l’amicizia di Cristo. Il problema di Giuda, invece, non è stato quello di tradire Gesù, ma di aver disprezzato la sua amicizia al punto da venderla per trenta denari e servirsi dell’amicizia di Gesù, del bacio come segno di amicizia, per poter farlo arrestare più facilmente.
Possiamo pensare allora alla nostra vita di tutti i giorni. Quanti inviti al banchetto del Signore riceviamo ogni giorno, quanti segni della sua predilezione! L’Eucaristia, la preghiera, il dono di una comunità, di una famiglia cristiana, dei tanti incontri e delle parole che ci trasmettono la sua presenza: tutto nell’esperienza della Chiesa, tutto nella Chiesa, è invito alla «grande cena» della comunione di Cristo. Accettiamo veramente questi inviti? Non nel senso di essere pii, perché ci sono dei modi di vivere la pietà che non si mettono a tavola con Cristo presente qui e ora nella nostra vita.
Dobbiamo misurare invece la nostra apertura all’invito di Cristo dal fatto che ci diventa più caro là dove siamo chiamati a vivere, e nella realtà che ci è data adesso. Il problema è di testimoniare se l’amicizia gratuita del Signore, e non la morale del Signore o le idee sul Signore, ci è preziosa nel nostro rapporto col lavoro, con le cose, con le persone e anche con le nostre miserie fisiche e morali. E di permettere a questo sentimento di preferenza per Lui, creato dalla sua preferenza per noi, di ricreare la nostra vita reale, anche senza poterla cambiare. Il problema è se siamo presi da Lui nella nostra vita reale, in ogni istante, dunque se apparteniamo a Lui. E di sentire che ciò ci definisce, che diventa sempre più, malgrado tutto, la definizione di chi siamo.
Se fino a quel giorno i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi della parabola (ma nella vita di Cristo questa non è stata solamente una parabola: era la realtà di intere folle di disgraziati!) erano definiti dalla povertà, dall’handicap o dalla cecità, a partire da questa cena non si sentivano più definiti da ciò, solamente da ciò, ma soprattutto dall’amicizia del Signore.
Invece gli altri hanno continuato la loro vita definiti unicamente dal loro campo, dai loro buoi e dalla loro donna. È meglio essere dei disgraziati che si lasciano afferrare da Cristo, che dei ricchi e dei grandi che non vogliono riconoscere il tesoro gratuito della sua amicizia. Infatti, quelli che sono definiti dall’amicizia di Cristo, anche nella miseria, sono come agganciati a un senso infinito della vita che non li deluderà mai; invece quelli che rifiutano l’amicizia del Signore sono costretti a vedere il senso della loro vita seguire il destino caduco del loro campo, dei loro buoi e della loro moglie.
Allora, credo che sia importante per noi aiutarci da una parte a riconoscere l’invito alla comunione con Lui che il Signore ci fa personalmente; dall’altra a rimanere presi da questo avvenimento, e rinnovarne la memoria e l’esperienza, al cuore della vita presente, gustando tutto il succo di questa familiarità con Cristo che ci è data gratuitamente e sempre di nuovo.
Ciò è importante per noi, ma anche per tutti, per tutta l’umanità. P. Mauro-G. Lepori – Ritiro della Fraternità – Avvento – Hauterive, 2.12.06
NIENTE DI PIÙ CARO DI CRISTO
Un bisogno astratto
Perché siamo qui? Perché questo ritiro? Perché il tempo dell’Avvento?
Perché abbiamo bisogno di Cristo. Abbiamo bisogno di Lui, e abbiamo bisogno di ricentrare questo bisogno nella nostra vita, nella nostra coscienza, nel nostro cuore. La verità della nostra vita, la verità della vita di ogni uomo, è che abbiamo bisogno di Gesù. Ma dimentichiamo questo bisogno, lo trascuriamo, ne siamo distratti. Distratti come coscienza di questo bisogno nell’istante presente, cioè nella realtà della nostra vita. Affermiamo nella fede, o per abitudine, che abbiamo bisogno di Gesù, ma nel nostro cuore questo bisogno è astratto, nel senso etimologico del termine abstractus: tirato fuori, allontanato, strappato. Questa astrazione significa che, nel momento stesso in cui viviamo, nel momento stesso in cui siamo presenti, qui ed ora, nella nostra vita, il bisogno di Gesù è dimenticato, è lontano, resta ai margini della coscienza che abbiamo della nostra vita. È come qualcuno che pesa 150 chili. Sa che deve dimagrire, ma quando si trova davanti al cibo, dimentica questo bisogno, afferra il cibo mettendo il suo bisogno di dimagrire, il suo bisogno di salute, sotto il tavolo. Solamente quando ha preso, mangiato, dopo che ha consumato tutto, quando non resta più niente, e rimane lì con lo stomaco e la testa pesanti, sonnecchiando, gli dispiace di non avere pensato al suo bisogno di dimagrire. Questo bisogno è un’idea astratta, un’astrazione che non determina la sua coscienza del momento presente. Ma l’esempio non è perfetto, perché il bisogno di Gesù non è il bisogno di rinunciare a qualcosa, il bisogno di mortificare la nostra presa sul reale, un bisogno di svuotarsi, ma un bisogno di pienezza, un bisogno di vivere in pienezza, di afferrare veramente il reale con un centuplo di gusto. È vero che per sentire il bisogno di Gesù bisogna anche mortificare altri desideri, ma quando il rapporto con Cristo è focalizzato troppo sulla rinuncia, si rischia di perdere il vero valore di Cristo per noi, che è una pienezza di vita, una pienezza di intensità di relazione col reale, una pienezza di possesso dell’istante presente.
In ogni modo, è nell’istante presente che dimentichiamo il nostro bisogno di Cristo, e quando ci sentiamo insoddisfatti, dimentichiamo di avere dimenticato questo bisogno, di modo che diventa anche difficile una ripresa, una conversione, una contrizione che chiede, che mendica Cristo e che approfondisce così la coscienza di questo bisogno. Ma quando ci rendiamo conto di avere dimenticato il bisogno di Cristo, diciamo: «Bisogna che ci pensi la prossima volta». Ma se voglio pensarci solamente «la prossima volta», è ancora un’astrazione. Cristo non è un bisogno per certe circostanze speciali, o addirittura pericolose: è il bisogno di tutta la nostra vita. E se non recupero la coscienza di questo bisogno ora, qui e ora, la «prossima occasione» sarà mancata come la precedente.
Cristo, infatti, è innanzitutto necessario al nostro «io», non alle circostanze in quanto tali. Sono innanzitutto io che ho bisogno di Lui, io in quanto «io», in quanto persona, in quanto cuore che vive, pensa, soffre, gioisce, ora. Il vero istante presente della nostra vita è il nostro cuore, la nostra coscienza. È il nostro cuore che costituisce l’istante presente che chiede un senso, e ciò prima di quello che stiamo facendo, dicendo, provando. Ma è altrettanto vero che se non stessi impattandomi col reale, non sentirei adesso che il mio cuore c’è, che desidera, che soffre, che è felice, che aspetta qualcuno.
La verità nella coscienza di noi stessi è di sentire che il nostro cuore ha bisogno di Cristo nell’istante che stiamo vivendo, e di sentirlo non solo come «soluzione» di ciò che stiamo vivendo, ma come «soluzione» del mistero del nostro cuore.
«Soluzione» è una parola che etimologicamente significa «liberazione». Deriva dal latino solvere che vuole dire «sciogliere». Cristo è la liberazione del nostro cuore nelle circostanze presenti della vita. Il segno che Cristo ci salva è che viviamo liberi nelle circostanze, liberi senza dover fuggire le circostanze, liberi interiormente anche in mezzo alle peggiori costrizioni della vita.
Il grande invito
C’è una parabola di Gesù che illustra bene la posta in gioco di questa liberazione e la facilità con la quale la rifiutiamo.
«Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, è pronto”. Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: “Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato”. Un altro disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato”. Un altro disse: “Ho preso moglie e perciò non posso venire”. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi”.» (Lc 14,16-21).
Questa parabola ci interpella perché illustra la posta in gioco del nostro rapporto con Cristo nelle circostanze della vita presente. Difatti, tutti quelli che rifiutano l’invito alla cena, avanzano delle giustificazioni legate alla vita quotidiana di ogni essere umano: un campo, cinque paia di buoi, un matrimonio, dunque i beni che si hanno, il lavoro che si fa, le relazioni che definiscono un’esistenza.
Ora, bisogna notare che in questa parabola la questione non è tanto la chiamata a seguire il Signore lasciando il proprio campo, il proprio lavoro, la propria famiglia per ricevere il centuplo e la vita eterna: qui, queste persone sono chiamate solamente ad andare dal signore per una cena festosa. Il campo acquistato non può aspettare alcune ore prima di essere visto? I buoi non possono aspettare un po’ prima di essere provati? La giovane donna che si è appena sposata non può restare sola per poche ore, quando si ha tutta la vita coniugale davanti a sé?
Perché queste persone rifiutano l’invito? Le loro scuse non tengono; nessuna è urgente, nessuna è veramente un’alternativa al pasto offerto da questo signore.
La vera ragione del rifiuto è la poca importanza che questi invitati danno all’invito, e dunque all’uomo che li invita. Se non hanno paura di rifiutare, vuol dire che questo uomo non ha nemmeno potere, non è un re o un padrone potente. Capiamo allora che la sola ragione per accettare il suo invito sarebbe dovuta essere la sua amicizia. Invita al banchetto solo per amicizia e per fra crescere l’amicizia. È la sua amicizia che questi invitati rifiutano, è la sua amicizia che disprezzano.
Ma se queste persone rifiutano per fare e vivere altro, ciò significa che l’amicizia offerta dal signore non riguarda queste «altre cose», non riguarda la realtà della vita quotidiana, non riguarda ciò che possiedono, il loro lavoro e la loro vita affettiva e famigliare. Non li riguarda nel senso che non vedono e non credono che l’amicizia con questo signore possa avere un’influenza positiva sulla realtà della loro vita. Insomma, pensano che non guadagneranno niente ad andare a perdere alcune ore per mangiare e bere con lui. Ancor peggio: pensano che se accettano l’invito ci perderanno, ci perderanno a livello del possesso delle cose, a livello della loro attività e del loro lavoro, e a livello delle relazioni e dell’amore. Non credono che ci sia per loro una convenienza a coltivare l’amicizia di questo signore.
In fondo, questa parabola descrive la natura della grande crisi della Chiesa in Occidente, la grande crisi che ha svuotato le chiese, che ha reso formale e scheletrica la vita della maggioranza delle parrocchie, che ha laicizzato le scuole cattoliche, i media cattolici, gli ospedali cattolici, ecc. La crisi non consiste anzitutto nel fatto che si pratica statisticamente meno e ci si impegna meno per la Chiesa. Ciò è una conseguenza. La crisi sta nel fatto che Cristo non è percepito più come qualcuno che conviene alla nostra vita reale, quotidiana, umana. E se le chiese si svuotano, ciò mostra forse che quando erano ancora piene, la crisi era già presente, perché già non si vedeva più come il fatto di andare a Messa, di osservare il precetto della domenica, di partecipare a certi gesti della Chiesa, ecc., poteva essere conveniente e vantaggioso per la vita reale dei fedeli, cioè poteva rendere la vita migliore, più intensa, più umana, più felice. Queste pratiche non erano già più vissute come esperienza e rinnovo dell’avvenimento di Cristo che salva la vita qui e ora.
Ma questa crisi è anche in ciascuno di noi, ci infetta come un virus, e noi dobbiamo guardarla in faccia per non passare a lato di un’esperienza possibile di pienezza per la nostra vita.
Ritorniamo alla parabola della grande cena raccontata da Gesù. Rifiutando di accettare l’invito, e dunque rifiutando l’amicizia del signore che li invitava, che cosa è accaduto a queste persone? Apparentemente, niente di particolare. Certamente, andare al banchetto non avrebbe allargato il loro campo, né l’avrebbe reso più fertile, non avrebbe aumentato neanche il numero o la forza dei loro buoi, e non avrebbe reso la loro donna più bella e gradevole. Inoltre, il fatto di non andarci non ha causato probabilmente alcun danno apparente alla loro proprietà, al loro lavoro e alla loro famiglia.
Ma tutta la differenza sarebbe stata l’amicizia di colui che li invitava. La differenza sarebbe stata che accettando l’invito avrebbero mantenuto e approfondito la ripercussione dell’amicizia di questo signore nella loro vita, nel loro lavoro, nel loro modo di possedere le cose, nelle loro relazioni famigliari; avrebbero potuto continuare a vivere la loro vita di tutti i giorni come amici di questo signore, come amici più stretti di questo padrone. La cena avrebbe mantenuto e avrebbe fatto crescere la loro comunione di amicizia con lui, e ciò li avrebbe accompagnati sempre e in ogni cosa. Il signore sarebbe diventato loro più caro, ed essi avrebbero avuto una coscienza più chiara di quanto erano cari e preziosi ai suoi occhi. Tutto ciò, anche se non avesse cambiato niente, avrebbe dato un gusto diverso, un’intensità diversa a tutta la loro vita. Tutta la loro vita, anche nei suoi aspetti più rustici, più duri, come arare il campo coi buoi, sarebbe stata come abbracciata nella coscienza di un amore, di una predilezione, di una preferenza che avrebbe cambiato tutto nel loro cuore, nella coscienza del loro cuore. Sarebbe stata l’esperienza descritta da Romano Guardini nella frase così spesso citata da don Giussani: «Quando si fa l’esperienza di un grande amore, tutto diventa un avvenimento nel suo ambito».
La trasfigurazione del negativo
Ma questa parabola è ancor più illuminante sull’influsso che l’amicizia di Cristo può avere sulla vita e il suo senso, a partire dal cuore dell’uomo che accoglie il suo invito alla comunione. Difatti, ciò che queste persone hanno rifiutato per le cose belle e normali della vita, ecco che i poveri l’hanno accettato per le cose sgradevoli. Anche «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» che il padrone ha fatto invitare al posto dei fortunati che rifiutavano, non hanno visto la loro vita cambiare visibilmente accettando di andare alla cena. Alla fine del pasto, a parte il fatto che hanno per una volta mangiato a sazietà, sono ritornati alla loro vita, poveri, storpi, ciechi e zoppi come erano prima di andarci.
Ma hanno accolto l’amicizia del signore, ed è in quanto amici del padrone che hanno potuto continuare la loro vita ordinaria, anche se miserabile. Ciò non ha cambiato niente; eppure ciò ha cambiato tutto. Hanno potuto vivere con una coscienza nuova di loro stessi, anche delle loro miserie. Hanno potuto vivere con la coscienza di essere amati e di avere valore agli occhi del signore che li aveva invitati e aveva mangiato, bevuto e conversato con loro. E le loro miserie, le loro difficoltà, alla luce dell’attenzione del padrone, diventavano paradossalmente come una messa in evidenza del suo amore, una sottolineatura della sua amicizia, molto più che i beni e il benessere degli altri. Le loro miserie e sventure facevano sì che per essi dire che il padrone era loro caro, che era per loro la persona più cara al mondo, era un’evidenza e un’esperienza del cuore che non trovava né in loro stessi né negli altri nessuna possibilità di contestazione, nessun argomento per dubitarne. Per dei poveri, degli storpi, dei ciechi e degli zoppi, diventare amici di un signore al punto da condividere la sua tavola di festa era al tempo di Gesù una cosa dal valore incontestabile.
L’amicizia di Dio in Cristo, nell’umanità di Cristo, nella Chiesa, è un dono gratuito che dà un senso a tutto, agli aspetti positivi e negativi dell’esistenza. Ma il problema è di accoglierla, di lasciarsi amare così come si è, e di avere una stima di questa amicizia come se niente nella nostra vita ci definisse più di essa, più della coscienza di questa amicizia. In fondo, è meno grave rinnegare e tradire questa amicizia, peccare contro questa amicizia, che non stimarla, che essere indifferenti nei suoi confronti. San Pietro ha rinnegato Cristo, ma nemmeno per un secondo il suo cuore ha potuto disprezzare l’amicizia di Cristo. Il problema di Giuda, invece, non è stato quello di tradire Gesù, ma di aver disprezzato la sua amicizia al punto da venderla per trenta denari e servirsi dell’amicizia di Gesù, del bacio come segno di amicizia, per poter farlo arrestare più facilmente.
Possiamo pensare allora alla nostra vita di tutti i giorni. Quanti inviti al banchetto del Signore riceviamo ogni giorno, quanti segni della sua predilezione! L’Eucaristia, la preghiera, il dono di una comunità, di una famiglia cristiana, dei tanti incontri e delle parole che ci trasmettono la sua presenza: tutto nell’esperienza della Chiesa, tutto nella Chiesa, è invito alla «grande cena» della comunione di Cristo. Accettiamo veramente questi inviti? Non nel senso di essere pii, perché ci sono dei modi di vivere la pietà che non si mettono a tavola con Cristo presente qui e ora nella nostra vita.
Dobbiamo misurare invece la nostra apertura all’invito di Cristo dal fatto che ci diventa più caro là dove siamo chiamati a vivere, e nella realtà che ci è data adesso. Il problema è di testimoniare se l’amicizia gratuita del Signore, e non la morale del Signore o le idee sul Signore, ci è preziosa nel nostro rapporto col lavoro, con le cose, con le persone e anche con le nostre miserie fisiche e morali. E di permettere a questo sentimento di preferenza per Lui, creato dalla sua preferenza per noi, di ricreare la nostra vita reale, anche senza poterla cambiare. Il problema è se siamo presi da Lui nella nostra vita reale, in ogni istante, dunque se apparteniamo a Lui. E di sentire che ciò ci definisce, che diventa sempre più, malgrado tutto, la definizione di chi siamo.
Se fino a quel giorno i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi della parabola (ma nella vita di Cristo questa non è stata solamente una parabola: era la realtà di intere folle di disgraziati!) erano definiti dalla povertà, dall’handicap o dalla cecità, a partire da questa cena non si sentivano più definiti da ciò, solamente da ciò, ma soprattutto dall’amicizia del Signore.
Invece gli altri hanno continuato la loro vita definiti unicamente dal loro campo, dai loro buoi e dalla loro donna. È meglio essere dei disgraziati che si lasciano afferrare da Cristo, che dei ricchi e dei grandi che non vogliono riconoscere il tesoro gratuito della sua amicizia. Infatti, quelli che sono definiti dall’amicizia di Cristo, anche nella miseria, sono come agganciati a un senso infinito della vita che non li deluderà mai; invece quelli che rifiutano l’amicizia del Signore sono costretti a vedere il senso della loro vita seguire il destino caduco del loro campo, dei loro buoi e della loro moglie.
Allora, credo che sia importante per noi aiutarci da una parte a riconoscere l’invito alla comunione con Lui che il Signore ci fa personalmente; dall’altra a rimanere presi da questo avvenimento, e rinnovarne la memoria e l’esperienza, al cuore della vita presente, gustando tutto il succo di questa familiarità con Cristo che ci è data gratuitamente e sempre di nuovo.
Ciò è importante per noi, ma anche per tutti, per tutta l’umanità. Una persona che vive la sua vita di tutti i giorni rimanendo presa dall’amicizia di Cristo diventa essa stessa invito alla grande cena del Signore, diventa essa stessa invito a lasciarsi afferrare dalla comunione di Cristo che rinnova la vita. La sua vita concreta, la sua vita reale diventa questo invito, cioè il suo lavoro, il suo rapporto con la moglie o il marito, il suo rapporto con le cose, e anche, e talvolta soprattutto, il suo rapporto con le proprie miserie, la propria povertà, la propria condizione di peccatore: tutto nella nostra vita può diventare invito che Cristo rivolge a tutti e a ciascuno ad entrare nella comunione con Lui.
Quale intensità di vita, se si vivesse con questa coscienza, se si fosse coscienti che anche il modo di pulire la casa, di cucinare, di lavare l’auto, può diventare grido di invito al banchetto di Cristo! È la caratteristica della morale cristiana di non essere centrata sulle sue esigenze, ma sulla preferenza data a Cristo. Il proprio e l’essenziale della morale cristiana è di non preferire nulla a Cristo, di non avere niente di più caro di Cristo, almeno come desiderio, almeno come coscienza. E ciò fa sì che la caratteristica della vita cristiana, prima di essere una coerenza, è l’unità della vita che si crea intorno a questa preferenza, un’unità che abbraccia e recupera anche e soprattutto l’esperienza della debolezza, del rinnegamento, del peccato.
Se sono peccatore, non sono coerente, ma posso ancora e sempre preferire Cristo, non avere niente di più caro di Cristo, come Pietro; e questa preferenza distrugge la radice del peccato, guarisce il peccato dalla sua radice, perché la radice del peccato è il disprezzo di Dio. Ma se Cristo mi è caro, se almeno desidero che mi sia più caro di tutto, ciò contraddice il disprezzo di Dio, e il cuore del peccatore guarisce per primo, per poi trasformare tutta la vita.
Il paradosso dei pubblicani che si sono lasciati salvare da Cristo più facilmente dei farisei si spiega così: hanno semplicemente preferito Cristo a loro stessi, mentre i farisei hanno avuto cara la loro coerenza, la loro rettitudine morale più di Cristo e della sua Salvezza.
Un invito totalmente gratuito
Come dunque Gesù ci diventa più caro? Perché è questa la grande questione, il grande bisogno del nostro cuore, la grande mutazione ontologica della nostra esistenza. Come ci diventa più caro, nonostante l’evidenza del fatto che mille altre realtà ci sono spesso più care di Lui?
Il grande pericolo di fronte a questa domanda, a questa esigenza del cuore e della vita, è quello di pensare che siamo noi che dobbiamo rendercelo più caro, noi che dobbiamo sforzarci, deciderci, impegnarci, a fare di Cristo la cosa più preziosa della nostra vita. Questo pensiero è una tentazione sottile che può falsare tutto. Infatti, se il valore di Cristo per la nostra vita dipende dal nostro sforzo, è come se annulliamo a priori questo valore, perché inevitabilmente il nostro sforzo per Lui diventa più prezioso di Lui. Se il valore di Cristo per la nostra vita dipende dal nostro sforzo, allora il nostro sforzo è più importante di Lui. Pietro ha dovuto affrontare questa tentazione, e ha ceduto, fino all’esperienza del rinnegamento. La sua santità è stata di comprendere che il rinnegamento non distruggeva il valore che Cristo aveva per lui, ma il valore che egli dava a se stesso. Abbiamo tutti bisogno di fallire un giorno nel nostro sforzo per preferire Cristo, per purificare la nostra preferenza di Cristo dalla preferenza di noi stessi, e accogliere così da Gesù la grazia di non avere niente di più caro di Lui.
Nella parabola dell’invito alla grande cena, infatti, la cosa più importante è la gratuità dell’invito del Signore. È in una totale gratuità che il padrone fa invitare i ricchi ed i poveri.
Questa gratuità fa sì che l’invito è un avvenimento. L’invito che Cristo ci fa alla comunione con Lui è un avvenimento perché è gratuito. Nessuno degli invitati, sia i ricchi che i poveri, ha meritato questo invito. Stavano lavorando nel loro campo, facendo del commercio, arando coi loro buoi, stavano divertendosi con la loro donna o stavano mendicando sul ciglio della strada un pezzo di pane, mostrando le loro membra storpie, stavano avanzando faticosamente sulla strada perché i loro occhi erano ciechi, stavano maledicendo la vita perché erano malati e poveri, ed ecco che piomba su di loro un invito inatteso: il Signore che fa dire loro: «Vieni a cenare con me! Vieni a vivere con me un tempo gratuito di amicizia, di comunione!».
Di fronte a questo invito inatteso e sorprendente, il vantaggio dei poveri e dei disgraziati, rispetto ai ricchi e ai potenti, è che non hanno niente da difendere di fronte alla gratuità, e, nella condizione in cui si trovano, possono meglio di tutti misurare la sproporzione della gratuità del Signore. I ricchi invece, abituati a mangiare bene, hanno misurato meno bene la gratuità dell’amicizia del Signore. I poveri hanno intuito più facilmente che questo invito rispondeva al bisogno del loro cuore.
Questa gratuità dell’avvenimento che può trasformare la nostra vita costituisce anche la ragione della severità del giudizio che Dio pronuncerà su ciascuno di noi. Alla fine della parabola, infatti, Gesù fa dire al padrone: «Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena» (Lc 14,24).
La severità non si riferisce tanto alla punizione che potrebbe colpirci nell’ultimo giorno, quanto a ciò che rifiutiamo oggi. È oggi, è adesso che siamo invitati e che possiamo accettare o rifiutare di gustare la cena del Signore. Impedendo ai primi invitati di trovare posto nella sala, Cristo ci fa comprendere che la vera punizione delle nostre chiusure alla sua gratuità, prima di essere un castigo nell’aldilà, è la privazione di una pienezza di vita qui e ora. Davanti alla gratuità di Dio, la punizione per il rifiuto è già nel fatto di rifiutare questa gratuità, di rifiutare l’amicizia di Cristo, di non lasciarci investire dall’avvenimento che ci accoglie nella sua comunione.
Gustate e vedete
«Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena». Gesù usa qui il verbo «gustare», come nel salmo 33: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33,9; cfr. 1 Pt 2,3).
La posta in gioco è veramente una questione di gusto della vita, di poter meglio gustare la vita, di vivere con gusto a partire dall’esperienza di poter gustare la bontà del Signore che ci invita alla sua cena per condividere la sua amicizia. L’allusione eucaristica è evidente, perché la cena alla quale siamo invitati è la cena in cui gustiamo e vediamo quanto il Signore è buono, la cena in cui gustiamo il Signore nella sua bontà.
L’Eucaristia, con tutta l’esperienza della comunione con Cristo nella Chiesa, nella comunità, dovrebbe farci vivere col gusto del Signore nella bocca, nel cuore, cioè con una memoria palpabile della bontà del Signore che ci fa desiderare di gustare sempre più questa bontà, questo amore, in ogni istante della vita.
Penso a quanto Tommaso da Celano ha scritto di san Francesco in un passo della sua biografia che cerco di rileggere spesso per avere almeno un poco di contrizione per la mia tiepidezza nell’amore di Cristo: «I frati che vissero con lui sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l'abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra.» (Vita prima, II, IX).
È questo il «gusto» diverso che l’avvenimento di Cristo introduce nella vita, se consentiamo a parteciparvi: una preferenza che trasfigura tutti i sensi, tutta la nostra capacità di desiderio, di rapporto, di contatto con la realtà, così che si parla, e Gesù è sulle labbra; si ascolta, e Gesù è negli orecchi; si guarda, e Gesù è negli occhi; si tocca, si manipola la realtà, si lavora, e Gesù è nelle mani; si ama, si desidera, si è contenti o tristi, e Gesù è nel cuore.
Ma questa possibilità di vivere un tale rapporto con Cristo, noi la pensiamo come un sogno di santità futura, perché non crediamo veramente che ciò ci è dato, ci sarebbe dato, dalla gratuità dell’esperienza dell’avvenimento di Cristo che ci prende, che si lascia gustare.
Il problema è che non crediamo veramente e fino in fondo che se Cristo ci è caro, se preferiamo Cristo, la nostra vita diventa avvenimento del suo Avvenimento, una sorpresa continua per noi stessi e per gli altri.
E dimentichiamo anche che Cristo non ci invita alla sua cena affinché compiamo il nostro dovere verso di Lui, o addirittura per accontentare i suoi capricci minacciosi, ma per gustare e vedere la sua bontà, la sua amicizia, e vivere con questo gusto di Lui tutta la vita.
«Vieni, Signore Gesù!»
Alla fine della prima lettera ai Corinzi, san Paolo, dopo avere dettato al suo segretario, aggiunge qualche parola di suo pugno e la firma, perché si veda che è proprio lui l’autore della lettera. Butta giù allora alcune frasi dove, nella sua passione, sembra voler riassumere tutta la posta in gioco e la natura della vita cristiana:
«Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema.
Marana tha: vieni, o Signore!
La grazia del Signore Gesù sia con voi.
Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!» (1 Cor 16,22-24).
«Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema»! È l’amore di Cristo, la preferenza di Cristo che decide della benedizione o della maledizione di una vita. Questa severa messa in guardia sottolinea il fatto positivo che più Cristo ci è caro, e più la vita è benedetta, felice, piena di senso, unita a Dio. Invece, meno Cristo ci è caro, e più la vita si degrada, si deteriora, abbandonata a se stessa, senza la benedizione dell’amicizia del Signore, della comunione con Lui.
Ma se si è veramente coscienti di questa posta in gioco, se si fa l’esperienza che è proprio così che le cose accadono, allora l’atteggiamento più ragionevole, più conforme al nostro bene è quello di chiedere che la presenza di Cristo si manifesti, si renda palpabile, in tutto il suo valore per il nostro cuore e per la nostra vita. Paolo ci fa allora gridare: Marana tha! Vieni, Signore!
È domandando la sua presenza che Cristo ci diventa sempre più caro, perché Cristo è caro, è prezioso. Il suo valore non dipende da noi. E se si manifesta, se chiediamo la sua manifestazione, se domandiamo l’avvenimento della sua presenza nella nostra vita, allora ci sarà caro, sempre più caro; il nostro cuore dovrà riconoscere che Egli è più caro di tutto.
Cristo ci diventa caro nella misura in cui abbiamo bisogno di Lui. E coltivare la domanda della sua manifestazione, «Vieni, Signore!», è un gesto che riconosce questo bisogno, e che lo riconosce oggettivamente, anche se spesso non si sente niente, si è aridi.
Amare il Signore ci è necessario, ci libera, ci salva, ma sappiamo anche che amare il Signore in verità e più di ogni cosa ci è impossibile. Non arriviamo mai ad affermare con la nostra vita che Cristo ci è più caro di tutto. Allora bisogna chiedere, chiedere che Egli si manifesti (Marana tha!) e che possiamo riconoscerlo più caro di tutto.
La verità nella coscienza della nostra vita e del nostro cuore è la domanda che Cristo ci diventi più caro di tutto, perché altrimenti la nostra vita è piena di «anatema», piena di maledizione, di condanna, di non senso. Domandare la sua presenza vuol dire avere la fede che, se Egli si manifesta, potremo apprezzare la sua bontà, assaggiare quanto Egli è buono verso noi, ma anche quanto è bene per noi che Egli sia qui, quanto la sua presenza risponda alle esigenze profonde del cuore e della vita. E questo «gusto» di Cristo che dà sapore alla vita, ce lo renderà ancora più caro, sempre più caro.
San Paolo continua scrivendo: «La grazia del Signore Gesù sia con voi!». La grazia di Cristo è proprio il gusto in noi della sua bontà. La grazia è il gusto del suo amore che dà il giusto sapore a tutte le relazioni, a tutte le circostanze della vita. E questo gusto, desiderato e sperimentato, diventa profumo di colui che ama Cristo, diventa amore universale, carità. Difatti, san Paolo conclude con una frase che esprime tutta l’umanità nuova che ha creato in lui la preferenza di Cristo nella domanda costante della sua presenza e nell’accoglienza della sua grazia: “Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!”
Chi non ha nulla di più caro di Cristo, si riempie della Sua carità che gli dà di amare tutti con pienezza. Il cuore dell’uomo che accoglie come un povero l’invito al banchetto dell’amicizia di Cristo, diventa egli stesso un vivente e universale invito a preferire Cristo e il suo amore.
(traduzione di Antonio Tombolini
Quale intensità di vita, se si vivesse con questa coscienza, se si fosse coscienti che anche il modo di pulire la casa, di cucinare, di lavare l’auto, può diventare grido di invito al banchetto di Cristo! È la caratteristica della morale cristiana di non essere centrata sulle sue esigenze, ma sulla preferenza data a Cristo. Il proprio e l’essenziale della morale cristiana è di non preferire nulla a Cristo, di non avere niente di più caro di Cristo, almeno come desiderio, almeno come coscienza. E ciò fa sì che la caratteristica della vita cristiana, prima di essere una coerenza, è l’unità della vita che si crea intorno a questa preferenza, un’unità che abbraccia e recupera anche e soprattutto l’esperienza della debolezza, del rinnegamento, del peccato.
Se sono peccatore, non sono coerente, ma posso ancora e sempre preferire Cristo, non avere niente di più caro di Cristo, come Pietro; e questa preferenza distrugge la radice del peccato, guarisce il peccato dalla sua radice, perché la radice del peccato è il disprezzo di Dio. Ma se Cristo mi è caro, se almeno desidero che mi sia più caro di tutto, ciò contraddice il disprezzo di Dio, e il cuore del peccatore guarisce per primo, per poi trasformare tutta la vita.
Il paradosso dei pubblicani che si sono lasciati salvare da Cristo più facilmente dei farisei si spiega così: hanno semplicemente preferito Cristo a loro stessi, mentre i farisei hanno avuto cara la loro coerenza, la loro rettitudine morale più di Cristo e della sua Salvezza.
Un invito totalmente gratuito
Come dunque Gesù ci diventa più caro? Perché è questa la grande questione, il grande bisogno del nostro cuore, la grande mutazione ontologica della nostra esistenza. Come ci diventa più caro, nonostante l’evidenza del fatto che mille altre realtà ci sono spesso più care di Lui?
Il grande pericolo di fronte a questa domanda, a questa esigenza del cuore e della vita, è quello di pensare che siamo noi che dobbiamo rendercelo più caro, noi che dobbiamo sforzarci, deciderci, impegnarci, a fare di Cristo la cosa più preziosa della nostra vita. Questo pensiero è una tentazione sottile che può falsare tutto. Infatti, se il valore di Cristo per la nostra vita dipende dal nostro sforzo, è come se annulliamo a priori questo valore, perché inevitabilmente il nostro sforzo per Lui diventa più prezioso di Lui. Se il valore di Cristo per la nostra vita dipende dal nostro sforzo, allora il nostro sforzo è più importante di Lui. Pietro ha dovuto affrontare questa tentazione, e ha ceduto, fino all’esperienza del rinnegamento. La sua santità è stata di comprendere che il rinnegamento non distruggeva il valore che Cristo aveva per lui, ma il valore che egli dava a se stesso. Abbiamo tutti bisogno di fallire un giorno nel nostro sforzo per preferire Cristo, per purificare la nostra preferenza di Cristo dalla preferenza di noi stessi, e accogliere così da Gesù la grazia di non avere niente di più caro di Lui.
Nella parabola dell’invito alla grande cena, infatti, la cosa più importante è la gratuità dell’invito del Signore. È in una totale gratuità che il padrone fa invitare i ricchi ed i poveri.
Questa gratuità fa sì che l’invito è un avvenimento. L’invito che Cristo ci fa alla comunione con Lui è un avvenimento perché è gratuito. Nessuno degli invitati, sia i ricchi che i poveri, ha meritato questo invito. Stavano lavorando nel loro campo, facendo del commercio, arando coi loro buoi, stavano divertendosi con la loro donna o stavano mendicando sul ciglio della strada un pezzo di pane, mostrando le loro membra storpie, stavano avanzando faticosamente sulla strada perché i loro occhi erano ciechi, stavano maledicendo la vita perché erano malati e poveri, ed ecco che piomba su di loro un invito inatteso: il Signore che fa dire loro: «Vieni a cenare con me! Vieni a vivere con me un tempo gratuito di amicizia, di comunione!».
Di fronte a questo invito inatteso e sorprendente, il vantaggio dei poveri e dei disgraziati, rispetto ai ricchi e ai potenti, è che non hanno niente da difendere di fronte alla gratuità, e, nella condizione in cui si trovano, possono meglio di tutti misurare la sproporzione della gratuità del Signore. I ricchi invece, abituati a mangiare bene, hanno misurato meno bene la gratuità dell’amicizia del Signore. I poveri hanno intuito più facilmente che questo invito rispondeva al bisogno del loro cuore.
Questa gratuità dell’avvenimento che può trasformare la nostra vita costituisce anche la ragione della severità del giudizio che Dio pronuncerà su ciascuno di noi. Alla fine della parabola, infatti, Gesù fa dire al padrone: «Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena» (Lc 14,24).
La severità non si riferisce tanto alla punizione che potrebbe colpirci nell’ultimo giorno, quanto a ciò che rifiutiamo oggi. È oggi, è adesso che siamo invitati e che possiamo accettare o rifiutare di gustare la cena del Signore. Impedendo ai primi invitati di trovare posto nella sala, Cristo ci fa comprendere che la vera punizione delle nostre chiusure alla sua gratuità, prima di essere un castigo nell’aldilà, è la privazione di una pienezza di vita qui e ora. Davanti alla gratuità di Dio, la punizione per il rifiuto è già nel fatto di rifiutare questa gratuità, di rifiutare l’amicizia di Cristo, di non lasciarci investire dall’avvenimento che ci accoglie nella sua comunione.
Gustate e vedete
«Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati gusterà la mia cena». Gesù usa qui il verbo «gustare», come nel salmo 33: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33,9; cfr. 1 Pt 2,3).
La posta in gioco è veramente una questione di gusto della vita, di poter meglio gustare la vita, di vivere con gusto a partire dall’esperienza di poter gustare la bontà del Signore che ci invita alla sua cena per condividere la sua amicizia. L’allusione eucaristica è evidente, perché la cena alla quale siamo invitati è la cena in cui gustiamo e vediamo quanto il Signore è buono, la cena in cui gustiamo il Signore nella sua bontà.
L’Eucaristia, con tutta l’esperienza della comunione con Cristo nella Chiesa, nella comunità, dovrebbe farci vivere col gusto del Signore nella bocca, nel cuore, cioè con una memoria palpabile della bontà del Signore che ci fa desiderare di gustare sempre più questa bontà, questo amore, in ogni istante della vita.
Penso a quanto Tommaso da Celano ha scritto di san Francesco in un passo della sua biografia che cerco di rileggere spesso per avere almeno un poco di contrizione per la mia tiepidezza nell’amore di Cristo: «I frati che vissero con lui sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l'abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra.» (Vita prima, II, IX).
È questo il «gusto» diverso che l’avvenimento di Cristo introduce nella vita, se consentiamo a parteciparvi: una preferenza che trasfigura tutti i sensi, tutta la nostra capacità di desiderio, di rapporto, di contatto con la realtà, così che si parla, e Gesù è sulle labbra; si ascolta, e Gesù è negli orecchi; si guarda, e Gesù è negli occhi; si tocca, si manipola la realtà, si lavora, e Gesù è nelle mani; si ama, si desidera, si è contenti o tristi, e Gesù è nel cuore.
Ma questa possibilità di vivere un tale rapporto con Cristo, noi la pensiamo come un sogno di santità futura, perché non crediamo veramente che ciò ci è dato, ci sarebbe dato, dalla gratuità dell’esperienza dell’avvenimento di Cristo che ci prende, che si lascia gustare.
Il problema è che non crediamo veramente e fino in fondo che se Cristo ci è caro, se preferiamo Cristo, la nostra vita diventa avvenimento del suo Avvenimento, una sorpresa continua per noi stessi e per gli altri.
E dimentichiamo anche che Cristo non ci invita alla sua cena affinché compiamo il nostro dovere verso di Lui, o addirittura per accontentare i suoi capricci minacciosi, ma per gustare e vedere la sua bontà, la sua amicizia, e vivere con questo gusto di Lui tutta la vita.
«Vieni, Signore Gesù!»
Alla fine della prima lettera ai Corinzi, san Paolo, dopo avere dettato al suo segretario, aggiunge qualche parola di suo pugno e la firma, perché si veda che è proprio lui l’autore della lettera. Butta giù allora alcune frasi dove, nella sua passione, sembra voler riassumere tutta la posta in gioco e la natura della vita cristiana:
«Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema.
Marana tha: vieni, o Signore!
La grazia del Signore Gesù sia con voi.
Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!» (1 Cor 16,22-24).
«Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema»! È l’amore di Cristo, la preferenza di Cristo che decide della benedizione o della maledizione di una vita. Questa severa messa in guardia sottolinea il fatto positivo che più Cristo ci è caro, e più la vita è benedetta, felice, piena di senso, unita a Dio. Invece, meno Cristo ci è caro, e più la vita si degrada, si deteriora, abbandonata a se stessa, senza la benedizione dell’amicizia del Signore, della comunione con Lui.
Ma se si è veramente coscienti di questa posta in gioco, se si fa l’esperienza che è proprio così che le cose accadono, allora l’atteggiamento più ragionevole, più conforme al nostro bene è quello di chiedere che la presenza di Cristo si manifesti, si renda palpabile, in tutto il suo valore per il nostro cuore e per la nostra vita. Paolo ci fa allora gridare: Marana tha! Vieni, Signore!
È domandando la sua presenza che Cristo ci diventa sempre più caro, perché Cristo è caro, è prezioso. Il suo valore non dipende da noi. E se si manifesta, se chiediamo la sua manifestazione, se domandiamo l’avvenimento della sua presenza nella nostra vita, allora ci sarà caro, sempre più caro; il nostro cuore dovrà riconoscere che Egli è più caro di tutto.
Cristo ci diventa caro nella misura in cui abbiamo bisogno di Lui. E coltivare la domanda della sua manifestazione, «Vieni, Signore!», è un gesto che riconosce questo bisogno, e che lo riconosce oggettivamente, anche se spesso non si sente niente, si è aridi.
Amare il Signore ci è necessario, ci libera, ci salva, ma sappiamo anche che amare il Signore in verità e più di ogni cosa ci è impossibile. Non arriviamo mai ad affermare con la nostra vita che Cristo ci è più caro di tutto. Allora bisogna chiedere, chiedere che Egli si manifesti (Marana tha!) e che possiamo riconoscerlo più caro di tutto.
La verità nella coscienza della nostra vita e del nostro cuore è la domanda che Cristo ci diventi più caro di tutto, perché altrimenti la nostra vita è piena di «anatema», piena di maledizione, di condanna, di non senso. Domandare la sua presenza vuol dire avere la fede che, se Egli si manifesta, potremo apprezzare la sua bontà, assaggiare quanto Egli è buono verso noi, ma anche quanto è bene per noi che Egli sia qui, quanto la sua presenza risponda alle esigenze profonde del cuore e della vita. E questo «gusto» di Cristo che dà sapore alla vita, ce lo renderà ancora più caro, sempre più caro.
San Paolo continua scrivendo: «La grazia del Signore Gesù sia con voi!». La grazia di Cristo è proprio il gusto in noi della sua bontà. La grazia è il gusto del suo amore che dà il giusto sapore a tutte le relazioni, a tutte le circostanze della vita. E questo gusto, desiderato e sperimentato, diventa profumo di colui che ama Cristo, diventa amore universale, carità. Difatti, san Paolo conclude con una frase che esprime tutta l’umanità nuova che ha creato in lui la preferenza di Cristo nella domanda costante della sua presenza e nell’accoglienza della sua grazia: “Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!”
Chi non ha nulla di più caro di Cristo, si riempie della Sua carità che gli dà di amare tutti con pienezza. Il cuore dell’uomo che accoglie come un povero l’invito al banchetto dell’amicizia di Cristo, diventa egli stesso un vivente e universale invito a preferire Cristo e il suo amore.
(traduzione di Antonio Tombolini
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