Ancora una volta ci si domanda il significato della vita
Eutanasia
Avvenire 07 dicembre 2006
di Eugenia Roccella
Si può davvero essere pienamente padroni della propria vita? Chi oggi combatte per ottenere una legge che consenta l’eutanasia, ritiene che sì, si può. L’autodeterminazione è il principio sovrano a cui uniformarsi e a cui sacrificare tutto, il faro che orienta e illumina ogni decisione. Così la richiesta di morte di Piergiorgio Welby, che di per sé esprime solo il pathos di una ribellione impossibile al Grande Male, diventa la lotta per ottenere il diritto civile di morire quando si vuole. Eppure anche nella vicenda personale di Welby, trasformato in una bandiera vivente che dovrebbe incarnare l’orrore di una vita senza qualità, si rintracciano tutte le contraddizioni di questa assurda battaglia per la morte.
La legge italiana non obbliga nessuno a seguire una terapia contro la propria volontà: quando l’avanzare della malattia gli ha reso impossibile respirare, e gli è stata proposta la tracheostomia, Welby poteva dire no. Invece ha detto sì, acconsentendo a dipendere da quella macchina per la respirazione artificiale che oggi chiede di staccare. Nel suo libro racconta di come la moglie non ce l’abbia fatta a ubbidire alle sue indicazioni, e abbia deciso, nonostante gli accordi, di fargli praticare l’intervento. Ma è difficile accettare l’idea che l’impulso ragionato di una donna che vuole bene sia solo una debolezza, un atto senza valore, catalogabile come un incidente di percorso. L’autodeterminazione può confliggere quindi con altre determinazioni, per esempio con quella di chi è accanto al malato, e mette in gioco la propria vita (e la sua qualità) nella vita quotidiana della persona amata.
E come escludere il medico curante da una decisione sulla vita e la morte di un paziente? Nei confronti del medico oggi c’è una strana ambivalenza, che oscilla tra la delega in bianco e l’assoluta indifferenza per il suo sapere e la sua etica professionale e umana. Quando, nel dibattito sulla procreazione assistita, si trattava di decidere se limitare il numero degli embrioni da impiantare, i sostenitori del referendum affidavano ogni decisione all’esperto. Soltanto lo specialista poteva decidere sulla salute della donna e sulla vita degli embrioni; adesso, invece, far pesare in qualche misura il parere del medico diventa un limite per la volontà liberamente espressa dal paziente. Il compito di chi segue e assiste il malato è ridotto a quello di un semplice esecutore, come se dare la morte non fosse comunque, e per chiunque, un grave problema morale.
I radicali puntano il dito sull’esistenza dell’eutanasia clandestina (appena smentita da Rutelli nella risposta a una interrogazione parlamentare) e chiedono che tutto sia chiarito da una legge, da una casistica burocratica che non faccia sfuggire nulla tra le proprie maglie. La luce dell’autodeterminazione deve illuminare impietosamente anche le zone grigie, i momenti più intimi, in cui magari si preferirebbe essere affidati agli affetti e all’esperienza delle persone più che alla rigidità di una norma. Nel passaggio tra la vita e la morte tutto è ombra, e le valutazioni devono misurarsi con l’unicità di ogni situazione personale. Quello che per qualcuno è davvero una libera decisione, per un altro è solo l’abbandono a un momento di sconforto; e lo stesso trattamento in un caso può essere accanimento terapeutico e in un altro cura essenziale. Solo nel rapporto concreto tra familiari, medico e paziente, tra chi assiste il malato quotidianamente e il malato stesso, si può concordare come si possa svolgere l’accompagnamento alla morte.
Ma per i sostenitori della libera scelta c’è solo una domanda, quella che ha posto Welby all’Ordine dei medici, sentendosi opporre un rifiuto: «È mia ferma decisione rinunciare alla ventilazione polmonare assistita. Staccare la spina mi porterebbe a una agonia lunga e dolorosa. Anche una sedazione protratta nel tempo non mi garantirebbe una morte immediata senza dolore. Chiedo: è possibile che mi sia somministrata una sedazione terminale che mi permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire?» La domanda è esplicita: non il semplice rifiuto della terapia, non il ricorso a cure palliative che leniscano la sofferenza, ma il "colpo di pistola", cioè una sedazione che porti alla morte immediata.
Benché nessuno, nemmeno i radicali, abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, e tutti si affannino a negare che si tratta di eutanasia, di che altro si parla? Dire sì alla richiesta di Welby vuol dire affidare allo Stato il terribile potere di uccidere. Certo, il candidato alla morte deve essere consenziente. Ma chi vigilerà sull’autenticità e libertà di quel consenso, se l’unico interlocutore del malato è lo Stato? Nei Paesi in cui l’eutanasia è legge l’automatismo della morte burocratica tende ad annettersi zone improprie, travalicando e vanificando la libertà dell’individuo. Si comincia ad ammettere l’eutanasia per le sofferenze e il disagio psichici (come in Belgio), poi si tende a giustificarla per i disabili, o per i neonati con scarsa probabilità di sopravvivenza (come in Olanda). I criteri di qualità della vita, astrattamente e rigidamente stabiliti, finiscono per fare dell’eutanasia una forma di pulizia sociale che spazza via i deboli, i poveri, gli incapaci, quelli troppo costosi da curare, quelli che sono un peso per la collettività. Il miraggio dell’autodeterminazione, in questo modo, naufraga nella banalità dei conti pubblici che non tornano, nel mito bugiardo della qualità della vita, nell’ambigua invocazione alla compassione per le sofferenze dell’altro.
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